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Marco
Rovelli, “Servi. Il paese sommerso dei clandestini al
lavoro”
Feltrinelli, Milano
2009.
Maria Rita Fadda
Il volume Servi
dell’eclettico Marco
Rovelli (poeta, narratore e musicista massese) è parte di un
progetto che comprende un omonimo lavoro teatrale, scritto a quattro
mani con Renato Sarti: quando lo spettacolo, asciutto e intenso, sta
per concludersi, l’attore senegalese Mohamed Ba che
accompagna Rovelli sul palco finisce col rompere la finzione scenica e
decide, dopo aver prestato la sua voce e il suo corpo
clandestino alle
storie altrui, di raccontare la propria, in prima persona: ed
è la triste storia di un’aggressione (da lui
subita a Milano nel 2009), una vicenda nel cui fondo limaccioso si
ritrovano tutte le costanti di ciò che lo spettacolo, e
prima ancora il libro, cercano di riportare in superficie, ossia
l’emarginazione, la violenza e il razzismo più o
meno manifesto delle coscienze intorpidite di questo paese. E tale
irruzione, sulla scena, di una realtà che sostituisce la sua
pur coinvolgente rappresentazione non allenta affatto la tensione
drammaturgica: è anzi l’ultima, necessaria tappa
di un percorso che nello spettatore innesca un’adesione
emozionale, la quale si tramuta, poi, di fronte al vivo fluire dei
ricordi di Ba, in piena compartecipazione civile.
Una forte dialettica tra verità nuda e verità
mediata dal racconto caratterizza anche il libro, un
“reportage narrativo” che arriva tre anni dopo
Lager italiani: e se in quest’ultimo
Rovelli aveva esplorato
la condizione di clandestinità vissuta in quei vuoti di
legge e civiltà quali erano i Centri di permanenza
temporanea (e che non diversamente sono, ora, i Centri di
identificazione ed espulsione), con Servi lo
sguardo va oltre la
gabbia, per raccontare come la clandestinità sia a tutti gli
effetti una condizione di schiavitù, oltre che un puntello
su cui si regge l’intero sistema, lo stesso che invece, per
altri versi, si lamenta degli immigrati come fossero una piaga.
Servi
è
certo animato dal
rigore dell’inchiesta, con il suo puntuale corredo mai
freddo, spesso agghiacciante, di numeri e statistiche (le misere paghe
medie di un raccoglitore di arance nel siracusano;
l’incidenza degli irregolari nell’affollamento
delle carceri; le stime sul valore di questa economia sommersa, ecc.).
Senza dubbio, però, il nucleo profondo della ricerca
dell’autore sta nel coro degli immigrati Krysztof, Monsef,
Twum, Tarek, Mihaela, Sergej, Hassan, Bakar, Irina, e molti altri
ancora, ai quali viene ceduta la parola perché ciascuno di
essi possa dare il proprio ritmo al racconto doloroso dello
sradicamento e delle speranze svilite che porta con
sè. Ma, come si diceva, a sostenere il lavoro di
Rovelli è anche una forte vocazione narrativa certamente
diffusa in tutto il testo, e che raggiunge il suo apice nei casi in cui
l’autore cerca pietosamente di ricomporre, con una
riscrittura ‘immaginativa’, una realtà
lacunosa e lacerata, che altri gli hanno solo sussurrato (come la
vicenda di Vlad, da p. 44 in poi).
È però corretto chiarire che l’istanza
narrativa è sempre subordinata all’urgenza del
‘vero’ che trapela e quasi sfugge al lirismo non
occasionale della prosa: un lirismo che tende comunque a mantenersi di
rispettoso appoggio al dovere, sempre prioritario, della testimonianza.
Il lettore viene condotto attraverso gli infiniti inferni in cui
sostano gli immigrati clandestini in Italia, e la composta indignazione
dell’autore poteva affidarsi solo ad una veste stilistica
vibrante, che di fronte all’evidenza sfacciata del sopruso
non può e non vuole opporre distanza emotiva.
E sono davvero infinite le declinazioni dello status di chi
è irregolare. C’è la monotonia grigia
della vita delle badanti, di solito esteuropee, costrette, una volta in
Italia, ad annullare le proprie esistenze pregresse, e a dedicare (non
di rado senza pause) giorni e notti alla cura di anziani malati, e
ciò sotto lo sguardo, a volte guardingo, altre colpevole,
dei familiari: tutto questo per permettere a chi è rimasto a
casa di condurre una vita dignitosa. C’è la
quotidianità squallida di Caterina, giovane madre nigeriana,
prostituta e alcolista, persa nella profonda campagna pugliese a
trascorrere gli ultimi mesi di una vita di eccessi mai scelti per
davvero: un bagaglio forzato per il destino probabile, quasi certo, di
chi nasce a determinate latitudini. C’è poi
l’umanità offesa dei raccoglitori di pomodori nel
foggiano 14 ore filate di lavoro durissimo, costretti a dormire,
ammassati, nella stalla umida del padrone, per poi ricevere niente,
neanche la ridicola paga pattuita, offensiva, appunto, di 50 euro
giornaliere: perché tra gli ostacoli che incontra un
clandestino c’è anche questo, cioè che
nell’assenza dei diritti di base lo sfruttamento diventi
sempre più profondo, e maggiore
l’entità del latrocinio, fino a che non solo si
è vergognosamente sottopagati, ma spesso non si viene pagati
affatto.
Il libro
accoglie anche, a lato, le storie di chi è riuscito
ad vere o conservare un permesso di soggiorno. Ma è uno
status appena più rassicurante, comunque non risolutivo,
perché «il regolare non è che un
potenziale clandestino. Non può permettersi di perdere il
lavoro, altrimenti addio soggiorno» (74). In ogni caso il
papier non basta a sanare le ferite subite nel
percorso, e riesce solo
a tamponare, malamente, le mancanze di una condizione che resta nella
sostanza subalterna. È il caso del liberiano Thomas, tra gli
altri, un immigrato regolare che mentre lavora per uno sfasciacarrozze
perde entrambe le gambe: l’incidente, gravissimo, non
è certo il primo sotto quello stesso padrone, ma questi,
pare evidente, può permettersi un’ottusa
disinvoltura nella manutenzione dei macchinari se dispone di lavoratori
in estremo bisogno, troppo deboli, quindi, per pretendere sicurezza. E
così le gambe di Thomas, le stesse che «gli
avevano reso un ottimo servizio facendogli attraversare Monrovia in
fiamme e la foresta, un mese di foresta, verso la Costa
d’Avorio» (121), non hanno invece resistito alla
giungla ben più selvaggia del lavoro in Italia.
I clandestini, e più largamente gli immigrati, si collocano
ai margini dei margini di un paese che li usa e poi
li scansa,
ricordandosi di loro solo per accusarli di qualcosa: la
realtà che vivono è infatti per lo più
occultata, invisibile, oppure, quando svelata, spesso fraintesa o
manipolata. Le voci che emergono dal libro hanno lingue, religioni e
tradizioni a volte lontanissime, ma il canto, seppure frammentato, non
è dissonante: c’è sempre un portato di
speranza e disperazione nelle storie di tutti. E in molti si riconosce
anche quella forte, irrisolvibile commistione fatta di dolore del
distacco e paura del ritorno, quel “non essere
più” che fatica a tramutarsi in “essere
qualcos’altro”. Eloquenti, in questo senso, le
parole di Shawky, egiziano: «quando vado al mio paese mi
manca qualcosa, torno qua e mi manca ancora qualcosa, perché
io sono diviso a metà. La mia cultura non la vendo, ma
qualcosa di questo paese che mi ha ospitato ormai è
inseparabile da me» (90). Nei confronti di Shawky, come di
Mehedi, Bogdan, Malik, Yodit e degli altri come loro, la
società ha un debito ingente, che è anche, ma non
solo, un debito di verità: ed in questa direzione Servi
muove, con decisione, un primo passo.
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[4 genniao 2011]
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