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Due
libri sull'università.
Pierluigi
Pellini, La riforma Moratti non esiste
Il Saggiatore, Milano 2006, pp. 96, € 7.
Gigi Roggero, Intelligenze fuggitive. Movimenti contro
l’università azienda
manifestolibri, Roma 2005, pp. 144, € 14.
Lorenzo Giustolisi
Il pamphlet di
Pierluigi Pellini La riforma Moratti non esiste rappresenta
forse la punta più avanzata di una riflessione riformista
all’interno dell’università da parte di
un giovane e coraggioso docente, e ci dice fin dove può
arrivare la resistenza del corpo accademico (nella sua parte migliore)
ai piani di smantellamento dell’istituzione pubblica che sono
sotto gli occhi di chi vuol vedere. Il centro del libro è
costituito da una corrosiva e divertente critica alla
“Riforma Moratti” che, inserendosi nella linea
Zecchino-Berlinguer, “non cambia (quasi) niente”, a
parte la legittimazione dei “ricercatori
aziendali”, il rifiuto di istituire la terza fascia della
docenza, il raddoppiamento delle 60 ore di docenza obbligatoria a 120,
peggioramenti e confusione nel sistema concorsuale (non così
poco in realtà…). Lo scempio simbolico, scrive
Pellini, è stato accompagnato da uno scempio reale
“scritto in finanziaria, e non da
quest’anno.” (p. 31); insieme, non meno desolante,
alla rumorosa ma in realtà modesta opposizione di rettori,
presidi, ordinari e associati; e soprattutto dei ricercatori, insieme
ai precari coloro che tengono in piedi gran parte dei corsi,
“che rinunciando alle supplenze (altra minaccia virtuale,
declassata dai fatti a pura gag) avrebbero potuto bloccare
l’università. A costo zero, senza rischi:
è un loro diritto; finché vige
l’attuale stato giuridico, nessuno li può
obbligare a tenere corsi. E invece non l’hanno fatto, e non
lo faranno […] soprattutto perché non hanno
fiducia nella possibilità di cambiare un sistema di potere
gestito dai soli ordinari. E allora perché esporsi,
perché inimicarsi i potenti?” (p. 30)
Pellini racconta dell’incredibile mutamento subito dalla
bozza iniziale della “riforma”: un provvedimento di
destra che mirava a smantellare l’università
pubblica. Il decreto approvato è un clamoroso passo indietro
rispetto al progetto originario. Aumenta solo la confusione. La
unificazione delle varie forme di precariato è cancellata
dal maxi-emendamento. La spinta delle corporazioni e dei poteri
universitari ha avuto la meglio, in particolare su quei provvedimenti
che riguardavano il fuori ruolo e l’età
pensionabile. La messa a esaurimento del ruolo dei ricercatori,
inizialmente con decorrenza immediata, è spostata al 2013
(ma, non abolendo il DDL Moratti, il nuovo governo conferma di fatto
questo provvedimento, e il 2013 non è così
lontano…).
Il capitolo centrale del libro è intitolato
“Qualche idea per una riforma vera”.
L’assenza di processi realmente democratici è
esemplificata attraverso il caso di auto-investitura della CRUI,
“una privata associazione di privati cittadini: al pari di
una bocciofila di paese o di una loggia massonica.” Sulla
casualità del secondo esempio sorvolerei, dato che la
questione sta nell’abusiva rappresentanza di soggetti (i
lavoratori) di fatto esclusi dal processo di governo e riforma
dell’università. Ancora più grave il
fatto che al “verticismo dirigista” tanto in voga a
destra come nel centro-sinistra (Modica docet), si siano opposte spinte
corporative dal basso, spiegabili in termini difensivi ma pur sempre
incapaci di leggere la totalità del processo.Si parla
finalmente dei “precari”
dell’università. Pellini dice giustamente che i
professionisti che occasionalmente prestano le loro competenze alle
università non sono precari: nulla da eccepire.
Ma quando si dice che “un dottorando non è un
ricercatore precario, ma uno studente che ha (in alcuni casi almeno) la
fortuna di avere una borsa di studio che gli permette di vivere
decorosamente e di perfezionare la sua formazione”, e che il
fatto di trovarlo spesso ad adempiere funzioni di segretario, di
docente supplente, di autista, di esaminatore “è
malcostume italico”, allora bisogna dire che la categoria del
malcostume spiega poco, che un supplemento di indagine è
doveroso, e che la questione non è se chiamarlo o meno
precario, ma se di fatto, non sapendolo o non considerandosi tale per
la maggior parte delle volte, non lo sia già.
Un primissimo livello di indagine ci dice ad esempio che negli ultimi
anni il numero dei dottorandi in Italia è aumentato in
maniera notevole. Chi scrive è un dottorando appartenente
alla categoria protetta: nessuna corvée, mai avuto a che
fare con uno studente. Eppure basta volgere solo di poco lo sguardo
verso i dipartimenti scientifici, tanto per fare un esempio, e vedere
come viva in una delle ‘università
modello’ (Siena, ma si potrebbe parlare di qualsiasi altra)
un dottorando di Farmacia che dal lunedì al
venerdì si occupa della ricerca, non finanziata dal privato
(figurarsi!, non è questo il modo in cui il privato entra
nel pubblico, l’aziendalizzazione è una cosa
più complessa), ma indirizzata
all’attività produttiva immediata. Se non vogliamo
chiamarlo lavoro precario ma ricerca disinteressata o formazione
benissimo, ma allora non parliamone più. Non è
ovviamente il caso di Pellini, che qualche pagina dopo si scaglia
contro la moltiplicazione incontrollata di posti di dottorato con e
soprattutto senza borsa. Per le figure universalmente riconosciute come
precarie, gli assegnisti, i borsisti, i docenti a contratto (ma le
tipologie sono una quindicina!), Pellini immagina una semplificazione
accompagnata da un aumento di salari (esistono contratti per docenze
annuali di 30 ore, pagate 1000 euro!) e di diritti
(“precariato accettabile”, ma sarebbe meglio non
teorizzare questo monstrum). Giuste rivendicazioni che ogni sindacato
decente dovrebbe sostenere. Nelle proposte di Pellini, alla fine del
periodo di prova un’ulteriore selezione dovrebbe portare una
parte dei ricercatori ad un impegno a tempo indeterminato nelle
università, il resto ad un impiego
nell’amministrazione pubblica, preferibilmente nella scuola.
Ma non, come si dice nel libro, perché un assegnista ne
saprà comunque più di un diplomato SSIS! Il
corporativismo dei sindacati della scuola esiste, ma non si
può semplificare così il problema
dell’insegnamento nella scuola parlando di “qualche
attempato precario”, e idee come quelle sopra esposte ce le
saremmo aspettate da uno di quei baroni tanto giustamente criticati.
Il passaggio successivo riguarda i concorsi, ed è
particolarmente importante se si pensa che il “reclutamento
straordinario” del quale si parlava all’inizio
desta sospetti anche per la poca chiarezza dei criteri di selezione e
delle modalità concorsuali.
I cosiddetti “concorsi locali” introdotti nella
seconda metà degli anni ’90, non sono mai stati
concorsi locali: “Sono stati e continuano ad essere un ibrido
mostruoso […] coniugano i peggiori difetti del localismo
più anarchico con quelli del controllo baronale esercitato
dalle cordate nazionali” (p. 63), magari sotto forma di
società di settore, con le varie correnti al loro interno.
Peraltro quel minimo di imponderabilità che restava per i
concorsi da ordinario e associato era assolutamente assente in quelli
da ricercatore, vinti puntualmente dal candidato locale (con o senza
merito). Oggi, per l’autonomia, nessuna università
può essere costretta, dal ministero o da chicchessia, ad
assumere un vincitore di concorso, se non è di suo
gradimento.
D’ora in poi tutti i membri delle commissioni concorsuali
saranno sorteggiati. Nei settori controllati da baronie efficienti,
nella lista elettiva non comparirà alcun nome scomodo.
“Che poi si possa chiamare nazionale un concorso che si
svolgerà presso una singola università, e non
presso il ministero (questo prevede la legge Moratti), è
alquanto dubbio.” (p. 59) Al che, del concorso nazionale, si
aggiungerà la burocratica lentezza. Su questo le
controproposte del centrosinistra appaiono sterili: “Il
Senatore [Modica, sempre lui] subordina l’introduzione del
suo sistema favorito (lista aperta e chiamata locale) alla nascita di
una agenzia di valutazione (a ognuno il suo dadà), i cui
oracoli dovrebbero scongiurare le derive localistiche.
Perché se un’università assumesse un
mediocre sarebbe additata a pubblico ludibrio:
mah…” (p. 62).
Un altro punto affrontato da Pellini riguarda le carriere tutte interne
alla stessa università, un unicum italiano, dei Chierici
poco vaganti. I trasferimenti negli ultimi anni sono spariti, giungendo
al paradosso per il quale, nonostante la penuria di posti, ai concorsi
si presentano pochissimi aspiranti vista
l’impossibilità di superare il candidato locale.
Si riflette poi sulla valutazione, sia dei docenti strutturati che dei
giovani ricercatori in sede di concorsi: gli organismi nazionali di
valutazione sono dei carrozzoni soggetti inevitabilmente a pressioni di
ogni tipo: “I liberisti italiani, forzaitalioti o diessini
che siano, sono proprio strani: tutto si inventano in nome
dell’efficienza produttiva, e preferibilmente macchine
burocratiche costose e ingestibili. Tutto, tranne l’appello
al libero mercato e alla libera opinione pubblica. Non sarebbe
così difficile sapere quali sono le università
buone, quali le università mediocri […] Gli
studenti sanno dove è preferibile iscriversi.” (p.
74)
Quanto alla valutazione della ricerca, scrive Pellini, difficile dare
credito, almeno per le materie umanistiche, a criteri di
“referees” o di “citation
index”: veramente significativo, negli studi umanistici,
potrebbe essere un “citation index” del 2090!
Per i concorsi il discorso è ancora più radicale:
“Un grecista è perfettamente in grado di giudicare
il valore di un latinista, e anche di un italianista e perfino di un
filosofo.” Lo stesso vale per gli scienziati. “Il
reclutamento dei professori deve essere affidato ai dipartimenti e/o
alle facoltà. Così si svolge un vero concorso
locale […] Un’intera facoltà deve poter
valutare le qualità didattiche, scientifiche e umane dei
candidati. Anche umane: perché solo in Italia diventano
professori universitari personaggi cronicamente affetti da turbe
psichiche e disturbi comportamentali.”
Pellini sa che avventurarsi in discorsi tecnici sulle tipologie
concorsuali non è la soluzione. Eppure le sue proposte sono
supportate da buon senso e toccano seriamente alcune basi del
privilegio e della scorrettezza eretta a sistema, che presiede lo
svolgimento di quasi tutti i concorsi (chi si comporta diversamente non
si offenda).
Incredibile quanto viene fuori a proposito dei settori
scientifico-disciplinari: “Ebbene, i settori
scientifico-disciplinari sono 370 (trecentosettanta). Alcuni contano
meno di dieci docenti, tutti compresi: ordinari, associati,
ricercatori. Esilarante spezzatino della ricerca, vertiginosa
polverizzazione del sapere” (p. 85).
Le conclusioni estendono la riflessione all’ingabbiamento e
ad una comunità scientifica nazionale che
“assomiglia a un corpo fossilizzato che si autoriproduce e
tende alla più piatta conservazione.”
Non convince tanto l’esempio, ma è secondario, per
cui questa chiusura ha impedito che le nuove metodologie della critica
letteraria, elaborate in America, entrassero in Italia. Conservatorismo
e storpiato avanguardismo spesso convivono bene, e le mode critiche,
dai Cultural studies ai Gender studies,
passando naturalmente per la onnipresente critica tematica fioriscono
in ogni ateneo: in realtà siamo americani a modo nostro.
Pellini chiude con un decalogo che si riporta brevemente: abolire i
settori scientifico-disciplinari, istituire concorsi veramente locali
abolendo le carriere interne; limitare drasticamente e regolare in modo
chiaro il precariato di ricercatori e docenti; portare a 65 anni, per
tutti, l’età pensionabile, e impegnarsi in un
piano ventennale di impiego; stanziare finanziamenti adeguati,
garantendo davvero il diritto allo studio (borse di studio nazionali e
rilancio dell’edilizia studentesca); riformare la riforma
della didattica; abolire tutte le riforme Moratti della scuola e
tornare al concorso nazionale (per la scuola); sviluppare i rapporti
internazionali, riportare la democrazie nelle università,
sensibilizzare la pubblica opinione per una discussione veramente
partecipata.
“Il punto di non ritorno”
- conclude sconsolato l’autore -
“è vicino” (p. 92).
Diverso il ragionamento che sta dietro Intelligenze fuggitive,
libro che vorrei discutere come parziale tentativo di rispondere alle
questioni poste da Pellini, scritto da Gigi Roggero, giovane dottorando
del dipartimento di sociologia e scienza politica
dell’Università della Calabria.
Quando Pellini parla della necessità di aumentare i
finanziamenti, di riformare la didattica, di regolarizzare il
precariato, dice bene. Non dice forse con la sufficiente chiarezza che
tutto questo, a meno di non credere alla favola del riformatore
illuminato, è frutto di una lotta. Lotta che attraversa
l’istituzione, non solo in quanto spinta del nuovo che vuole
sostituire il vecchio (e sono sacrosante le sue pagine sulla
gerontocrazia dell’università italiana), ma
soprattutto in quanto all’interno
dell’università si assiste ad un processo di
proletarizzazione dei lavoratori (dai ricercatori ai tecnici, dai
lavoratori nelle pseudo-cooperative dei servizi al personale delle
biblioteche, delle mense, delle case dello studente, dei servizi
fotocopie, etc.), che andrebbe in primo luogo riconosciuto.
L’attacco al lavoro è in pieno svolgimento.
Roggero, pur parlando solo dei precari della ricerca e della didattica,
tutto questo lo sa bene.
Lotta dunque, contro l’università azienda
(Movimenti contro l’università azienda
è il sottotitolo del suo libro) ed insieme critica dei
saperi, dei modi avvilenti e dei contenuti insignificanti che il 3+2 ha
reso pane quotidiano degli studenti. Le due cose vanno insieme.
Colonizzata dalla “cultura d’impresa”
l’università pensa se stessa e si riproduce
attraverso contenitori vuoti (crediti, moduli, etc.). Contenitori,
“perché solo così essi valgono a
convogliare contenuti compatibili, e nello stesso tempo a escludere
ogni contenuto – o significato, o messaggio –
incompatibile con loro” (A. Mazzone, Prefazione a R.Martufi,
L.Vasapollo, Comunicazione deviante. L’impero del
capitale sulla comunicazione, Mediaprint, Napoli 2000, dove
il discorso è in realtà più generale e
riguarda l’intera società). I movimenti contro
l’università azienda sono in primo luogo forme di
opposizione ad un modello educativo che a livello continentale, a
partire dagli accordi di Lisbona e dal Bologna Process (siamo alla fine
degli anni ’90), ha tentato di stabilire uno spazio europeo
della formazione.
Un’intervista all’autore, comparsa sull’
“Ospite ingrato” (I, 2005) col titolo
L’ingovernabilità del sapere vivo, contiene, in
forme a volte più efficaci e convincenti, le tesi principali
del libro insistendo in particolare sullo scardinamento della
dialettica pubblico-privato e sulla precarizzazione del lavoro
intellettuale¹.
Roggero dà dei numeri che parlano:
“All’Università di Milano due corsi su
tre (con punte che superano il 90% in alcune facoltà) sono
affidati a figure non di ruolo. All’Università di
Bologna, a fronte di meno di 3000 docenti strutturati (ossia di prima e
seconda fascia e ricercatori), ci sono circa 2500 professori a
contratto, 600 assegnisti, 680 borsisti, quasi 1800 dottorandi (che
spesso fanno attività didattica).
All’università della Calabria gli strutturati sono
627, quasi lo stesso numero dei soli contrattisti (576) e dottorandi
(582), meno di esercitatori e tutor (782)” (p. 79).
Il libro si snoda intorno ad una serie di interviste ai principali
protagonisti della rete dei ricercatori precari, su una traccia che
opportunamente è riportata in appendice.
C’è dunque un lavoro di indagine tra i
“lavoratori della conoscenza”, ma le interviste che
compongono il libro non sono una vera e propria inchiesta. Sono le voci
che parlano il discorso dell’autore, senza tacere
contraddizioni e limiti del movimento, ma montate con maestria per fare
emergere le tesi di fondo.
L’introduzione ci porta immediatamente al centro della
questione: “Crollata l’immagine del felice
imprenditore di se stesso, si affaccia quella del precario, non solo
vittima dell’incertezza di vita e di reddito, ma soprattutto
soggetto di desideri e comportamenti irriducibili alle ragioni del
mercato e dei riformatori, più o meno illuminati che
siano.” (p. 8).
Immediatamente, prevenendo una possibile critica, l’autore
scrive: “Questo libro non sostiene affatto che i Knowlwdge
workers siano il nuovo soggetto centrale, il segmento
avanzato che rimpiazza la classe operaia nella posizione di
avanguardia.”
Il problema però non è quello di capire se
l’uno rimpiazza l’altro, ma se ci sia
oggettivamente una possibilità di ridurre ad
unità ciò che è percepito come
diverso. Basta assistere ad una qualsiasi riunione della Rete Nazionale
dei ricercatori precari, con gli stessi soggetti intervistati
dall’autore, per rendersi conto che la strada da fare
è ancora tanta.
“Esistono concreti segnali di insorgenza di un sapere vivo
consapevole della propria eccedenza rispetto alle
possibilità di una sua espropriazione
privata…” (p. 11).
Il concetto di “autonomia” che compare nella stessa
pagina per diventare uno dei motivi principali del libro, affonda le
sue radici nella tradizione operaista italiana, della quale
l’autore è studioso, e si esplicita in uno spazio
di azione politica, che supera le dimensioni statuali (sulla scorta,
per la verità, di affrettate e non troppo attendibili
liquidazioni negriane) per situarsi in una dimensione internazionale
(che giustamente è indicata come la vera dimensione del
conflitto).
Il punto di vista politico che si esprime è volto alla
“costruzione di una sfera pubblica alternativa sia allo Stato
sia al mercato, esplorando le potenzialità, i problemi e i
nodi aperti di quel nuovo principio di realtà incarnato nel
movimento globale.” (p. 11).
“Lo scardinamento della dialettica
pubblico-privato” è un processo, scrive Roggero,
“attraversato da una dinamica ambivalente. Da una parte,
può condurre ad un sistema formativo a tre livelli: poli di
eccellenza gestiti dalle grosse imprese private, con generosi
finanziamenti pubblici, in cui coltivare le nuove élites;
università statali di basso livello, proseguimento neanche
troppo qualificato delle scuole superiori […]; un ruolo
cerniera svolto da centri di formazione cogestiti dalle aziende e dal
terzo settore di alto rango […] Dall’altra parte,
ed è questa l’ipotesi che qui interessa, questo
processo può aprire la strada ad un nuovo concetto di
pubblico…” (pp. 13-14).
L’università azienda è in primo luogo
un mostruoso ibrido, un’azienda di servizi nella quale, sotto
il nome di formazione permanente, si nascondono quote sempre maggiori
di lavoro non pagato.
C’è una compresenza di forme e tempi diversi:
convivono rapporti feudali, l’artigianale attività
di ricerca, il parataylorismo, la precarizzazione del lavoro
post-fordista, il just-in-time dell’organizzazione che
dovrebbe sfornare laureati. Il docente è di fatto un datore
di lavoro.
Aziendalizzazione, competitività e contrattualizzazione del
rapporto tra studente e università, sono i criteri in base
ai quali vengono pensati tempi e modi di una didattica esplosa a
dismisura, svolta dai soggetti che dovrebbero fare ricerca, e che
pongono il problema di una diversa idea di università,
né passatista né ovviamente apologetica del
presente. “La paura” diceva Michelet “non
è una forza rivoluzionaria”; parafrasandolo con
Roggero si potrebbe dire che neanche la nostalgia lo è,
figuriamoci per l’università pre-riforme. Temo
però che a volte, dai discorsi dei ricercatori precari, o da
come li legge Roggero, il rifiuto di alcune forme istituzionali sia un
partito preso, anche perchè la rigidità di orari
e la ripetitività non sono certo caratteristiche
attribuibili al lavoro universitario pre-riforme.
Il secondo capitolo è intitolato “Ambivalenza
della «periferia accademica»: tra precarizzazione e
nuove figure soggettive”. “La «selezione
di classe»” – scrive l’autore
– “non avviene più a monte (in fase di
ingresso all’università), ma a valle, nel guado
della carriera universitaria” (p. 36).
L’ “esercito universitario di riserva”
è diventato lo strato portante della nuova
università, su di esso grava l’enorme carico
didattico; il fenomeno ha davvero un valore paradigmatico rispetto ai
mutamenti delle forme di lavoro. “E tuttavia, si intravede la
posta in palio che le recenti mobilitazioni hanno fatto balenare: la
flessibilità imposta si può, in potenza,
rovesciare in potere contrattuale, in forza politica, in autonomia di
nuovi percorsi formativi. In potenza, appunto”(p. 42).
E ancora: “La precarizzazione è la risposta
all’autonomo esercizio della flessibilità; la
mancanza di diritti è lo stravolgimento della rivolta contro
l’appiattimento del diritto eguale per tutti.”
Fatto sta che “i tempi brevi impediscono strutturalmente la
ricerca e la trasmissione di sapere e conoscenze che sono, per loro
stessa natura, complessi” (p. 45).
Per Roggero c’è un altro punto importante: esiste
un’ “eccedenza della passione”, un furor
che spinge le figure della precarietà della ricerca a
continuare nel loro lavoro anche quando le condizioni lavorative lo
sconsiglierebbero. “Questa eccedenza, come tutte le cose di
questo mondo, ha una natura ambivalente. Da una parte fa accettare
anche l’inaccettabile […] dall’altra
parte, tuttavia, costituisce l’irriducibile spazio di
autonomia che, per quanto indispensabile al funzionamento sistemico,
rende al contempo l’attività del ricercatore non
ricomponibile nelle pretese leggi del mercato e del lavoro.”
“Eccedenza dei saperi e crisi della
misurabilità” è il titolo del terzo
capitolo: “Qual è la base materiale del mutamento
di paradigma cui si fa riferimento in queste pagine? È
costituita dalla natura stessa del sapere e dal suo ruolo sempre
più centrale nella produzione contemporanea. Secondo
Castells, «c’è un rapporto stretto tra i
processi sociali di creazione e manipolazione dei simboli (la cultura
delle società) e la capacità di produrre ed
erogare beni e servizi (le forze produttive). Per la prima volta nella
storia la mente umana è una diretta forza produttiva, non
soltanto un elemento determinante del sistema produttivo»
(Castells 2002, p. 32).” [il riferimento è a M.
Castells, La nascita della società in rete,
Università Bocconi, Milano].
Mutano rispetto al lavoro fordista, secondo l’autore, le
forme in cui si esercitano lo sfruttamento, le gerarchie e i meccanismi
di valorizzazione: “è un salto qualitativo, non
solo quantitativo.”
Ma l’eccedenza della quale si parlava prima non
può, secondo Roggero, essere collocata nella tradizionale
dialettica delle forze produttive, ma costituisce il
“potenziale scardinamento dei meccanismi della valorizzazione
capitalistica. Indica la possibile sottrazione al valore, la materiale
diserzione delle sue leggi” (p. 61).
L’imprescindibilità della condivisione delle
conoscenze non è, come l’autore stesso precisa,
una novità: “gia Marx ci spiegava come il
capitalista si appropria della cooperazione operaia senza
pagarla.” L’eccedenza dei saperi è
allora letta come “una forma particolare
dell’eccesso della vita umana (in quanto facoltà
biologica/cosciente di attività volontaria) rispetto alla
logica capitalistica, che è al centro della categoria
marxiana di lavoro vivo” (p. 62).
“Assistiamo a uno scollamento storico tra le
potenzialità della cooperazione sociale e la
funzionalità dell’organizzazione capitalistica.
Dentro questo scollamento vanno ricercate le potenzialità
della trasformazione” (p. 63).
Il capitolo successivo ci porta nel cuore delle lotte: si intitola
“La mobilitazione”.
Interessante una prima definizione dei terreni delle lotte:
“Oggi, forse per la prima volta, la classica dicotomia che ha
accompagnato il dibattito tra i collettivi politici universitari degli
anni Novanta, divisi tra rivendicazione del diritto allo studio e la
pratica della critica dei saperi, può finalmente cessare.
L’accesso all’università è
stato in buona misura conquistato dai movimenti dal ’68 in
avanti: non in modo completo, certo, ma […] non
più su quel livello è precipuamente collocato
l’imbuto selettivo” (p. 71) [senza tuttavia
sottovalutare l’aumento consistente delle tasse universitarie
ed il problema degli alloggi!].
Roggero sottolinea la necessità che queste rivendicazioni
siano collegate alla discussione dei modelli formativi esistenti. Ed
è evidente che un passaggio irrinunciabile consiste
nell’unione con gli studenti. Come dice uno degli
intervistati, Francesco, dell’università di Pisa,
“bisogna capire come quel passaggio che noi avevamo avuto nel
movimento studentesco di riuscire a costruire una rete che collegasse
la diversa soggettività, riusciamo a costruirlo in quanto
soggetto precario.” Questo è il vero nodo
politico, per il movimento. In un contesto, per di più, di
cosiddetta “crisi della rappresentanza”. Basti
pensare alle difficoltà di relazione fra movimenti e
sindacati tradizionali, alla fatica di questi ultimi di leggere ed
agire nei processi in atto. Ancora una volta ci viene incontro la voce
di Francesco, la più lucida tra quelle degli intervistati :
“Anche al nostro interno c’è un grosso
dibattito, se il primo passaggio debba essere quello di chiedere
rappresentanti negli organi istituzionali, oppure (come credo io) se
questa non è una priorità. Io penso che innanzi
tutto dobbiamo essere in grado di costruire un soggetto molteplice
capace di porre le proprie istanze, e poi da qui avere una
rappresentanza, perché viceversa si dà corpo agli
interessi lobbystici e corporativi che abbiamo visto in tutti i settori
[…] Dobbiamo esprimere una rappresentanza che sia frutto
della conflittualità, e non astratta e slegata dagli
interessi concreti” (p. 79).
Tra eccessi telematici, limiti numerici della mobilitazione,
incapacità strategiche, tatticismi, questo soggetto esiste:
incontra, né più né meno, gli stessi
limiti storici dei movimenti politici nazionali ed internazionali.
Il quinto capitolo ha per titolo “Nuove pratiche
d’autonomia”. I discorsi vengono situati
all’altezza che gli è propria, almeno in
“Occidente”, quella del capitalismo
“postfordista”. Vale la pena di citare lungamente:
“L’attuale scenario è contrassegnato
dalla diminuzione della richiesta di lavoro per la produzione di merci
materialmente tangibili, a fronte di un aumento di attività
che portano a un limite estremo di tensione la misurabilità
del tempo di lavoro e il suo ingabbiamento nella logica salariale.
Informazione, sapere e linguaggio, su cui si basa la cooperazione
produttiva oggi, non sono risorse scarse, il che fa potenzialmente
saltare ogni legge dell’economia classica. E tuttavia, non
necessariamente questa sovrabbondanza produttiva assume le forme della
liberazione. Come scriveva Marx nel Frammento sulle macchine, nel
momento in cui il lavoro immediato e la sua quantità
scompaiono come principio dominante della produzione, quando
«lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il
sapere sociale generale, knowledge, è
diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del
processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del general
intellect» (Marx , Lineamenti fondamentali della
critica dell’economia politica, La Nuova Italia,
Firenze 1970, p. 403) allora diventa question de vie et de
mort per il capitale continuare a misurare il tempo di
lavoro. Va mantenuta la vigenza della legge di valore, laddove essa ha
cessato di essere valida” (p. 98).
Quali gli scenari possibili, quali le prospettive politiche? Non certo,
per l’autore, quelli dell’angusto stato-nazione.
“È soprattutto a partire dalla frontiera che le
pratiche di autonomia vanno ricercate […] Ma la frontiera,
quindi la possibilità della fuga e della diserzione, non sta
solo nell’esistenza di spazi fisici: è un altrove
in quanto pratica di sottrazione non necessariamente accompagnata da
spostamenti geografici” (pp. 103-107).
Credo che sia leggibile in questi passi, ancora una volta, la matrice
da una parte operaista, dall’altra negriana del pensiero di
Roggero, delle quali non è qui il luogo di discutere limiti
e personali non condivisioni. La liquidazione del problema della
forma-stato può però impedire a questo genere di
riflessioni di spiegare in quale modo si attua e funziona l’
“Impero” o come sarebbe meglio chiamarlo, il
capitalismo monopolistico e imperialistico che non è
peraltro un’unità indivisibile, ma funziona
attraverso forme di competizione globale fra poli imperialisti distinti.
L’ultimo capitolo, “Lo spazio transnazionale e la
frontiera europea come campi di azione”, pone la
necessità, ed insieme le difficoltà, di pensare
un percorso europeo volto a decostruire i miti della
civiltà, sulla scorta delle riflessioni dello storico
bengalese Chakrabarty, decostruendo insieme la pretesa
universalità ed oggettività delle scienze sociali
e della cultura occidentale.
Le conclusioni, visto quanto detto, non possono che essere definite
dall’autore “precarie”.
È senz’altro vero che un cambiamento è
avvenuto o sta avvenendo: l’immagine di portatori della
cultura e del sapere accademico non è più quella
dei giovani ricercatori.
Resta tuttavia una partita tutta da giocare, che è forse la
più importante delle questioni che questo libro ci consegna:
“Fuggiti dalla torre d’avorio, si tratta quindi di
identificare in questo spazio di politicizzazione aperto, il luogo in
cui possono essere trovate le forme, le energie e il sapere vivo
attraverso cui eccedere i confini dell’università
e costruire le nuove istituzioni (non rappresentative)
dell’autoformazione critica permanente” (p. 125).
1. Può essere
interessante leggere l’intervento di Gigi Roggero alla
giornata di riflessione sull’università, dal
titolo “La posta in gioco. Il resistibile declino
dell’università”, tenuta a Siena il 28
marzo 2006, ed ora consultabile al seguente indirizzo insieme agli
interventi di Giovanni Orlandini e di Romano Luperini.
[10 giugno 2007]
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