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Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini Gadda Pagliarani Vittorini Zanzotto
Macerata, Quodlibet, 2007, pp. 178

Luca Lenzini

Dedicate come sono ad autori tra loro nettamente diversi, sia quanto a generi frequentati sia quanto a sfondo culturale ed a stile letterario, le pagine raccolte da Felice Rappazzo in Eredità e conflitto potrebbero far pensare, come prima impressione, ad un’antologia casuale o almeno slegata da una cornice coerente. Il tema critico posto dal titolo, Eredità e conflitto, funziona invece come reagente efficace proprio per il differente orientamento degli autori esaminati: di tema, infatti, si tratta, ma anche, e soprattutto, di un problema (detto alla svelta: il rapporto con la tradizione – o le tradizioni), declinato ogni volta individualmente ed entro contesti storici definiti. Per questa impostazione aperta, plurale, il libro non si presta ad esser riassunto in poche battute; ma una chiave per avvicinarlo è data dalla sua stessa struttura: si noterà subito, infatti, che i primi sei saggi del libro (che ne conta dieci) si occupano di Franco Fortini, e “fortiniano”, a veder bene, è lo stesso titolo, che si può dire stia qui a indicare non tanto un modello, quanto una costellazione di riferimenti ed una prospettiva di lavoro.

Attraversare l’amplissimo, scosceso e fitto pianeta della produzione critica, militante e poetica di Fortini non vuol dire, per Rappazzo, aderire acriticamente ad una istanza ideologica, per quanto ultimativa e stimolante, bensì passare al vaglio una serie di strumenti strettamente legati a circostanze storiche ed a motivi ricorrenti che tuttavia, all’interno dell’opera fortiniana, non si ripropongono mai identici, e che rivolgono ogni volta al lettore, come accade con i veri saggisti, nuove domande: quali siano il ruolo e la funzione degli intellettuali («Una funzione insopprimibile». Gli intellettuali per Franco Fortini), quale il luogo della Negazione (Goethe e gli spettri del Negativo) o il rapporto tra pensiero e poiesi, e come interpretare, infine, tanto l’eredità (del passato) che il conflitto (del presente). Centrale appare, in questo quadro, il saggio L’eredità culturale di Franco Fortini, che dopo aver indicato, con precisi riscontri, alcuni auctores di primo piano (Kafka, Benjamin, Brecht, Noventa), ed aver richiamato pensatori non scontati né prossimi come Ricoeur o Taubes, si sofferma, in conclusione, sui versi di Composita solvantur, fornendo un esemplare commento a «È questo il sonno…». Testo stratificato e ad alta densità figurale, questo, che nel momento stesso in cui si dispone in chiave apertamente soggettiva e testamentaria, è anche per così dire un auto-commento da interpretare a tutto campo, fuori da schemi di breve respiro; e non per caso, nel medesimo saggio, il critico sottolinea la peculiare curvatura apocalittica che già a partire dai versi di La gronda di Una volta per sempre (e si potrebbe andare a ritroso, fino a Foglio di via) s’impone con sempre maggiore incidenza nella produzione poetica (ma anche saggistica) fortiniana. Una apocalittica «mondana, ma non secolare», egli scrive (corsivo del testo), che non è tuttavia «una traduzione laica né tanto meno progressista dell’apocalittica di matrice religiosa», ma che piuttosto «reinscrive nella temporalità, l’esperienza e la percezione del tempo quali sono state vissute da una tradizione culturale ben radicata nell’Occidente, ma divenuta minoritaria e rimossa da quando ha preso a dominare, quasi incontrastata, l’idea di progresso» (p. 65)

Fare chiarezza su punti di tale importanza basterebbe, di per sé, a giustificare la raccolta, ed altri sarebbero da sottolineare: per esempio i rilievi sul debito di Fortini nei confronti di Sartre, o quelli invece sulla distanza da Foucault. Tuttavia una dimensione altrettanto rilevante e feconda del libro è quella del commento, che nella Nota d’apertura Rappazzo addita giustamente come «uno dei mezzi più utili e pratici per avvicinare i lettori giovani alla poesia moderna, e per ridurre il gradi di astrattezza della critica letteraria» (p. 7). È in questa dimensione che il lavoro del critico si fa apprezzare in modo particolare, dato che l’«astrattezza» a cui egli fa riferimento altro non è che il riflesso dell’interiorizzazione della divisione del lavoro e della parallela conversione della cultura in merce, giunte nei nostri anni a compimento. Con una esegesi piana, che procede senza salti e saldamente ancorata alle fonti, Rappazzo affronta quindi di Fortini Reversibilità e L’erba e l’animale, poi La ballata di Rudi di Pagliarani, Organini e diapositive di Zanzotto, San Giorgio in casa Brocchi di Gadda e La garibaldina di Vittorini, ogni volta situando i testi negli itinerari d’autore e spesso liberandone, con triangolazioni convincenti, i caratteri originali da incrostazioni superficiali o manualistiche. Tra tante dense notazioni e commenti, mi limito a segnalare l’analisi di Zanzotto, che si tiene a distanza dalle tautologiche interpretazioni meta-linguistiche, così up-to-date fino all’altro ieri, e sa profittare invece dei più concreti riferimenti di un poeta-critico di valore come Fernando Bandini. Come un invito o un pro memoria per quei futuri lettori di poesia a cui allude la premessa, poco astratti ma  non per questo meno agguerriti, si fa perciò estrarre dal lavoro di Rappazzo questa bella citazione di Zanzotto : «Quanto alla poesia […] nei suoi percorsi più o meno carsici, nelle sue radici folli-infantili, nel suo rivolgersi sempre a un futuro in termini di verbum, anche inglobante musiche e altre arti, nel suo essere ferita e farmaco (modesto) fuori mercato, in disparte nel disparte, si trascinerà avanti con la sua ebrietà di ostinazione e umiltà da contatto col nulla, continuerà i suoi tentativi fraintesa, compresa, e anche creatrice talvolta del fraintendimento…» (p.148).

[5 gennaio 2009]

 

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