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Francesco Nappo. Poesie 1979-2007
Macerata, Quodlibet-Verbarium, 2007.

Luca Lenzini

 

Ha ragione Giorgio Agamben, nella Prefazione alla raccolta delle Poesie 1979-2007 di Francesco Nappo, a lamentare la scarsa attenzione dedicata dalla critica a questo autore, il cui primo libro (Genere, edito da Quodlibet), qui riproposto unitamente all’inedito Requie materna, risale al 1996. Già il libro d’esordio, infatti, manifestava a chiari segni la presenza di una lingua poetica originale quanto sicura nel significare un mondo in bilico tra visione e memoria, passato remoto e futuro («Sarà come quando cantammo, miti / e discordi, come due santi.», recita un bel distico); ed ora l’insieme dei versi di Nappo conferma quel felice esordio, fissando una figura di primo piano nella poesia dei nostri anni.

L’aspetto più appariscente della scrittura poetica dell’autore è messo bene in luce, nella Prefazione, dallo stesso Agamben: esso risiede nella «paratassi» che, insieme all’«uso impervio del sintagma nome-aggettivo» (p. 13), ne denuncia la natura «innica», su una linea Campana-Rebora-Luzi-Zanzotto di stampo «orfico-sapienzale» (letta da Agamben in opposizione a quella «esistenziale» riassumibile, schematicamente, nel nome di Montale). Ecco per esempio, da Genere, San Gregorio Armeno:

Proprio fenomenare,
deflesso ardore che il
bronzo dilucerna préno
d’azzurro, dalla strabica
torre campanaria.
Greve fuoco miniato,
quale cesello dona
la tua requie?
Quali palpebre imprime?
Di quale udienza
accesa? Istorie
predicate tenebrilmente,
sangue coevo senza
volontate e visibili
cose segregate.

Il titolo induce a pensare ad un luogo riconoscibile, ad un paesaggio storicamente dato: di cui non vivono tuttavia, nella poesia, che riflessi e schegge, scie abbaglianti e interroganti restituite entro un moto di coscienza in divenire; grumi di senso allo stato fluido e fissati in forma di visione copiosamente ellittica. Il centro del discorso, soprattutto, tende a prescindere dall’articolazione sintattica, che preferisce relegare il verbo in margine, in posizione secondaria, e non di rado a ometterlo del tutto (come qui nel finale), a favore di un nominare fulminante e rabdomantico, in cui «l’aggettivo trapassa nel nome» (Ranchetti nei Paragrafi sulle poesie di Francesco Nappo, in appendice a p. 272). La metrica asseconda e sostiene la pronuncia scandita, tra rime e assonanze affioranti nelle misure brevi, disseminate di sdrucciole; e si noterà, a livello lessicale, l’impiego insistito di arcaismi e neologismi (“fenomenare”, “dilucerna”, “préno” – per “pregno, gravido” - , “tenebrilmente”, “volontate”), a prova di una scommessa che non teme di sfidare l’oscurità per avvicinarsi ad una zona di significazione ulteriore, percepibile per illuminazioni e frammenti incontenibili – per l’oltranza che trasmettono - nella cornice del comunicare ordinario, di uso comune. Nondimeno, come per irradiazione da quei lampeggiamenti, il tono è affermativo, spesso persino lapidario. Oppure la declinazione dei nomi si fa pura contemplazione, liturgia estatica (Mia madre, da Requie materna):

Rosa pluviale intatta
dentro la notte prima,
rosa di pianto e tenebra,
rosa d’amore viva.
aurora che dopo il
giorno viene,
aurora delle sere
.

Si è dunque portati, di fronte agli esiti di questa poesia, come di altre di analoga cifra stilistica (gli esempi non mancano, nel Novecento), a prenderli così come sono, tanto nelle riuscite che nelle approssimazioni: quasi fossero emanazioni indiscutibili di alcunché di non altrimenti dicibile e che, comunque, si risolve ed esaurisce interamente nell’atto linguistico, che trova in sé la sua giustificazione e la sua gloria. Invece, no: a chi voglia ascoltare la poesia di Nappo per quel che dice di noi (e non di un’altra forma di religio letteraria), non mancano né gli stimoli né i motivi per forzare la scintillante superficie “orfica” dei testi, con il rischio magari di contraddirli ma con l’attenzione dovuta a chi del nostro tempo ha visitato luoghi che ospitano verità forse recondite ma traducibili nella lingua di tutti.

La stessa operazione sul linguaggio, in realtà, non è così omogenea come potrebbe sembrare dagli esempi citati. Si dà anzi, nell’arco dei due libri, un’escursione di modi che la vocazione al sublime della poesia di Nappo rende meno avvertibile, celando talune incertezze (come di chi scambi per “poetico” ogni infrazione alla norma, e l’arcaico per moderno), ma più spesso riflettendosi in ricchezza ed apertura. Se insomma il “celebrare”, in conformità alle movenze dell’inno, è l’istinto primario dei testi, non per questo il moto che li governa è sempre ed univocamente esclamativo. Si prenda ad esempio  La colata dell’Italsider a notte, leggendo Tasso:

Quando l’acciaieria divide il
cielo col suo respiro algebrico,
la mia stanza ha due lastre come
gli occhi di Alessandro diseguali:
v’è lo sconvolto manto della notte,
giaciglio fosco del cantore insano,
milite dell’umano a sé non fido;
oppure l’inferna disciplina della
smemoratezza vedo, stimmate senza
mani dei bagliori più strani.

Vengono in mente alcuni passaggi di un recente film di Martone (un altro napoletano) sull’ultimo Caravaggio, in cui luci di treni che passano e d’officina attraversano quartieri desolati, di notte, un po’ come avviene qui nella stanza del poeta che legge. Frammenti di barocco congelati nell’attimo abbagliante: l’occhio soltanto fa da tramite tra il presente ed il passato, e nell’oscurità scorge nei «bagliori più strani» una divisione assoluta, non conciliabile, la rivelazione di una sofferenza irredenta (le stimmate senza mani). In altre poesie, il tono è dell’invocazione:

O vie farneticanti
di chi s’ìntima quando e
si sottrae all’abisso
ospitale del presente,
in voi resti pietà dei cani
soli che sanno dove vanno.

C’è forse il ricordo della «rue assourdissante» di Baudelaire, ma quei cani che «soli […] sanno dove vanno» li abbiamo incontrati in Saba e in Betocchi. E poi, accanto al frammento che si fa inno, decentrando l’io, ed ai momenti in cui il linguaggio s’asciuga e la tensione si contrae in forme brevi, altri ve ne sono in cui, come ha notato Ranchetti, i resti «di saghe franate nei pochi versi che le contengono» si dispongono in racconto. E queste «saghe», a loro volta, recano le tracce della Storia, non tanto quella a cui si riferiscono le Lettere non spedite (destinate «Al Partito comunista dell’Unione  Sovietica»), ma quella di un soggetto che nei frammenti – come ‘E rriggiulelle di una poesia – accoglie i bagliori e le ombre di un mondo scomparso e in attesa. È il caso di poesie come Mia madre fanciulla assiste alla cattura del pesce spada (in Genere), di Bracieri e Kerygma (in Requie materna), in cui la dimensione narrativa è palese e si appoggia su memorie d’infanzia. Passa l’angelo e dice «Ammèn»:

A volte per vincere la noia
ci mettevamo a far gara di smorfie
per conseguir la palma del più brutto
con il più buffo o truce sfigurare
del viso esilarato di ciascuno.
Ma quel primato mai si proclamava,
come se farlo non avesse senso.
La contesa qualcuno abbandonava
non sostenendo in sé panico oltraggio,
perciò diceva inquieto e timoroso:
«’E sturcie song’ ‘a faccia d’ ‘o Dimonio
e si l’Angelo passa e dice “Ammèn”,
pe’ sempe arrimanimmo scuncigliate!»
quella sentenza un brivido mi dava,
ma poi riconfidavo che l’Angelo custode
avrebbe riso e ringraziato Dio
per quei compagni dell’infanzia sua.

Un’ombra apocalittica attraversa la scena infantile: il tempo si ferma per un attimo, ma la custodia è riconfermata nella vicinanza dei compagni, un moto di speranza. Di questi momenti, tra un brivido ed un ringraziamento, una smorfia ed uno scherzo (L’asino che vola), la poesia di Nappo tesaurizza le scorie utopiche; anzi pretenderebbe che gli esseri umani fossero fedeli alla promessa che li voleva l’un l’altro compagni (non è strano, allora, se in certi versi è talora l’eco di Fortini). Non si tratta, qui, di ridurre l’inno all’autobiografia (e per questa via all’elegia): piuttosto, di collegare il frammento ad un immaginario collettivo di antica radice, che della matrice biblica non serba soltanto il ricordo ma il senso della rivelazione, e che fa delle «istorie», come fossero ex-voto di qualche deserta basilica, allegorie e deposizioni incastonate nel soggetto. In questo senso le frequenti poesie in dialetto napoletano non parlano di un vernacolo “autentico” in opposizione alla lingua standardizzata del presente: semmai si fanno tramite di un dialetto figurale (a ragione Ranchetti può allora scrivere che le trascrizioni a fronte «non chiariscono (traducono) il significato: vi si affiancano.», p. 269).

In quelle deposizioni è anche, infine, l’origine dell’inno. Lo dicono i bellissimi versi di Fujente¹:

Quando rimemoravi a fior di labbra
l’antica lode che ci raggiungeva
in mattini di maggio e proseguivi
quell’inno terso di luce distrutta,
dolcissima pietà mi pervadeva.
e sul terrazzo nostro andiamo ancora:
la scalza sequela come allora
tra làbari fuggenti senza sosta
propaga quella voce più lontano.



1. Informa una nota al testo che «Fuggenti», in napoletano, sono «i fedeli, un tempo scalzi, della Madonna dell’Arco questuanti, a passo di corsa, ai lati di celeri processioni.» (p. 238).

 

 

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