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Predicando
la rivoluzione ai bufali.
Rosa Luxemburg. Un po' di compassione
Adelphi, Milano 2007, € 5,50
Gabriele Fichera
In
una nota pagina del saggio su Leskov Benjamin fa affiorare, dalle
pieghe polverose di secoli di narrazione, un singolare racconto di
Erodoto. Si tratta dell'episodio che riguarda il faraone, sconfitto da
Cambise re dei persiani. Quest'ultimo per umiliare il nemico fa sfilare
sotto i suoi occhi un corteo di trofei di guerra, in cui sono presenti
come schiavi la figlia, il figlio e un servitore. Il comportamento del
faraone è bizzarro. Non si commuove alla vista dei figli
costretti alle catene, ma alla fine, quando vede il servitore vecchio e
impoverito, manifesta in modo evidente il proprio dolore:
«allora si batté il capo coi pugni e
mostrò tutti i segni del più profondo
dolore». Benjamin si chiede perché il faraone
pianga di fronte alla vista del servo e non a quella dei propri cari.
Allo stesso modo il lettore di Un po' di compassione potrebbe
chiedersi perché Rosa Luxemburg, imprigionata nel carcere di
Breslavia, non perde tempo nel compiangere la propria condizione e
quella delle compagne di cella, anzi confessa di provare un nuovo
irrefrenabile amore per la vita, e invece, come racconta nella lettera
all'amica Sonja Liebknecht, piange amaramente di fronte allo spettacolo
di un soldato che picchia selvaggiamente un bufalo. La risposta, per il
momento ellitticamente formulata, potrebbe essere: perché il
bufalo ricambia il suo sguardo - «gli stavo davanti e
l'animale mi guardava».
Il piccolo libro adelphiano, curato da Marco Rispoli, raccoglie: la
lettera della Luxemburg di cui si è appena detto, datata
dicembre 1917, e pubblicata per la prima volta da K. Kraus sulla sua
rivista
«Die Fackel» nel 1920,
cioè un anno dopo l'assassinio della rivoluzionaria polacca;
l'intervento, intriso di livore anticomunista, di una lettrice della
rivista che sbeffeggia la Luxemburg e la sarcastica risposta dello
scrittore; un breve racconto di F. Kafka, intitolato Una
vecchia pagina, risalente al 1917; delle pagine di E. Canetti
che prendono in esame proprio questo racconto e più in
generale il rapporto tra uomo e animale in Kafka; uno scabro testo
giornalistico di J. Roth del luglio 1923, in cui si descrive
minuziosamente il funzionamento di un enorme mattatoio viennese. Il
tema che unisce questi scritti è quello del dolore degli
animali inferto loro dagli uomini: non tanto larvata metafora
dell'ingiustizia patita dagli uomini inermi da parte di coloro che li
opprimono.
Kraus, nel commentare l'astioso scritto della lettrice, finisce per
proporre un'interessante chiave di lettura della vicenda. Egli si
interroga sul fatto che, nell'opinione comune, all'animale
non sembra sia concesso di stupirsi «per
l'oltraggio subito più di quanto non si stupisca l'uomo che
glielo infligge». Invece la Luxemburg era una donna capace di
meravigliarsi; lei «che non possedeva altri beni se
non il proprio cuore e voleva guardare a un bufalo come a un fratello,
lei avrebbe ben volentieri predicato la rivoluzione ai
bufali».
Il racconto di Kafka presenta una allegoria dell'imbarbarimento totale
degli uomini. La piazza di una fantomatica città
è assediata da nomadi selvaggi che si nutrono della carne di
un animale ancora vivo, lacerandone il corpo a morsi. Ma il bue
crudelmente sventrato è un'immagine dell'uomo inerme di
fronte all'esercizio della violenza più cieca; per questo
motivo il suo dolore scuote i nervi del protagonista, il calzolaio, che
si getta per terra per salvarsi dai barbari, trasformandosi
simbolicamente in animale, assumendone, non solo fisicamente,
l'orizzonte percettivo. Un'idea alternativa di salvezza scaturisce
invece dall'innalzamento dell'uomo su se stesso e quindi dall'uscita
dallo stato di minorità. È quello che fa la
Luxemburg osservando, ricambiata, l'animale che soffre. Sono
così disegnate due traiettorie opposte: mentre in Kafka
l'uomo abbassa il proprio sguardo al livello animale, la Luxemburg,
che, come si è detto, se potesse predicherebbe la
rivoluzione anche ai bufali, facendo nascere una «repubblica
bufalina», lavora per sollevare l'animale (immagine del
passato filogenetico dell'uomo) al livello della propria
bontà e del suo sentimento di giustizia. In questo
frangente, allora, si produce qualcosa che si avvicina molto
all'esperienza dell'aura come «apparizione irripetibile di
una lontananza», così come l'ha
prospettata Benjamin nel saggio su Baudelaire, citando proprio Kraus:
«Quanto più vicino si guarda una parola, tanto
più lontano essa guarda». Vale a dire:
«L'esperienza dell'aura riposa quindi sul trasferimento di
una forma di reazione normale nella società umana al
rapporto dell'inanimato o della natura con l'uomo. Chi è
guardato o si crede guardato alza gli occhi. Avvertire l'aura di una
cosa siginifica dotarla della capacità di
guardare». Oppure di piangere. La Luxemburg piange le lacrime
del bufalo insieme all'animale. Ed ecco che i loro
sguardi si incrociano in un punto lontanissimo del futuro dell'uomo.
L'aver toccato questo limite insieme e grazie all'animale scatena, con
tutta probabilità, la giustificata e profonda commozione
della rivoluzionaria.
Le dinamiche dello sguardo che congiunge l'uomo all'animale conoscono
però declinazioni di segno differente, che
incrinano il fragile meccanismo delle epifanie d'aura.
Così, in un altro frammento dello scrittore praghese, citato
ancora da Canetti, il protagonista viene sorpreso mentre osserva un
topo morente, dopo averlo infilzato e sollevato dinanzi a
sé. Questo sollevamento finisce per indicare il
rovesciamento parodico - e di sapore pirandelliano, si ripensi alla
novella La carriola del 1917 - di
quello tentato dalla Luxemburg. Non si cerca più di
umanizzare l'animale, ma lo si posiziona, beffardamente, ad altezza
d'uomo in modo da poterne osservare le caratteristiche fisiche con
sguardo da anatomista.
Ed infine l'articolo di Roth intercetta il tema della umana
crudeltà e indifferenza verso l'animale, componendolo in una
figura di evidente perdita dell'aura. Nell'asettico mattatoio, i
cui ritmi di macellazione sono fordisticamante scanditi, e la
cui produttività è ben indicata
dall'asciutta dovizia di dati e cifre forniti dall'autore, accade che
«lo sguardo mansueto [dei buoi] sfiora appena gli uomini, va
oltre i corpi e le pareti verso lontananze vagamente
intuite». L'aura, in quanto esperienza capace di umanizzare
l'altro, è discacciata da questa fabbrica di morte. Uomo e
animale non si guardano più. Eppure anche i bovini di cui ci
parla Roth, come quelli della Luxemburg, «venivano da
lontano». E ugualmente si avviano ad essere sacrificati
all'uomo che «signore macellante della Creazione - rimane
senso e scopo di ogni vita animale». Leggendo queste pagine,
rinsecchite dal gelido del dolore, è impossibile non pensare
al lager nazista descritto in certe pagine di P.
Levi, e a quei versi del Belli che lo scrittore piemontese incluse
nell'antologia privata La ricerca delle radici. I
versi sono tratti dal sonetto Se more e raccontano
della morte di un asino, sfruttato fino allo stremo e infine
assassinato dal suo padrone, che così, con questo orribile
cachinno verbale, chiosa la vicenda: «E io je diede una
stangata in testa. / Lui fece allora come uno starnuto /
Stirò le cianche, e terminò la festa. /
Poverello! m'è proprio dispiaciuto». Questo
“starnuto” è ancora in grado di far
germinare in noi un incoercibile, umano stupore? Le pagine di
questo libro possono essere un buon viatico in tal senso.
Perché quel sentimento di meraviglia, capace di avvicinare
l'uomo, con uno schianto silenzioso, ai gradi più intensi
della propria moralità, è lo stesso che talvolta
fa scrivere a chi, quasi senza accorgersene, nel medesimo istante lo
innerva e se ne nutre, frasi tanto semplici quanto irreparabilmente
“lontane”, come questa della Luxemburg:
«Sonička, la pelle del bufalo è famosa per essere
assai dura e resistente, ma quella era lacerata».
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