home> recensioni> Andrea Inglese La distrazione

Andrea Inglese, La distrazione
Roma, Sossella, 2008, pp. 115

Luca Lenzini

Ci sono poesie di questo libro, il secondo di Andrea Inglese dopo Inventari (2001), già nell’incipit destinate a farsi ricordare: «Camminavo su coriandoli di cortecce / finissime, bianche di riverbero, nel parco / tra betulle, olmi, platani maestosi. / Tutto il terreno ne era ricoperto / come di soffice neve.»; «C’era il pozzo di cemento, con l’acqua / antica e la parete verde / di muschio», «Le reti erano quelle alte del tennis…». Sono ouverture e preludi di un discorso modulato in chiave narrativa che tende a muoversi tra sogno e ricordo, aperto alle irruzioni di eros (La lettone o Desiderio, per esempio) ma anche di thanathos (Hai tenuto dentro tutte le tue morti), e che quindi si complica e si articola su più quinte, guadagnando per questa via, con cadenze precise ed ampia falcate, un più denso spessore di significati. Nella rappresentazione mentale è sempre un’eco del duro confronto tra esterno e interno, tra io e mondo; così nello stesso testo citato all’inizio («Camminavo…») dopo l’attacco arioso e sospeso tra anticipazione e reminiscenza, ed al suo «Così dovrebbe essere», ha il sopravvento un risoluto disincanto, un rifiuto (del così è che invece governa le esistenze): «In sogno questo è possibile. / […] Nel campo diurno, è sufficiente osservare / un paio di scarpe, il collo liso di un giacca, / il frigorifero che chiude male, in una casa. / E il disgusto si fa continuo, le pareti / sempre d’una spanna troppo vicine.» L’interno, popolato sempre di cose, oggetti, tracce domestiche o urbane della disappartenenza, non è uno spazio abitabile, come testimonia un po’ ovunque l’immagine della casa-appartamento («Il massacro è la mia storia, in allegoria. / La cameretta con le trappole,…»); ma nemmeno lo è l’esterno, dove «Escono tutti dalle auto / come sputati da una capsula / spaziale sotto fortissima pressione» per poi tornare «al chiuso / dell’abitacolo / con gli occhi iniettati di sangue.» (Milano). Una minaccia, un filo di violenza segna i nitidi contorni del discorso, che perciò talora si frammenta o si fa ellittico, ma non per questo perde una sua lucida chiaroveggenza, come nell’esemplare Non posso che guardare asfalti, in cui (brechtianamente) è colto l’accento del tempo, la sua impronta fossile: «la giungla leggera / delle merci, e i nostri gusci di cemento / appena più longevi di noi.»

L’impasto psichico e metrico di cui è fatta questa poesia, che si propone come una delle esperienze più convincenti e promettenti dei nostri anni, rimanda in prima istanza ad una zona della lirica novecentesca che sta tra Sereni, Raboni e Fortini (da Questo muro in giù), un filone di cui La distrazione rivendica in eredità tanto lo spettro della speranza che il compatto dominio del negativo. Dentro questa costellazione entrano, però, più lieviti e suggestioni: farei almeno il nome di Cattafi, poeta appartato ma ben presente ai più attenti autori delle ultime generazioni, qui citato in epigrafe alla prima sezione (Bilico); né appare lontana, per quanto diversamente articolata, la tensione etica di un Majorino, l’interlocutore di Non hai confinato la tua mente al frammento (p. 48). Di nomi però se ne potrebbero fare altri (e altri ce ne sono nella postilla intitolata Compagnie, p. 112), in una prospettiva non solo italiana, né solo lirica. Ma quel che conta è segnalare che nei versi di Inglese si è costituito un luogo di resistenza (dunque di gioia e spavento) contro la riduzione degli uomini a custodi larvali del mondo com’è, e che di lì s’intravede una scommessa a cui troppi hanno rinunciato in partenza. Tra promessa e catastrofe, questi versi ci ricordano che «nel crollo, / prime a piegarsi come carta / sono le paratie, le mura / divisorie.» (Presagi del passato).

 

 

[9 marzo 2008]

 

home> recensioni> Andrea Inglese La distrazione