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Il
saggismo morale di Bellocchio. Satire e saggi di un moralista ostinato
Piergiorgio
Bellocchio,
Al
di sotto della mischia.
Satire e
saggi
Milano,
Libri Scheiwiller, 2007, pp. 232
Gianni D'Amo
[...]
Che cosa è ora falso di quel che
abbiam detto?
Qualcosa o tutto?
Su chi
contiamo ancora?
Siamo dei sopravvissuti, respinti
via dalla corrente? Resteremo indietro, senza
comprender più nessuno e da nessuno compresi?
O dobbiamo sperare soltanto
in un colpo di fortuna?
Questo tu chiedi.
Non aspettarti
nessuna risposta
oltre la tua.
(Bertolt Brecht, da A chi esita, versione di Ruth Leiser e Franco Fortini)
Essere
e non essere felici. Capita di vivere in una città
dove amministrazioni di centro-sinistra (stesso colore in Comune,
Provincia e Regione) vanno organizzando
“sinergicamente”, con soldi e per il benessere
pubblici, “Festival dei diritti” e
“Fabbriche della felicità”. La
città è Piacenza, ma potrebbe
senz’altro essere un’altra. Infatti i succitati
“Festival & Fabbriche” li confezionano
professionisti dell’intrattenimento comunicante che operano
sul mercato nazionale. Per l’ordinario fanno le campagne
elettorali per gli stessi che poi, una volta vinte le elezioni, gli
comprano i pacchetti “F&F”. Tuttavia si
è recentemente formato, nelle more di un più
complesso evento denominato “primarie”, un
coordinamento per rendere i pacchetti “F&F”
vendibili ovunque, anche a Rovigo Torino Campobasso o Vattelapesca, a
prescindere da chi ti abbia fatto l’ultima campagna
elettorale, tanto c’è sempre una prossima volta (e
qui mi rendo conto di continuare a ragionare, con ingenuità
degna d’altri tempi, come se tra una campagna elettorale e
l’altra ci sia soluzione di
continuità…). Comunque sia, in questa
città (Piacenza, Italy), tra le tante che nel Paese dei
Balocchi festeggiano i diritti e fabbricano la felicità,
vive anche Piergiorgio Bellocchio.
Impermeabile a quanto gli accade intorno, e così vicino,
Bellocchio si ostina a sostenere che gli uomini non sono propriamente
nati per essere felici. Credo glielo abbia insegnato la vita, piuttosto
precocemente, anche prima di leggerne negli amati Leopardi o Collodi.
Non che sia il solo ad aver maturato una tale consapevolezza, ma
più autorevolmente di altri si intestardisce a ribadirla,
convinto com’è che solo su essa poggino la
possibilità e il dovere di essere meno infelici.
Cioè Bellocchio è un pessimista, ma un pessimista
che non si compiace di esserlo. Ipersensibile al negativo, dotato di
una non ordinaria capacità di cogliere le manifestazioni
più nascoste e impercettibili di ciò che si deve
pur continuare a chiamare col suo nome: il “male”,
Bellocchio non sa trattenere l’indignazione della vita
offesa. Così nel modo di descrivere il male rivela la sua
vocazione a propagandare il bene, e Al di sotto della mischia,
ultimo dei suoi non numerosi libri, è una lettura che fa
bene. Vale per lui ciò che ha scritto di Cecov:
«rappresentare la vita così
com’è (“il dovere dello
scrittore”) fa sentire come la vita non
deve essere, assolutamente».
Dalle
riviste ai libri.
Piergiorgio Bellocchio scrive da circa mezzo
secolo, ma la forma-libro non gli è pienamente congeniale.
(Come ad altri, del resto, da Cesare Cases a Renato Solmi, i cui testi
sono stati raccolti in volume molto tempo dopo essere stati scritti, su
sollecitazione quando non per diretta iniziativa di estimatori ed
amici: autori, in un certo senso, che nascono già con la
vocazione di essere almeno parzialmente postumi).
Nel 1962 ha fondato con Grazia Cherchi, e poi diretto per circa
vent’anni, “Quaderni piacentini”, la
più importante rivista politico-culturale degli anni
Sessanta e Settanta. Dal 1985 al ‘93 ha pubblicato invece
“Diario”: dall’impresa
collettiva, con decine di sociologi
politologi economisti letterati, quasi sempre intellettuali di
prim’ordine ben oltre lo specifico campo di competenza, alla
rivista personale, interamente scritta a quattro mani con il
solo Alfonso Berardinelli e in compagnia, ogni numero, di un grande del
passato, secondo la formula “due vivi e un morto”
(“Diario” ha pubblicato testi di Kierkegaard,
Leopardi, Thoreau, Tolstòj, Baudelaire, Simone Weil, Herzen,
Orwell, Rabelais, pagine scelte con cura tra le meno note, per
consonanza e a conforto di quelle dei “vivi”). Tra
le due riviste da lui fondate e dirette, o parallelamente ad esse,
Bellocchio ha anche collaborato ad altre testate, scritto prefazioni,
voci letterarie per opere miscellanee, note di costume, interventi
d’occasione ecc.
Il punto è che nessuno dei titoli che negli ultimi
quarant’anni hanno raccolto in volume i suoi
“pezzi” – così li chiama
– è stato scritto e pensato come libro. I
piacevoli servi (Mondadori, 1966) proponeva tre racconti
già usciti in rivista; Dalla parte del torto
(Einaudi, 1989) ed Eventualmente (Rizzoli, 1993)
antologizzavano i primi sette numeri di “Diario”
(secondi anni Ottanta);
L’astuzia delle passioni (Rizzoli, 1995)
gli scritti del periodo precedente, 1962-1984, da “Quaderni
piacentini” e collaborazioni dei primi anni Ottanta
(“Panorama”, “Tempo
illustrato”, “Illustrazione italiana”); Oggetti
smarriti (Baldini & Castoldi, 1996) riproponeva
pari-pari l’omonima rubrica dalle pagine culturali de
“l’Unità” del biennio 1992-93.
Infine in Al di sotto della mischia possiamo
rileggere oggi la parte bellocchiana degli ultimi tre numeri di
“Diario” (8,9,10, giugno ‘90 - giugno
‘93) e i pezzi su “King” del 1994-95: la
sola “Prefazione” al Meridiano saggistico-politico
di Pasolini (1999), che chiude il volume, non rientra dunque nel
quinquennio 1990-95.
«Non amo
scrivere libri»
– ha detto Bellocchio in una recente intervista.
«Non ne
sono capace. L’ideale per me sarebbe pubblicare uno due
quadernetti l’anno come all’epoca di
“Diario”.
Pubblico libri perché me lo chiedono». Se fossi un
editore, il cui mestiere è per l’appunto cavare
libri
dalle scritture altrui, gli farei la seguente e articolata proposta.
Primo. Raccogliere in un unico volume gli scritti di critica letteraria
(inibendogli di tornarci su e affidando ad altri, a libro
già
composto, la prefazione). Ne risulterebbe un eccellente sommario dei
problemi morali del nostro tempo, in forma di rassegna della
letteratura otto-novecentesca (critica inclusa): dai grandi russi a
Dickens, da Flaubert a Nizan a Camus, e poi Edmund Wilson e Orwell, Hasek e Böll, Fenoglio e
Pasolini, giù giù giù fino a Umberto
Eco. Secondo. Un libro-intervista sull’Italia del dopoguerra,
un altro Autoritratto italiano, dopo quello curato
da Berardinelli per Donzelli nel 1998: punti di partenza, dieci
fotografie e l’intervista a “Una
città” del 1995
(l’intervistatore-interlocutore adatto potrebbe essere
proprio il coautore di quel testo, Gianni Saporetti). Terzo, e
più importante: non perdere tempo con gli altri due libri e
scrivere, come fino all’ultimo incontro gli ha raccomandato
Fortini. Scrivere cosa? L’unico libro a cui ha spesso
pensato: sui suoi vecchi, sull’Italia umile e povera della
sua infanzia e giovinezza relativamente privilegiate, sulla miseria
materiale, e morale. E sulla decenza. Un libro, inevitabilmente, sulla
guerra, su fascismo e antifascismo, cattolicesimo e
comunismo… ma incarnati in persone reali, come destino
anzitutto privato.
Lo
stile morale di “un giornalista di idee”.
Anche se non precisamente autore di libri,
Bellocchio è scrittore da collocare in una posizione di
prim’ordine nella tradizione saggistica, in cui prende forma
quel pensiero critico capace di descrivere “cose
singole”, e sprofondando in esse stabilire collegamenti
inaspettati e lontani dal punto di partenza, via via che emergono dalla
relazione reciproca tra l’autore e ciò che
incontra nella sua ricerca. La forma saggistica esige un costante
“pensare in proprio” e in corso d’opera,
implica il riconoscimento dell’ipoteca che ogni conoscenza
compie sulla vita, l’accettazione del mettersi in gioco senza
la rete protettiva di qualche “specialismo” o
preliminare “metodo scientifico”. Il saggista
è uno “scrittore d’azzardo”,
ruolo che Bellocchio interpreta in piena consapevolezza e con un suo
stile particolare.
Sin dagli esordi va a collocarsi nella non numerosa famiglia degli
scrittori capaci di fissare l’estremo moto della materia
umana in poche battute, lavoratori per “arte di
levare”, partigiani della secchezza, della nudità,
del “qui ed ora”. La vocazione alla mescolanza dei
“generi”, l’ampiezza dei registri
lessicali, la versatilità delle soluzioni sintattiche (che
adotta con estrema coerenza e giustapposizione sapiente) gli consentono
di dire precisamente ciò che vuole (e come), solitamente nel
minor numero di parole possibile. Ne risulta una scrittura chiara e
asciutta, che procedendo con apparente normalità, ti fa
trovare, quando meno te l’aspetti, “nel mezzo di
una verità”. Bellocchio ha la capacità
di tirar fuori quelli che qualcuno ha chiamati “i suoi
coltelli appuntiti”, senza spostare l’ingannevole
“pigrizia” della pagina: la sentenza arriva
all’improvviso e ti costringe a pensare.
«Noi intellettuali di sinistra rimanemmo
folgorati», ha scritto Cesare Cases nel 1995
(“L’Indice dei libri del mese”, ottobre),
riandando con la memoria indietro di trent’anni, al primo
incontro con la scrittura di Piergiorgio Bellocchio.
«(…) Credo che noi vecchi ci sentimmo quasi
offesi: come? Non eravamo rimasti solo noi a testimoniare per la parola
defunta? Perfino in altre lingue… E adesso c’era
questo giovane di provincia che pretendeva di bagnarci il naso nella
comune lingua madre!». E ancora, a proposito della
circostanza che da Einaudi si giudicò superato L’astuzia
delle passioni, poi in effetti pubblicato da Rizzoli:
«non lo era affatto, in quanto certe verità vanno
affermate almeno la prima volta con la voce di Bellocchio e non con
quella di qualche suo pallido imitatore nella legione dei buffoni e dei
barbieri (lippis et tonsoribus)».
Lo stile in Bellocchio è costitutivo dell’impegno
intellettuale e pratico. “Purificare il linguaggio della
tribù” (il programma già di
Mallarmé e Eliot, di Kraus, Wittgenstein, Orwell),
mantenere/ristabilire la possibilità di “essere
presi in parola”: ecco un compito imprescindibile. La
salvezza della lingua fa tutt’uno con la
possibilità di verità: ed essa è il
fondamento dell’altra tensione permanente in Bellocchio,
quella etica.
Con coraggio tanto precoce quanto raro, Bellocchio si è
venuto proponendo di fatto come originale continuatore della migliore
tradizione moralista, da Montaigne a Adorno, così
contribuendo, con Fortini Garboli e pochi altri, a introdurre nel
dibattito politico-culturale della sinistra italiana
un’attenzione all’etica e al costume
sostanzialmente assente (se si escludono molte pagine dal carcere di
Gramsci, peraltro a lungo abbandonate a se stesse, nonostante
l’abbondanza della letteratura gramsciana nei primi tre
decenni del dopoguerra). Nel suo approccio alla realtà - e
per la verità sin dai primi numeri di “Quaderni
piacentini” - la teoria non ha mai l’ultima parola,
gli uomini e le situazioni concrete hanno il sopravvento su categorie e
astrazioni, l’universale lascia il posto al particolare, al
dettaglio, all’arte di percorrerne la trama fino a portare
alla luce il sostrato più profondo.
Formidabile lettore autodidatta sin dall’adolescenza
– e frequentatore di cinematografi, in certi periodi con
assiduità quotidiana – Bellocchio ha incontrato
innanzitutto in Fortini, poi anche in Cases, Renato Solmi e altri,
maestri o “fratelli maggiori” che l’hanno
accompagnato per tempo oltre i confini del marxismo canonico,
soprattutto italiano, verso autori decisivi per la sua formazione, da
Simone Weil ai francofortesi. Ma, come tiene a precisare,
«insieme a Gramsci, Gobetti, Kraus, Orwell, Edmund Wilson:
che non sdegnavano affatto di considerarsi anche dei
giornalisti». “Il giornalista che pensa”,
“forse il primo giornalista di idee” (ancora
Cases): ecco la divisa che Bellocchio sembrerebbe indossare con un
certo agio.
Scrittore a puntate di una realtà a pezzi. E veniamo al presente. Una
realtà a pezzi (liquida, gramscianamente corporativa,
“mucillagine”). Non so se siamo in epoca
postfordista (la Cina, l’India, il Brasile sono
postfordisti?). Certamente siamo nell’ epoca in cui
– come non sapeva ancora Smith e già sapeva Marx
– la produzione taylorista di merci si è fatta
taylorismo dello spirito, antropologico, minando il rapporto tra
realtà e umana possibilità della sua
comprensione. Nell’attuale società di massa le
idee dominanti sono naturalmente quelle della
classe dominante, le classi subalterne non praticando più
idee e comportamenti autonomi rispetto a quelle. E viceversa: la borghesia
(che a differenza dei vecchi ceti feudali è inclusiva,
pervasiva, una vera classe generale) incatenando se
stessa incatena (va incatenando?) tutta l’umanità.
La già aborrita e temuta “filosofia della
prassi” è diventata così bandiera
universale: fare, incessantemente fare. Ma fare cosa dunque? Fare soldi
per consumare e consumare per fare soldi, in un continuo capovolgimento
dei rapporti tra produzione e consumo.
Marx ha scritto da qualche parte che l’evoluzione nella
realtà è dalla scimmia all’uomo, ma la
sua “apprensione nel pensiero” è
dall’uomo alla scimmia. À rebours,
controcorrente. Vale ancora. Nella realtà è dagli
operai indiani alle “Fabbriche della
felicità”, ma poichè nel sistema della
comunicazione globale a base di silicio i minatori di silicio non
compaiono, è dai cascami finali che tocca risalire la china
di un possibile pensiero del presente. Senza curarsi del
tourbillon irrefrenabile di merci-soldi-rifiuti, che produce
e consuma pensiero-spazzatura a un ritmo tale da far rimpiangere
l’ordinaria mercificazione dei decenni passati.
Quell’individuo, in tale esponenziale divertissement,
che si fermi, respinga la regola del moto incessante, si sottragga al
vortice, sappia riflettere a partire dalla sua personale esperienza e
cultura della vita e del mondo, colui costituirà una
contraddizione del sistema e ne mostrerà in più
punti la vulnerabilità. È il caso, credo,
dell’Adorno di Minima moralia: la
fenomenologia del degradare da individui a consumatori, collocata nella
tradizione moralista lascia trasparire i segni dell’offesa,
incompatibile col processo in corso.
In tempi a noi più prossimi, nei quali quasi nessuno ha
più trovato la chiave per dire le cose e la
radicalità sembra diventata muta, Piergiorgio Bellocchio ha
ostinatamente continuato a usare la parola scritta come forma possibile
di responsabilità e verità. Con pochi altri,
nella letteratura italiana contemporanea, e con risultati di
sorprendente efficacia.
Al
di sotto della mischia. Tanto involontario quanto riuscito, Al
disotto della mischia (Libri Scheiwiller, 2007) è
un libro che propone l’intellettuale e lo scrittore
Bellocchio così com’è. Poco
più di una cinquantina di pezzi di diversa misura, dalla
mezza pagina alle trenta dei due saggi più lunghi, sul
processo Sofri (“Chi perde ha sempre torto”) e su
Pasolini saggista politico-civile (“Disperatamente
italiano”): tutti già editi, tranne
“Simone Weil e la religione”, intervento in un
seminario organizzato a Bologna da Giancarlo Gaeta. I pezzi
sono raccolti in cinque sezioni: “I doni di
Arimane” (“Diario” n. 8, giugno
‘90), “Chi perde ha sempre torto”
(“Diario” n. 9, febbraio ‘91),
“Pesci fuor d’acqua”
(dall’omonima rubrica sul mensile “King”,
marzo 1994 - agosto 1995), “Al di sotto della
mischia” (“Diario” n. 10, giugno
‘93), “Disperatamente italiano” (1999).
L’ordine è sostanzialmente cronologico, ad
eccezione degli scritti del ‘93 posposti a quelli su
“King” del biennio successivo. Felice inversione,
perché i pezzi di “Diario”, svincolati
da una attualità in qualche modo imposta dalla cadenza
mensile di “King”, sono i più consoni a
chiudere le sezioni “diaristiche” del libro. Liberi
e profetici.
Si legga per esempio
“La merda in cattedra”. Che un pezzo con un titolo
del genere e l’incipit
seguente: «“Quand la merda la
monta in scagn o la spuzza o la fa dann”»,
involontario “editoriale” di congedo
dall’esperienza di “Diario”, sia stato
scritto un anno prima della vittoria elettorale di Berlusconi nel
‘94, è particolare davvero non irrilevante.
«Quella che a me pare straordinaria» –
scrive Bellocchio a commento della scelta di un vecchio proverbio
dialettale per fotografare l’Italia contemporanea –
«è l’immagine della “merda che
monta in cattedra”. Intanto la riduzione sintetica a merda di
diversi disvalori: ignoranza e boria, idiozia e disonestà,
incompetenza, villania, prepotenza… E poi questa merda
– questa che è soltanto, nient’altro che
merda – che ascende e s’impanca, e dal posto
elevato che ha raggiunto pretende di insegnare e comandare e imporsi
come modello… E ci riesce». Così vero
che – in barba alla “gioiosa macchina da
guerra” guidata da Occhetto (e in barba a tutti noi)
– l’anno dopo vinse Berlusconi. Tanto
più vero – di una verità più
profonda
– a distanza di quindici
anni, anche se Berlusconi perda pareggi o rivinca.
Bellocchio segnala nella “Prefazione” che quanto
sia venuto scrivendo nell’ultimo ventennio abbia incontrato
– innanzitutto nei “vicini”, nella
sinistra in ogni sua sfumatura – silenzio e incomprensione; e
sia stato considerato, di volta in volta, un venir meno alle
responsabilità politiche, un sintomo di moderazione,
conversione al centro, nostalgia del passato. Vi esprime anche
l’auspicio, riproponendo i suoi testi in volume, che qualche
giovane possa leggerli per la prima volta semplicemente per quello che
sono, e qualche vecchio compagno rileggerli senza gli occhiali
deformanti di formule e gerghi tanto rassicuranti quanto vacui.
Considerati nostalgici e rivolti al passato già
dieci-quindici anni fa, questi testi risultano purtroppo di disperante
attualità (“Il pensiero del futuro
è un pensiero antiquario”, ha scritto Saba). E
come il bimbo della favola, pressochè ad ogni pagina
Bellocchio denuda il re: ma l’inquietante novità,
rispetto alla lettura che se ne fa tradizionalmente, è che
il re ha a che fare quasi sempre con ciascuno di noi.
L’intero libro è attraversato
dall’analisi critica del “mito della
sinistra”. In duplice senso: la sinistra stessa come mito, le
mitologìe che essa alacremente produce e di cui si nutre.
«La “serietà” della sinistra!
Quanto pensiero vuoto, quante chiacchiere autorevoli, quanta falsa
grintosità! Quando imparerà a badare alle cose e
agli uomini…, a pensare concretamente, a parlare chiaro e
semplice, con una voce comune, normale?» Al vecchio compagno
deluso («Lo so che non c’è da aspettarsi
niente da questi qui, anche se continuo a
votarli…»), rimane un unico estremo desiderio:
facciano le stesse cose degli altri, ma almeno le facciano “i
nostri”. È la versione popolare, ancora con
qualche tratto di idealità, della antica aspirazione ad
andare al governo da parte di chi ne è sempre stato escluso.
Ma è anche un meccanismo identitario fragile ed equivoco,
che in un paio di decenni, complici il berlusconismo e il suo
contrario, capovolge irrimediabilmente il rapporto tra valori e agire
politico: non più i comportamenti concreti definiscono le
identità politico-ideali, ma le dichiarate appartenenze
legittimano ogni comportamento. La governabilità diventa
valore supremo, in realtà l’unico: ha ragione chi
vince, è giusto tutto ciò che fa vincere. La
militanza politica diventa tifo (anche nel senso di malattia
collettiva), come Simone Weil aveva paventato già negli anni
quaranta, in un testo edito per la prima volta in Italia proprio da
“Diario” (n. 6, 1988, “Per la
soppressione dei partiti politici”, trad. it. di G. Gaeta).
Non si può fare nessun tipo di socialismo – scrive
Bellocchio - «con uomini a personalità e
responsabilità limitata», prodotto finale di un
secolo di società di massa. La divisione e
spersonalizzazione, che dal lavoro si è estesa ad ogni
momento della vita collettiva, di fatto eliminando quella individuale,
ha prodotto l’espropriazione generalizzata della
capacità di ognuno di noi di autocostruirsi
identità e personalità.
Modernizzazione
e spossessamento di sé.
Bellocchio analizza il problema prendendo
spunto dalla riduzione televisiva (inglese) di Com’era
verde la mia vallata, già film di Ford, dal
romanzo di Llewellyn: in un distretto mineraio gallese, il contrasto
tra padre e figli sulla partecipazione a uno sciopero deciso dal
sindacato (echi analoghi, ambientati un secolo dopo, si trovano nei
film “operai” di Ken Loach). Per il vecchio
«il lavoro che svolge è cosa sua, egli lo conosce,
lo possiede pienamente per averlo appreso attraverso un lungo
tirocinio, perché “ci ha messo
l’anima”, cioè cuore e cervello.
(…) Per i figli un lavoro vale l’altro, una
fabbrica vale l’altra, un padrone vale l’altro, e
quel che conta è il salario». Per i figli il
socialismo è un partito, una dottrina, una tessera, cui il
vecchio non vuole assoggettarsi. «Ma se per socialismo
intendiamo, molto semplicemente, autogestione dei produttori, non
c’è dubbio che, senza saperlo, il vecchio ne
incarni lo spirito e il progetto molto meglio dei figli».
Difende caparbiamente la propria individualità e autonomia,
sottovalutando i valori solidaristici e i vantaggi pratici della
sindacalizzazione (l’unione fa la forza), mentre i figli vi
si gettano senza dubbi e a capofitto. L’autospossessamento di
sé, risultato del lavoro standardizzato, si estende per loro
impercettibilmente alla dimensione politico-civile: e gli sta bene
così. Oggi, «anche a furia di delegare dividere
spersonalizzare, l’espropriazione che il vecchio temeva
s’è compiuta. Né ciò
riguarda i soli operai, siamo tutti privati del diritto di sapere,
controllare, decidere. Siamo degli zeri, degli zeri programmati e, per
colmo d’ironia, soddisfatti. Il vecchio, sorpassato e vinto,
era ancora un uomo».
Volgendo in positivo ciò che è oggetto della sua
critica, si direbbe che per Bellocchio una possibile
società, alternativa a quella esistente, sia un
“socialismo degli individui”, così come
sono, con la loro quota insopprimibile di egoismo in ogni sua variante.
Niente formule “scientifiche” che saltino a
piè pari la pena degli uomini e la fatica, diventando
migliori, di fuoriuscirne: né Smith né Marx
tout-court. Se la trasformazione dell’egoismo
individuale in ricchezza per tutti è smentita dai drammatici
contrasti persistenti dopo due secoli abbondanti di azione
“taumaturgica” del mercato, non convince Bellocchio
neanche l’impossibile “rovesciamento”
palingenetico prospettato da Marx: l’abbrutimento prodotto
nella lunga fase del necessario sviluppo delle forze produttive
è irreversibile. Ha ragione Orwell (e Simone Weil): gli
uomini diventati prolungamento delle macchine, rimangono tali comunque
si chiami il regime entro il quale vivono. Anzi, con la
burocratizzazione dei socialismi autoritari e di stato da una parte, e
la pervasività del neocapitalismo dall’altra, non
possono che ulteriormente peggiorare.
Non è fuori luogo qui ricordare che nel nel luglio
‘68 (in Francia hanno appena vinto i gollisti: il maggio
è finito), esce nel n. 35 dei “Quaderni
piacentini” quello che a me pare uno dei documenti
più alti dell’autocoscienza del movimento in
Italia, il saggio “La politica ridefinita” di Carlo
Donolo, largamente influenzato dall’elaborazione
dei tedeschi Rudi Dutschke e Hans Jürgen Krahl. Il movimento
si riconosce come antiistituzionale e antiautoritario.
Il primo aggettivo sottolinea lo spostamento a tutte le
“istituzioni” della alienazione che Marx collocava
nel processo produttivo: non solo la fabbrica, ma la famiglia, la
scuola, l’università, gli ospedali, i partiti, i
luoghi del tempo “libero” (a Ovest come a Est); il
secondo che la natura dell’autoritarismo è nel
consenso di coloro che lo subiscono, nel bisogno di
autorità e di repressione degli individui, che non sanno
(non vogliono) riconoscersi come tali. Ne seguiva che la politica
antiistituzionale e antiautoritaria (“la lunga marcia
attraverso le istituzioni”) non poteva che prendere corpo
attraverso una rivoluzione culturale, a partire dallo sforzo personale
di ciascuno nel tenere insieme teoria e prassi (ideali e
comportamenti): e ciò in ogni luogo e momento della vita
quotidiana.
Se dal linguaggio di sapore “adorniano” torniamo al
filo del nostro discorso, il punto è che al centro di un
socialismo possibile deve collocarsi necessariamente un altro uomo, da
quello che siamo: indisponibile alla “servitù
volontaria”, consapevole del suo naturale egoismo e capace di
limitarlo attraverso una autopromozione spirituale, frutto e nutrimento
insieme di un certo modo di vivere e lavorare. Qualcosa di simile al
muratore di Primo Levi, generoso di zuppa all’altrui fame,
che i muri li tira su con tutta la calcina che ci vuole, a filo, anche
se sono quelli del lager (e in ciò esercita in prigionia la
sua libertà).
Il socialismo possibile di Bellocchio – lavorista, sobrio,
morale – è anche popolare (come per Pasolini
«popolo è più e non meno di
proletariato, così come fratello è più
e non meno di compagno») e nazionale, perché degli
individui e delle comunità è parte integrante la
tradizione di cui sono costitutivamente permeati. Allora
l’altra società possibile è superare
(limitare) la povertà, ma “con le spalle al
futuro”, conservando quel «rapporto miracolosamente
armonico tra i tesori d’arte, il paesaggio, gli
abitanti», che colpisce e affascina Camus nei suoi viaggi in
Italia (e prima di lui la Weil, e tanti altri). «Dopo aver
visitato una mostra dedicata a Giotto», annota Bellocchio nel
libro, «[Camus] constata che “i volti dei primitivi
fiorentini sono gli stessi che si incontrano per strada ogni
giorno”». Una miracolosa corrispondenza, tra
passato e presente, che lo scrittore francese rileva fino alla fine,
nonostante osservi che «senza turisti e senza Vespe, senza le
case che costruiscono intorno», Assisi e Perugia prima erano
più belle. «Quando sarò vecchio, vorrei
che mi venisse concesso di tornare su quella strada di Siena, che non
ha eguali nel mondo, e di morirvi in un fossato, circondato soltanto
dalla bontà di quegli italiani sconosciuti che io
amo». Ben altrimenti Camus morirà, nel
’60, della più moderna delle morti (incidente
automobilistico). E ahimè, chiosa il nostro
autore, «escludo che potrebbe riconoscere oggi i
tratti di Giotto e di Piero nelle facce ebeti e soddisfatte del
neo-italiano telecomandato».
Nel frastuono della prima vittoria di Berlusconi (1994), Bellocchio
sceglie i versi di Sereni per Saba (sul 18 aprile del ‘48),
la «nostalgia per un tempo in cui gli uomini erano capaci di
investire passione d’amore in una battaglia politica, tanto
da restarne “feriti a morte”. Gli uomini comuni,
non solo i poeti. Rivolgersi all’Italia come a una donna
amata: che stravaganza per i nostri professorini della politica, di
destra come di sinistra!» E poi Pinocchio.
«Nel capolavoro di Collodi, specchio della
mentalità italiana, (…) i ragazzi, affascinati
dall’Omino di Burro, finiscono trasformati in ciuchini.
(…) Nella favola il tempo della metamorfosi è
concentrato in un paio di mesi, nella realtà questo processo
di progressiva somarizzazione è durato almeno un
quindicennio e ha avuto la sua degna apoteosi nell’elevazione
dell’Omino di Burro a capo del governo». In un
paese che rimuove Pinocchio (mentre dilaga un malinteso Peter Pan e
trionfa Harry Potter), non stupisce che il “rinascimento
napoletano” finisca seppellito sotto tonnellate di rifiuti.
(Anche perché, e come sempre, società politica e
cultura si tengono insieme).
Diario
minimo. Tra Kraus e Saba. A questo punto ho il dubbio che il lettore,
conoscendo poco o punto lo scrittore Bellocchio, e basandosi
prevalentemente su quanto sono venuto sunteggiando, possa scambiare Al
di sotto della mischia per un libro prevalentemente di
analisi e riflessione politica. Non è così. Come
già si è detto, il tratto distintivo, che ne fa
un libro diverso, “inclassificabile”, è
il modo di procedere dell’autore già dalla
partenza. L’approccio è micrologico, quotidiano,
“minimalista”. Bellocchio prende spunto quasi
sempre dall’esperienza personale: un furto, una caduta in
bicicletta, un viaggio in treno, un pranzo (in casa o al ristorante).
Una serie di francobolli, una poesia, un film in tivù, un
quadro, una foto, la malattia, la morte di una persona. E,
costantemente, la lingua.
«È sulle parole più comuni, semplici,
schiette, dal senso meno equivocabile, che lo spirito borghese ha
esercitato con maggiore acribìa il suo talento denigratorio,
la sua vocazione punitiva». Uomo, donna,
vita… Analizzandone le trasformazioni
nell’uso e significato, Bellocchio sintetizza in un paio di
pagine il secolare passaggio della società borghese
dall’ideologia del risparmio all’apologia del
consumo: «Nella democrazia dei consumi, raro diventa
ciò che non serve e non piace. Più una cosa
è rara, meno vale: quindi l’uomo
e la donna, in quanto individui. In
compenso la vita, dal momento che è
passata sotto il pieno controllo della produzione, può
essere promossa dalla pubblicità come valore positivo. La
vita è finalmente di moda».
Quanto allo “stile della volgarità”, gli
bastano poche righe, la prosa di un avviso condominiale:
«L’Agenzia XY fa presente che nei propri uffici
persiste un olezzo insostenibile per i rifiuti… Facciamo
inoltre presente che non ci troviamo in un quartiere del
Marocco!» A parte «la volgarità
corrente, in cui razzismo e insulto si coniugano al meglio»,
commenta Bellocchio, «a turbarmi è
quell’“inoltre”,
è la reiterazione del “far presente”.
Avessero aggiunto…“Non siamo mica in
Marocco!” oppure: “Siamo forse diventati dei
marocchini?”, pazienza… Ma “facciamo
inoltre presente”! È la firma della
miseria culturale, della alienazione burocratica, della sprovvedutezza
presuntuosa. È la volgarità che supera se stessa,
cercando grottescamente di darsi uno stile. E l’unico stile
che è in grado di procurarsi è
quello…»
Se ha senso – e credo ne abbia – tentare un
giudizio critico sull’evoluzione del saggismo di Bellocchio
negli ultimi vent’anni, non può che essere Dalla
parte del torto (1989) il termine di paragone di Al
di sotto della mischia, i due libri avendo comune origine da
“Diario”. Intanto: mentre il primo propone il
susseguirsi dei pezzi separati da una semplice spaziatura (come in
rivista), nel secondo ognuno ha il suo titoletto in testa alla pagina,
che è più strutturata, più rigida. La
differente scelta grafica deve certo aver inciso (non so in che misura)
sull’assenza nell’ultimo libro dei pezzi
più brevi, degli aforismi. Tuttavia mi pare ci sia un
cambiamento di tono diffuso, non semplicemente o in toto
riconducibile alla diversa messa in pagina.
Tra i due libri, e anche tra i primi e gli ultimi numeri della rivista,
secondo me, un certo slittamento nella materia e nel modo di trattarla
(nello stile) produce l’effetto di un prevalere della
compassione sulla “cattiveria”. La critica feroce
dell’industria culturale (o del singolo intellettuale) si fa
da parte per lasciare maggior spazio a brevi prose malinconiche, la
sentenza aforistica senza scampo si cela in favolette urbane, apologhi,
piccoli ritratti umani, in cui l’intento critico e
l’esito morale più che esplicitarsi emergono da
sé, anche per via narrativa. Meno Kraus e più
Saba, si direbbe: “raccontini”,
“scorciatoie” («sono vie più
brevi per andare da un luogo a un altro del ragionamento»,
diceva Saba: ma dimesse, in terra battuta, di campagna o estrema
periferia).
Il Bellocchio “meno cattivo”, di cui si tratta
nella “Prefazione” di Al di sotto della
mischia, non è da “Quaderni
piacentini” a “Diario”,
“dall’impegno al disimpegno”, ma
dall’alto al basso, dai luoghi della cultura e del potere a
quelli della vita quotidiana, dal presente al passato: il tasso di
cattiveria dipende da dove va a posarsi il suo sguardo. A volte
– è lo stesso Bellocchio ad ammetterlo
preliminarmente in “L’umile Irlanda”, di
fronte a film come The dead o Il pranzo di
Babette – la «disposizione critica cede
subito… a un moto di reverenza e commozione… Si
tratta infine di incontri con i miei morti… [e]
l’emozione è tanto più forte
perché queste occasioni sono sempre più rare e
presto cesseranno del tutto». In questi casi, semplicemente,
la prosa di Bellocchio si fa poesia:
«Com’è bello che Huston, questo regista
così americano, affascinato per tutta la sua lunghissima
carriera dall’azione e dal delitto – la lotta per
la vita, la guerra, lo sport, il denaro, il potere, la
rapacità… – abbia voluto concludere la
sua opera e la sua vita con un film che è un omaggio alla
vecchia Europa, all’umile Irlanda dei suoi vecchi, un film
che si svolge tutto in poche stanze e in cui non succede
niente».
Salvarsi
da soli?
«La domanda è questa:
ma davvero un cittadino, un letterato, può pensare,
soprattutto oggi, di salvarsi da solo?» La rivolge Antonio
Tricomi ad Alfonso Berardinelli (“Lo straniero” n.
89, 2007), ma se non altro per l’evidente interesse generale
di una possibile risposta, non credo sia fuori luogo interrogare al
riguardo l’ultimo libro di Bellocchio, preliminarmente
convenendo che si tratta qui di salvezza terrena, della
possibilità e del dovere di essere meno infelici. Mutatis
verbis, di uno di quei “doveri verso
l’essere umano”, che Simone Weil espone
nell’Enracinement (trad. it. di F.
Fortini, La prima radice, Ed. di
Comunità, 1954, poi SE, 1990).
In Al di sotto della mischia il materialista
Bellocchio mette mano al problema ricorrendo paradossalmente ad alcune
delle voci più alte di quel paradosso per eccellenza che
è il Cristianesimo. Kierkegaard: «Anche chi non
abbia la fede, se si dedicherà a compiti puramente umani
“con amore sincero”, sarà
salvato». La Weil (scrive dall’Italia al giovane
amico Jean Posternak, ansioso di rassicurazioni
sull’immortalità dell’anima e la
prospettiva della salvezza eterna): «Mi sembra che lei dia
molta importanza ai ragionamenti sull’immortalità.
Io, invece, ne do assai poca. C’è qui un problema
di fatto che nessun ragionamento può troncare in anticipo.
Che ce ne importa? (…) È in questa vita che
occorre elevarsi sul piano delle realtà eterne (lo spirito
sente e sperimenta che è eterno, affermava Spinoza),
sottraendosi all’influsso di ciò che nasce e muore
continuamente. E se tutto scomparisse con la morte, è ancora
più importante non sciupare questa vita che ci è
concessa e saper salvare la propria anima prima che sparisca nel nulla.
Sono convinta che questo è anche il pensiero di Socrate e di
Platone (come pure del Vangelo) e che tutto il resto non è
che simbolo e metafora».
Si ha il dovere di salvarsi in questa vita, se necessario anche da
soli. Proprio su questo punto – né stupisca la
perfetta coincidenza – Fortini chiude la lunga
“Lettera ad amici di Piacenza” del ’61
(ciclostilato ad alcool, poi in
L’ospite ingrato. Testi e note per versi ironici,
De Donato, 1966, II ed. allargata Marietti 1985): «Tutta la
storia dell’occidente moderno è storia di
individui e di minoranze che decidono di non servire
l’inevitabile, il necessario; (…) È
storia di coloro che da soli hanno deciso di non esser soli».
Il pensiero critico pretende la solitudine dell’individuo che
sappia ancora considerarsi tale. Un certo grado di misantropia
è il prezzo della scelta di non accettare la solitudine
definitiva in forma di degradazione da individuo a
moltitudine (la modalità disumanizzata della cattiva
compagnìa).
Nei decenni a noi più prossimi, l’isolamento si
è fatto crescente, favorito e mascherato dallo sviluppo
delle comunicazioni di massa. I rapporti individuali sono sostituiti da
“rapporti universali e a distanza”: si dispiega
pienamente quella “paralisi del contatto” che
Adorno ha descritto oltre sessant’anni fa. Viviamo
nell’epoca del “degradarsi del consiglio a
parere”, della “decadenza del dono”,
della “fine dell’amicizia”, nella quale
«un aiuto funzionale e continuo si trasforma –
inevitabilmente – in vassallaggio per chi lo
riceve».
«Così le monadi si evitano reciprocamente, quanto
più si sentono affette dallo stesso male», scrive
Renato Solmi nell’“Introduzione” alla sua
traduzione italiana di
Minima moralia (Einaudi, 1954), che ho potuto
leggere integralmente per la prima volta nella bellissima Autobiografia
documentaria. Scritti 1950-2004, (Quodlibet, 2007). Annota
Solmi poco più avanti: «Squarci di
un’esistenza diversa – come la partecipazione alla
guerra di liberazione – appaiono così luminosi nel
ricordo, non solo e non tanto per le prospettive finali della lotta,
quanto per la novità radicale dei rapporti instaurati in
quelle circostanze».
Squarci
di un’esistenza diversa. In Al di sotto della mischia
(nel lungo saggio su “Il processo contro ‘Lotta
continua’ per l’omicidio Calabresi”), pur
fatte le debite proporzioni tra Resistenza e Sessantotto, Piergiorgio
Bellocchio fornisce una conferma che ciò che rimane, dei
momenti acuti dello scontro politico e sociale, non sono tanto
“le prospettive finali della lotta”, quanto
l’esperienza di “rapporti radicalmente
nuovi” che si vengono a creare in quelle situazioni.
«Mentre riconosco la fragilità di certi
presupposti teorici e di molte analisi su cui si fondava
l’azione politica del movimento – scrive
– non posso non rimpiangere quello che ero in
quegli anni: più disinteressato, più disposto a
rinunciare a certi privilegi, più pronto ai rischi,
più fraterno, insomma un uomo moralmente migliore di quel
che sono oggi. (…) Eravamo più felici (o meno
infelici), perché c’era un maggior accordo tra le
nostre idee e i nostri comportamenti».
Il discorso è esteso a dirigenti e militanti del movimento
di allora (dediti «interamente alla causa, estranei a ogni
idea di guadagno, carriera, famiglia, promozione sociale…
migliori di quello che sono diventati»), incluso
l’ex operaio Marino, compagno e poi unico accusatore di
Sofri. Non il suo «sogno di eguaglianza»,
l’esperienza di quello “squarcio di esistenza
diversa”, ma i loro limiti e la loro irrimediabile fine ne
fanno «un uomo alla deriva, senza bussola». Come
Marino «tantissimi proletari e sottoproletari… ci
avevano puntato tutto e per una breve stagione avevano avuto anche la
viva esperienza dentro e fuori la fabbrica di un reale potere, di una
nuova dignità e di ciò che dobbiamo pur chiamare
fraternità». Per costoro «la sconfitta
è stata ben altrimenti amara e catastrofica che per Sofri,
Viale, Rostagno, Bolis, Bobbio ecc. (per non parlare di uno
come me, abbastanza vecchio e disincantato per non crederci quasi
affatto, nella possibilità di una svolta rivoluzionaria,
scegliendo peraltro il “come se”)».
Bellocchio ha condiviso la “grande speranza” del
Sessantotto e ne ha subita la sconfitta, tra i primi a riconoscerla,
tempestivo e acuto nell’analizzarla. Per lui e la maggior
parte del gruppo di “Quaderni piacentini”,
«la fase caratterizzata dalle speranze suscitate dal
Movimento studentesco… si chiude o si avvia a
chiudersi» già nel 1969, che pure è
l’anno in Italia delle grandi lotte operaie (Cfr. per
esempio: G. Bechelloni, Cultura e ideologia nella nuova
sinistra, Comunità, 1973). «Lenin
è morto», sentenzia un famoso articolo di
Ciafaloni e Donolo dell’estate di quell’anno,
“Contro la falsa coscienza del movimento
studentesco”. La rivoluzione non si fa «anche
perché non si sa cos’è. Non la si fa
neanche se gli operai della Fiat avessero fiato per andare avanti
così fino all’anno prossimo, anche se ripetessimo
il maggio. Perché valga la pena di ripetere consapevolmente
il maggio, bisogna sapere cosa fare a giugno. Altrimenti ci si ritrova
abbracciati con Pompidou». Comincia presto il periodo in cui,
come si ricorda nella “Prefazione” di Al
di sotto della mischia, i “Quaderni
piacentini” «disperatamente cercarono di tenere
assieme il lume della ragione con la pratica della
contestazione».
È, questo, un punto decisivo: quando gli “squarci di un’esistenza diversa” vengono meno, bisogna prontamente riconoscerlo. Tanto è miserabile la sùbita abiura, la fuga dalla nave appena comincia a imbarcare acqua, quanto è mistificatorio e deleterio il prolungamento ad libitum di una lotta irrimediabilmente persa, la sostituzione della “realtà effettuale della cosa” con interminabili recite basate sulla “imaginazione di essa”. La storia è piena di voltagabbana, ma anche di “fedeli” a buone cause semplicemente utilizzate come trampolini di lancio per ottime carriere: “professionisti” del pro o contra. Péguy ne scriveva già a proposito dell’affaire-Dreyfus, e il Sessantotto non solo italiano ne costituisce conferma esemplare e su larga scala. Quarant’anni dopo, Bellocchio mantiene una severa fedeltà critica alla sua collocazione di allora, che poggia sulla consapevolezza della sconfitta e sul dovere della riflessione autocritica. Ma non rinnega il valore della scelta (da quale altra parte bisognava stare?) e non accetta di invalidare l’ispirazione originaria. «La verità è quasi sempre sconfitta ma mai del tutto».
Destra
e sinistra, idee e comportamenti. Nel magistrale pezzo che chiude
Dalla parte del torto, Bellocchio delinea una topografia
etico-politica di permanente validità prendendo spunto dalla
comparazione tra un dittico di Cranach (Lutero e Melantone) e i
numerosi ritratti di Erasmo (Holbein, Metsys, Dürer).
«Lutero ha assunto la solennità dura e enigmatica
del capo indiscusso, e appare come catafratto in un suo segreto.
Melantone, al contrario, sembra non voler nascondere nulla del suo
destino». «La natura passionale di Lutero, la sua
energia, l’irriducibilità del carattere lo
corazzano dal dubbio e dal rimorso». In Melantone
«lo sguardo [è] perso nel vuoto…
l’espressione inconsolabile è di chi non dimentica
nulla. Una natura mite prestata alla rivoluzione. Un uomo che ha
represso la sua vocazione di studioso per la battaglia religiosa, senza
peraltro possedere alcuno dei conforti del fanatico e
dell’ambizioso». Quanto a Erasmo, è
ritratto «costantemente di profilo, gli occhi abbassati,
intento a scrivere, circondato da libri»; il grande Erasmo
che ha capito tutto, «sapiente ma scettico, tollerante ma
ambiguo, indipendente ed equanime ma pavido… infine se ne
tira fuori».
Ed ecco la sintesi “politica”, né
è in dubbio a chi vada la commossa simpatia di Bellocchio.
«Se Erasmo rappresenta… l’ala sinistra
della destra, Melantone è l’ala destra della
sinistra. Teoricamente, le loro posizioni sono molto vicine (su diverse
questioni specifiche Erasmo era anzi più “a
sinistra” di Melantone e dello stesso Lutero). Ma
ciò che li divide è sostanziale, decisivo. Anche
Melantone aborriva gli eccessi, era angosciato dallo scontro con
Roma… Ma intanto aveva scelto. Il salto che Erasmo non
è mai stato capace di compiere, Melantone l’ha
fatto subito, secondo coscienza e ragione, contro la sua natura e la
sua cultura, ed è stato fedele fino in fondo; è
passato attraverso la tempesta senza schivare i colpi. E tuttavia su
quel volto gramo e devastato la piega della bocca sembra ancora tentare
l’accenno di un sorriso». Come il
“suo” Melantone, Bellocchio è un uomo
«che vede chiaramente anche tutto il male che può
derivare da una decisione giusta, e che a questo male non sa
rassegnarsi»; che ha maturato «la consapevolezza
che la rivoluzione è comunque una tragedia, anche quando
vince, e non ne ignora il prezzo terribile. Perché infine
non c’è vittoria che non sia anche una
sconfitta».
Ora non stupisca che un uomo siffatto, in attesa di un posto migliore
dove mettersi, si collochi tra “oggetti smarriti”,
“dalla parte del torto”, “al di sotto
della mischia”; ciò che conta è che da
lì continui a esercitare la responsabilità
personale nei confronti della realtà e della
verità, con la tormentata consapevolezza di quel
sovrappiù che se ne deve esigere
dall’intellettuale. Era una vocazione già operante
nei “Quaderni piacentini” dei primi anni Sessanta,
ai tempi in cui Bellocchio si mascherava da “Franco
tiratore”, in ciò facendosi erede e continuatore
di una lunga tradizione critica e morale. Se le cose vanno male
“non aspettarti altra risposta che la tua”,
raccomandava Brecht. E Orwell: “la criticità si
esercita innanzitutto nei confronti della propria parte”. O
ancora Adorno: “l’onestà di un pensiero
comincia precisamente dove sa esercitarsi contro se stesso”.
Del resto lo ripeteva già Socrate: “cerca in te
stesso”.
Ha scritto Renato Solmi, oltre cinquant’anni fa, quand’era appena ventisettenne, al fraterno amico Cesare Cases, in quel momento (provvisoriamente) restìo ad accettare il “pessimismo reazionario” di Adorno: «C’è una funzione costruttiva della filosofia, ma c’è anche una funzione socratica. Convincere gli altri (e se stessi) del proprio torto, è il primo, se non il più alto, compito del pensiero. (…) Potrebbe darsi che la rinuncia alla connessione esplicita della teoria con l’azione politica sia – in circostanze storiche determinate – la condizione dolorosa, ma necessaria, di un approfondimento della verità. E l’impossibilità di condividere un pessimismo per altro verso fin troppo comprensibile, non diminuisce – non dovrebbe diminuire – il nostro debito di gratitudine». Grazie Bellocchio.
[8 maggio 2009]
home> recensioni> Il saggismo morale di Bellocchio. Satire e saggi di un moralista ostinato