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Ascoltare il respiro del mondo. Il lungo rapporto di Ernesto Balducci con «Testimonianze»,
“Testimonianze. Quaderni del Cinquantennale”, 2, Suppl. al n. 1 (451), gennaio-febbraio 2007.

 

Luca Lenzini

 

È trascorso mezzo secolo da quando Ernesto Balducci fondò «Testimonianze», ed il semplice fatto che la sua rivista, sapendosi rinnovare senza perdere il filo della fedeltà agli inizi, sia viva e ben presente nel dibattito culturale nazionale costituisce di per sé un segno inequivocabile di quanto la lezione morale e intellettuale del fondatore abbia messo radici profonde. Chi ha a che fare con le riviste, poi, e conosce le difficoltà che oggi ne ostacolano e spesso soffocano la diffusione e la stessa esistenza, non può che salutare con ammirazione e persino con stupore l’impegno e la continuità del lavoro dei redattori. In questo caso è a Maurizio Bassetti, che ha egregiamente curato il secondo «Quaderno» del Cinquantennale, che si deve l’importante raccolta degli scritti di Balducci usciti sulla rivista dal 1958 al 1992.

Cinque le sezioni tematiche del fascicolo: Ernesto Balducci e Testimonianze, Grandi testimoni di fede, Crisi del Cristianesimo e cultura del dialogo, Verso un nuovo umanesimo, La città del domani. Nell’impossibilità di dar conto della ricchezza dei testi, mi limito qui a qualche annotazione di fondo; e dunque, per cominciare: qual è il carattere dominante di questi scritti, l’elemento comune nella varietà dei temi e degli interessi, che rende il Quaderno così stimolante?

Il discorso di Balducci ha prima di tutto, come tratto caratteristico, una vocazione totalizzante: è mosso dalla volontà di tenere insieme ambiti di esperienza e di riflessione diversi ed anche eterogenei. Al contrario della cultura oggi dominante,  che ammette solo il microspecialismo o, all’opposto (e in modo complementare), la ciarla mediatica, Balducci svolge un ragionamento, vuole argomentare, compie un percorso per arrivare ad una sintesi fondata entro un orizzonte culturale in divenire, un processo non un sillogismo (un’interpretazione, quindi). Questo elemento insieme globale e processuale si avvale di un saldissimo impianto retorico (si avverte qui il talento del grande predicatore, più che dello “scrittore”), ed agisce tanto a livello per così dire “orizzontale”, nel senso dell’estensione geografica, sovranazionale (non a caso L’uomo planetario s’intitola uno dei libri suoi più noti), quanto a livello “verticale”, nel senso della dimensione storica. Così Balducci per arrivare a parlare del presente – questo è il suo obbiettivo - attraversa campate secolari e scavalca frontiere e continenti; e lo fa aiutandosi con citazioni esemplari e illuminanti, riuscendo a mobilitare il lettore e quasi a trascinarlo per mano, accanto a sé ed in compagnia di autori di un repertorio che comprende tanto i classici della filosofia, quanto pochi “maestri” contemporanei degni di questo nome.

Chi siano costoro, ce lo ricorda la sezione sui Grandi testimoni, in cui spicca uno straordinario ritratto di Lorenzo Milani¹ In chiusura vi si afferma che Barbiana «non è un modello, è un messaggio, e il messaggio non si imita mai; è sempre un appello a nuove creazioni» (p.49): parole che valgono anche per l’opera di Balducci, ma forse per quella di tutti i veri maestri. Quanto alla compagnia di più lungo corso che incontriamo nelle pagine di questo fascicolo e che affiora soprattutto nelle citazioni, è bene rammentarne i nomi, e tra questi in particolare Kierkegaard, Bonhoeffer, Ernst Bloch, perché essi alludono ad un patrimonio comune (a credenti e non credenti), ad un insieme di speranze e atteggiamenti che tanto più è irriducibile ad una lettura accademica o dogmatica, tanto più viene posto fuori gioco dalle false contrapposizioni di cui la Chiesa attuale, e certo non solo la Chiesa, si serve come strumento per l’ottundimento conformistico delle coscienze. Sempre nel pezzo su Don Milani si parla del recupero del Vangelo «al di là delle sue sistemazioni dottrinali, nella sua integrità messianica di annuncio di liberazione totale dell’uomo» (pp. 44-45): ebbene, non sono proprio questa eredità e questo annuncio a essere banditi nel fragore delle quotidiane prediche televisive, nel mobbing episcopale e nel pontificio management dello Spirito Santo? Del resto, la stessa parola «emancipazione» è diventata oggi alcunché d’inservibile, un arcaismo un po’ ridicolo: e da cosa potrebbe esserci liberazione, tranne che dai rumeni, dai lavavetri o dai mendicanti che ingombrano le strade delle città? Chi ha utilizzato come slogan politico «I care» per poi ordinare l’evacuazione di una baraccopoli di rom ha sicuramente colto lo spirito del tempo; ma di Barbiana non dovrebbe nemmeno sfiorare il nome.

Troppo facile, tuttavia, leggere Ascoltare il respiro del mondo a partire dalle convulsioni parodistiche dello show politico italiano e dall’ondata controriformistica che ha investito tutta la società nell’ultimo ventennio. Quasi ogni ideale ed ogni proposta avanzata in queste pagine pare contraddetta in profondità dal presente; e con singolare accanimento, si direbbe, l’idea di una «città nuova», quale Balducci elaborava sul finire degli anni Ottanta. Si rilegga un passo da La sfida delle città (p. 184): 

Per avere tutte le mattine il nostro giornale in edicola si devono disboscare ogni giorno nel sud del pianeta alcuni ettari di foreste. E questa violenza anonima e invisibile che rende possibile la crescita e la dilatazione delle città del Nord è della stessa natura della violenza che ammassa nelle megalopoli del Sud le masse subumane. L’avanguardia della marea montante dei popoli della fame è già tra di noi, si aggira tra le nostre strade e invade lentamente gli spazi lasciati vuoti dalla denatalità, ponendo le premesse dell’Europa meticcia del 2200. Lo vogliamo o no, la città-mondo sta nascendo e sarebbe una catastrofe se dovesse nascere e crescere senza il controllo della nostra consapevolezza e della nostra strategia politica.

 Invece, proprio così è andata: la «città-mondo», la «città di tutti» che avrebbe dovuto comportare «l’accoglimento di tutte le diversità» ed esprimere non «il volere di un unico sovrano deificato, ma la volontà individuale e collettiva dei suoi cittadini, che ha per meta l’autocoscienza, l’autogoverno e la realizzazione della propria personalità» (ibidem) non solo non è nata ma ha lasciato il posto ad una utopia rovesciata, impaurita, livida e assediata. Non sono mancate la consapevolezza politica e la strategia politica, ma militavano dall’altra parte, nella contro-utopia: è stato dunque fatto un lavoro nel corpo della società, un lavoro lungo e perseverante ma fruttuoso, perché fossero sconfitti quelli che, come Balducci, avevano intuito quale era l’onda montante. Non diversamente è avvenuto per altri ideali, come quello del pacifismo rivendicato da Balducci richiamandosi a Gandhi e Tolstoj: il bellum omnium contra omnes paventato negli scritti di «Testimonianze» come risposta al mancato accoglimento delle diversità è diventato la legge interiorizzata che regge il pianeta globalizzato.

Eppure, la percezione della violenza di cui Balducci si faceva testimone non può essere né rimossa né attenuata. Non può infatti esistere una «etica planetaria» se non a partire dalla constatazione che viviamo in «un sistema produttivo in cui il progresso del 25% della popolazione mondiale implica necessariamente lo sfruttamento del 75%» (così Mary Malucchi introducendo la sezione Verso un nuovo umanesimo, p. 126): il principio della contemporaneità di tutti i viventi² e l’accettazione del numerus clausus planetario non possono coesistere, né “cristianamente” né “umanamente”. In questo senso il titolo del Quaderno avrebbe potuto essere, non meno nello spirito inconciliato di Balducci: Ascoltare la violenza del mondo; oppure, anche: Ascoltare il dolore del mondo. E proprio nella capacità di affrontare senza sconti il tema della crisi, non solo del Cristianesimo ma della «civiltà» moderna (di cui la città è espressione), gli scritti ora raccolti costituiscono un aiuto prezioso a chi rifiuti il sarcasmo dei vincitori: l’ascolto di cui danno conto queste pagine non è infatti rivolto soltanto agli eventi più esposti sul palcoscenico della storia – anzi qui Balducci sembra  talvolta dar troppo peso ai protagonisti ed agli eventi -  ma anche alla dimensione più intima dell’esperienza individuale, alle zone inquiete e crepuscolari dell’esistenza, dov’entra in scena l’Homo absconditus che egli oppone all’Homo editus. Si veda per esempio un passaggio da La cultura dall’antagonismo alla convergenza (1988), che nelle pieghe di un discorso che coinvolge Heidegger e Buddha così argomenta (p. 165):

 … però io sento che in questa problematicità del valore dell’esistere, si nasconde non so quale profonda virtù, una specie di pietas, di pietà che dobbiamo gli uni verso gli altri. Il sentimento dell’inesplicabilità dell’esserci è come il rimando a una sapienza ulteriore a noi in cui risiede il senso dell’esistere, che per noi è così ambiguo. […] Quando ho incontrato un ragazzo adolescente dedito alla droga e gli ho detto: “Guarda, se ti droghi, muori”, egli mi ha risposto: “e che voglio io, se non questo?”. C’è qui una risposta a quella banale voglia di vivere che esplode nel rito annuale delle vacanze, che riempie le spiagge, i monti e le autostrade creando un linguaggio radiofonico. Chissà che non abbiano ragione quelli che non vogliono vivere?

In Balducci il percorso della ragione non perde di vista il margine oscuro, la negazione, l’estremo; anzi è dal confronto con il «sottosuolo delle molte culture» in cui «passa una saggezza che le sgretola» (p. 165) che egli riparte ogni volta, ipotizzando nuovi percorsi, convergenze con culture “altre” e divergenze dalle proposte della cultura data (edita). Così come non dimentica la dimensione della «nonstoria» che vive dentro il tempo «sincronico» (p. 166), le «plebi immense» escluse dalle coordinate del progresso: la pietas non è in lui atto caritatevole, l’altra faccia del cinismo imperante, ma identificazione con l’altro.

Bisognerebbe, di fronte a pagine così intense e insieme così contraddette dal corso degli ultimi anni, resistere alle opposte tentazioni della storicizzazione e dell’attualizzazione. La distanza dovrebbe accompagnarsi alla sintonia, la disobbedienza alla fedeltà. Nel suo “profilo” del Cattolicesimo italiano del Novecento³ parlando degli anni Cinquanta, scriveva Michele Ranchetti:

È difficile dire che cosa si propongano il servita padre David Maria Turoldo con il confratello padre Camillo  de Piaz a Milano con la loro corsia dei Servi o padre Ernesto Balducci a Firenze con il suo Cenacolo e poi la sua rivista «Testimonianze» e la sua non facile e certo non idillica alleanza con Giorgio La Pira. La loro è più una testimonianza che una proposta religiosa alternativa: un esempio di fede vissuta e predicata all’interno del cattolicesimo, in una sorta di attesa di mutamenti nella storia della rivelazione che possono anche trascendere la tradizione ricevuta e conservata nell’ossequio.

 Forse Ranchetti aveva ragione a scorgere in quelle figure «gli ultimi preti», come ipotizzava in un altro testo (Su padre David Maria Turoldo, come quello appena citato raccolto in Non c’è più religione); e tuttavia egli ritornava poi alle figure di Turoldo, de Piaz, Milani, Balducci, suggerendo di guardare a loro «come se fossero dei punti luminosi che, tra loro connessi, tracciano una costellazione che serve a orientare il cammino» (p. 103). E si chiedeva infine Ranchetti: «Ma il cammino di chi, ora?». Proviamo a rispondere: di chi ascoltando la violenza del mondo non rinunci a pensare la «città di tutti.»


 

 

1. Segnalo qui il recente, importante contributo di Sandro Lagomarsini, Lorenzo Milani maestro cristiano, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 2007.

2. Vedi in proposito l’intervento di Enrico Peyretti Disagio della civiltà cristiana, «L’ospite ingrato», IX, 2, 2006, pp. 15-27.

3. Prima in La cultura italiana del Novecento, a cura di C. Stajano, Roma.Bari, Laterza, 1996, poi in M. Ranchetti, Non c’è più religione. Istituzione e verità nel cattolicesimo italiano del Novecento, Milano, Garzanti, 2003, pp. 86-87.

 

 

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