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Mistica senza mistificazioni: l'ultima raccolta poetica di Michele Ranchetti

Marco Pacioni

 

L’itinerario di Michele Ranchetti (1925 – 2008) che ci ha lasciato all’inizio di febbraio è un percorso intellettuale nel quale le deviazioni e le interruzioni sono più importanti delle continuità. Così egli scriveva in uno dei suoi saggi raccolto nel primo volume degli Scritti diversi. Etica del testo (Edizioni di Storia e Letteratura, 1999): «È […] certo che la vita si interrompa più volte nel corso della vita, ed è a questa “forma” di interruzione che si deve attribuire una rilevanza non prevista o almeno trascurata nelle “biografie” e di rado presente nelle scritture autobiografiche. La vita di qualsiasi uomo, sano o malato, non è per nulla un percorso lineare in cui la presenza della vita costituisca un elemento costante». E tutta fuorché “lineare” era la gamma dei suoi interessi: Pascal, Wittgenstein, Freud, Benjamin, Celan, Rilke, gli eretici, la storia della chiesa, la traduzione e, naturalmente, la scrittura poetica. Nonostante l’avesse praticata in forma privata sin da adolescente, Ranchetti si era convinto soltanto di recente, alla fine degli anni ’80, che la poesia potesse essere la “forma” attraverso la quale esprimere le cesure, le interruzioni e le discontinuità: ciò che per definizione è più difficile, se non impossibile, rappresentare. A tale compito è chiamata ad assolvere anche la sua terza e postuma raccolta, dopo La mente musicale (Garzanti, 1988) e Verbale (Garzanti, 2001): Poesie ultime e prime, Verbarium-Quodlibet, pp. 89, € 15. (Un quarto volume, un’antologia allestita per il conferimento del premio Anterem, che comprende anche componimenti inediti, sarà pubblicata in ottobre). La sequenza del titolo, descrittiva della reale cronologia dei componimenti, e l’esergo «… vi sono più testamenti che eredi» evidenziano che l’itinerario non può e non vuole disegnarsi come una narrazione in cui inizio e fine hanno il loro posto stabilito. Come nelle scritture che inclinano alla mistica o si situano in atmosfere di situazioni estreme – come in Giovanni Della Croce, Angelo Silesio, Carlo Michelstaedter o nel Giorgio Caproni di Res Amissa, per fare alcuni nomi vicini a Ranchetti – origine e termine, vita e morte e, più in generale, tutte le antitesi non vengono semplicemente espresse come opposizioni, ma come simbiosi. Esse fluttuano continuamente le une nelle altre e per questo si ha sempre contemporaneamente l’impressione del movimento e dell’immobilità, dell’apertura e della chiusura perentoria: «Di contro al tuo silenzio non ha voce / il grido del neonato che si accerta / d’esser vivo piangendo perché teme / l’atterrito silenzio in cui tu muori viva. // Un altro vento muove le tue membra / e percorre il tuo corpo. Verso dove? / Dov’è la morte e perché il suo grembo / ti vuole nascere, madre del suo vivere, / del tuo morire?».

Benché a prima vista potrebbe sembrare il contrario, quello di Ranchetti non è il tipico stile della coincidentia oppositorum: la formula più identificativa e abusata della tradizione mistica. La logica dei contrasti, la loro ossessiva ripetizione non sono il rovescio della linearità. Le antitesi, gli ossimori e i chiasmi non chiudono completamente gli snodi del cursus della scrittura. Vi è sempre una tensione asimmetrica che salva un resto – spesso per isolarlo tragicamente –, uno spunto imprevisto, un tertium non pienamente dicibile, ma che proprio per questo si può “mostrare”, come voleva Wittgenstein. È questa forse la punta più estrema e originale della vena mistica della sua poesia, perché vuole contemporaneamente demistificare l’incantamento affabulatorio, spiazzare il lettore e, allo stesso tempo, chi scrive. Tuttavia vi sono delle differenze. Nelle poesie latine – le Prime, poste nella seconda sezione del libro, ma risalenti agli anni 1940-1945 – le iterazioni perdono la loro ossessività, il ritmo è meno spezzato e sembra placarsi: è l’influenza del latino liturgico e della sua ritualità cristallizzata nella quale la specificità della voce del poeta sfuma in coralità. Al contrario nelle due poesie in tedesco presenti nella prima sezione Ultime, la pronuncia è più secca, le asimmetrie si stemperano. A differenza del latino (e solo in parte dell’italiano), lingua della preghiera, il tedesco sembra assumere di più il ruolo di lingua del giudizio assertorio. L’influenza di Celan (ma anche di Wittgenstein) è qui molto forte.

Difficile accostare senza forzature Ranchetti alle principali tendenze della poesia italiana contemporanea. E tuttavia per questo la sua “inattualità”, nella poesia, ma anche nella psicoanalisi, nella religione, nei progetti editoriali e, in generale, nei modi della sua presenza intellettuale, lascia un segno ancora più vivido e un’eredità di cui si può disporre soltanto se non la si trasforma in monumento. Quella di Ranchetti è anche una via alternativa di poesia religiosa che non raggela nella mera presenza il mistero dell’Incarnazione e che anzi contesta l’arresto al visibile operato con sempre più forza dall’istituzione cattolica. In queste poesie è soprattutto la “morte” il termine che si oppone alla riduzione al visibile della religione. La morte è convocata per riuscire ad appropriarsi, a comprendere la vita che tuttavia sfugge e che proprio a causa di ciò rimane “assente” nel momento in cui chi scrive cerca di trovarne i segni per avvertirla nel proprio sé. Convocare la morte, inevitabilmente dal lato della vita, significa riaprire continuamente il tempo al perdurare della rivelazione (cristiana) sottraendo il divenire a ciò che è considerato come dato una volte per tutte, come “già-rivelato”. Nella religiosità che si ripara nel “rivelato” l’esistenza può specchiarsi e riconoscere – o credere di scoprire per la prima volta – d’avere un’identità da trasferire, eventualmente, all’esterno. Il corpo e la mente, la vita e la morte, il bene e il male diventano etichette con le quali non si interroga più l’esistenza nella quale si è manifestato l’evento religioso, ma proiezione del riflesso di sé sugli altri. La religiosità diventa un “valore” da monetizzare – il “rivelato” diventa (capitalisticamente) “ricavato” – nella forma che più necessita. Il sentimento religioso svanisce nel singolo per ricomporsi nella moltitudine, nel fragore dell’applauso. Ed è proprio nel punto dove il battito delle mani sta per scoccare che invece trova spazio Ranchetti. La sua poesia introduce un inter-tempo fra «battere e levare», un’interferenza che libera la rivelazione dal suo esser “già-stata-rivelata.”

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