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La rivista “Primo maggio” (1973-1989)
DeriveApprodi Editore, Roma, 2010.
Lorenzo Mnf
Divagazioni prima della recensione e per la
recensione.
Se dico che molti di voi non ci aspettavate, capite a che
generazione appartengo.
Siamo una razza nuova, noi. Abbiamo studiato e vaghiamo randagi per
l’Europa, ma abbiamo contingenze e urgenze simili a certi operai.
In molti casi, di quei certi operai, siamo i famosi “figli dottori”.
Mentre studiavamo si formava un mondo in cui studiare non era più un
atto di liberazione. Ed eccoci di nuovo a lottare.
Siamo studenti o lavoratori della conoscenza, alta o bassa che sia, in
un sistema che la conoscenza la vuole schiava. Il proletario non aveva
che le braccia, noi non abbiamo che la testa. Non è la stessa cosa, ma
lo sfruttamento è sempre tale, e, malgrado il restyling permanente,
tale è lo sfruttatore.
Ecco perché a noi nessun novello Pasolini (povero Pasolini) può venirci
a dire che abbiamo torto ad invadere le strade, magari perché non siamo
figli del popolo.
Perché, fatta eccezione per i migranti e altri perseguitati nella
notte, c’è oggi in Italia miseria sociale più grande che essere
giovane? E, allargando lo sguardo, c’è oggi in Europa un soggetto più
credibile dei giovani che affrontano il presente in nome del
futuro? C’è oggi pensiero più utile di quello che demolisce con
gioia i nuovi dogmi ideologici?
E’ dura capirlo per gli intellettuali classici e per tutti quei nuovi
benpensanti che mai ammettono di esserlo: la nostra non è una questione
di stile, non è una scelta ideale, tantomeno è un’imitazione. La nostra
è una ribellione morale in quanto materiale, la nostra è rabbia con
un’origine e con un fine. E’ qualcosa di ben più profondo di quanto si
possa risolvere in un moribondo talk show televisivo o su qualche
giornaletto assolutamente democratico. Ancora ci provano certi
mestieranti a “parlare di giovani”, come se i “giovani” avessero
bisogno di loro, come se noi ci aspettassimo che chi rappresenta il
problema ora discuta della soluzione.
Noi siamo i soggetti di una rivolta non più figlia del benessere: la
nostra è autodeterminazione interessata e immediata. Si comprende che
in molti possano averne paura: i reazionari per la risata con cui
guardiamo alla loro decadente violenza post-fascistoide, i sedicenti
oppositori perché vedono chiaramente che il loro stanco e nevrotico
protagonismo è oramai roba da museo. Ci temono e ci guardano, non
sopportando, prima di tutto, l’idea che noi non si voglia svendere a
pacchetto completo la nostra intelligenza.
In questi giorni, infatti, di fronte alla protesta giovanile, nessuno
ha posto abbastanza attenzione al sentimento dell’invidia, che muove le
reazioni di repressori e paternalisti. L’invidia per una giovinezza che
può porsi domande radicali senza aver paura di perdere qualcosa,
proprio perché libera da fardelli partitici, sindacali, baronali e
lobbistici in genere. L’invidia per noi che possiamo essere ancora
liberi da compromessi irrimediabilmente mutilanti, compromessi come
quelli accettati negli anni passati da specifiche élites intellettuali,
compromessi che non hanno mai avuto qualcosa in comune con una sana
apertura mentale, anzi, che hanno sancito per gran parte del mondo
culturale italiano (e europeo) l’auto soffocamento.
Non credo infatti che sia eccessivo cercare di riconoscere nel mondo
intellettuale ufficiale (e ufficioso) uno dei maggiori responsabili, se
non altro per omissione di soccorso, dei disastri sociali che stiamo
vivendo. Proprio la natura stessa di un capitalismo cognitivo avrebbe
dovuto far capire che, almeno da un po’, le azioni culturali devono
interrogarsi sulle loro dirette implicazioni sociali e che, se non lo
fanno, sono destinate ad essere arte sublime (caso auspicabile ma
raro), implicita legittimazione dello status quo (caso diffuso) o
semplice aria fritta (caso altrettanto diffuso) . Proprio il ruolo del
pensiero come valore avrebbe dovuto suggerire che la critica e la
conoscenza di questo valore non erano passatempi sterili, ma scelte
necessarie. E’ quasi un mistero vedere, invece, come realtà
intellettuali che furono un tempo enormemente evolute nelle capacità
critiche siano riuscite, nell’ultimo ventennio, ad inchinarsi al più
becero utilitarismo per i più effimeri interessi di casta, e che lo
abbiano fatto spesso perché mosse da un decadente, tacito, quasi
isterico, nichilismo.
Non è invece un mistero perché oggi, di fronte al prepotente riemergere
di alcune congiunture storiche, le stesse realtà intellettuali
balbettino lingue impotenti, in molti non hanno più un bel niente da
dire.
Insomma: per gran parte del ceto culturale la nostra voce è dura da
accettare, e si può anche capire perché. Non c’è quindi da pretendere o
elemosinare sostegni di cui non si ha bisogno. Non c’è da ascoltare
troppi consigli.
Ma forse fanno ancora eccezione quegli intellettuali che da sempre
hanno provato ad interrogarsi radicalmente su loro stessi, sul senso di
quello che facevano, su come ciò che facevano interveniva realmente e
concretamente nelle dinamiche sociali. Quelli intellettuali che nel
recente passato si sono gettati nel corso della storia senza pretendere
di osservarla solo da fuori e che, pur cogliendo la tragicità della
storia stessa, non hanno ceduto al nichilismo e all’utilitarismo beota.
Quegli intellettuali che hanno provato a prestare forme di soccorso
sociale e, per questo, sono oggi ufficialmente sconfitti (per ora).
Quegli intellettuali che hanno oggi l’onore di non farci paternali, ma
riescono ancora a darci suggerimenti. Quegli intellettuali che in
qualche modo ci somigliano, per ciò che fecero un tempo e per ciò che
non si rimangiarono dopo.
Questa vuole essere una recensione.
Ed è
allora di questi intellettuali e della loro storia (tanto la loro
quanto quella che hanno scritto) che vorrei in verità trattare. Ma
prima di poterlo fare devo ancora affrontare la questione del passato
dal punto di vista della mia generazione. A oggi non voglio prescindere
da uno sguardo del genere, perché tutto il resto sarebbe soltanto una
ripetizione, e allora non avrebbe neanche senso scrivere.
Il passato è per noi una questione non subito evidente, ma ugualmente
carsica, fondamentale. E’ una terra, più o meno straniera, in cui siamo
spesso aggrediti in maniera quasi assurda. Sono sempre dei novelli
Pasolini, instancabili banalizzatori del Pasolini assassinato, che
contro l’urgenza di certe nostre rivendicazioni contemporanee usano il
passato come arma ideologica. Tirano fuori un passato ben modificato,
ben ristrutturato, costruito da anni di propaganda permanente e
deprimente. E allora eccoli, i finti Pasolini, eccoli che, ad ogni
nostro movimento non educato e disciplinato, esclamano all’unanimità:
“Oh giovani attenti! L’importante è che non facciate gli errori
del passato”.
Attenti al passato, spiegano i padroncini del passato.
Già, ma di quale passato stiamo parlando? Davvero possiamo ancora
considerare nostro il passato ufficiale tanto amato da chi ci reprime e
da chi ci invidia?
Perché se il passato ufficiale ci ha portato all’ingiustizia di oggi,
alla rassegnazione di oggi, alla silenziosa violenza di oggi…Se il
passato ufficiale permette a chiunque non ne ha il titolo intellettuale
o morale di farci una noiosissima paternale. Se il passato ufficiale è
fatto per farci fare la vita degli scemi, che ce ne facciamo di questo
passato?
Perché non esigere un passato meno soffocato dai compromessi e dalle
colpe, cioè libero da quei compromessi che non abbiamo stretto e da
quelle colpe che non ci appartengono? Perché, ad esempio, non esigere
almeno il passato così come è stato studiato da tante menti oneste e
capaci che, nonostante tutto, non hanno mai smesso di pensare tra le
macerie di questo Paese? Perché non ripartire da qui per costruire
percorsi di conoscenza autonomi che ci appartengano direttamente?
Un passato meno scemo?
La
strumentale narrazione ufficiale della storia recente del Movimento
operaio e studentesco è stata largamente utilizzata come arma
repressiva contro l’attuale protesta delle giovani generazioni
italiane, vale a dire contro una delle proteste più cruciali e
potenzialmente efficaci che abbia mai conosciuto la storia repubblicana
degli ultimi anni.
La fin troppo nota riduzione della Contestazione italiana degli anni
’60-‘70 alla sola categoria del piombo è stata scaricata sulla protesta
studentesca e sociale e, quindi, sulla già svuotata democrazia
italiana, con una velocità ed una furia tali da tradirne la reale
matrice ideologica, mistificatrice ed, infine, repressiva.
Un passato mistificato ad arte per reprimere ad arte il presente.
Non solo. La strumentalizzazione del passato sotto il finto imperativo
dell’imparzialità avvenuta in questi anni, e su cui la narrazione
ufficiale si basa, si sarebbe potuta smascherare punto per punto
proprio con un approccio più critico allo studio del passato stesso. Ma
tra le vittime della strumentalizzazione del passato sono rimasti anche
quei modi di fare storia invisi al pensiero dominante fintamente
imparziale.
Non c’è che dire: è un cane che si morde la coda.
Ma oggi è tempo di non passare più per scemi, si diceva, e allora il
cane va reso randagio: a questo passato fasullo che ci condanna senza
colpa bisogna rispondere con intelligenza.
Il loro potere non è il nostro, perché dovrebbe esserlo il loro
passato?
Primo Maggio, per esempio.
Ecco che
leggere oggi una rivista di quel vecchio Movimento che fu,
direttamente, senza filtri, può essere una buona idea. Leggere oggi una
rivista come fu Primo Maggio, che uscì tra il 1973 e il 1988,
per
esempio, potrebbe essere un’operazione utile.
In Primo Maggio hanno scritto un bel po’ di quegli
intellettuali forse
capaci, oggi, di digerire la nostra ribellione, un po’ di quegli
intellettuali capaci di gettarsi nella storia senza pretendere di
osservarla e senza convertirsi al nichilismo, un po’ di teste capaci di
donarci sapere concreto senza però venirci a dire quello che dobbiamo
fare delle nostre vite.
Dedicato alla rivista Primo Maggio è uscito, quasi un anno fa,
un libro
della DeriveApprodi, curato da Cesare Bermani e con diversi saggi di
autori abbastanza eterogenei (nel volume compaiono interventi di:
Cesare Bermani, Sergio Bologna, Riccardo Borgogno, Bruno Cartosio,
Alberto De Lorenzis, Valerio Evangelisti, Stefano Lucarelli, Santo
Peli, Karl Heinz Roth).
Ma quello che forse conta ancora di più, è che questa raccolta di saggi
accompagna un’eccezionale digitalizzazione su Cd-rom di tutti i numeri
della rivista Primo Maggio, consegnando alla riproduzione
informatica
un patrimonio fino ad ora disperso in copie volanti di collezioni
private o di Movimento. Quella di DeriveApprodi è una scelta editoriale
che ne segue altre simili e di cui non c’è che da essere contenti.
Ancora oggi leggere Primo Maggio è tempo usato bene, molto
bene. Per
tutti, anche per noi che nemmeno abbiamo trent’anni.
Leggendo oggi la rivista si può provare a capire, senza filtri
strumentali di alcun tipo, cosa si scriveva negli anni della tanto
demonizzata Contestazione. Di questa Contestazione si potrebbero
iniziare a fare mappature cronologiche e distinzioni politico-culturali
approfondite, capaci di sgretolare le misere semplificazioni oggi in
voga sul Movimento di allora. Leggendo quegli anni su fonti dirette,
senza le rimozioni, le criminalizzazioni e le abiure di chi da sempre
si è arrogato il diritto d’ufficio di narrarli, si potrebbero fare
realmente, concretamente e pacificamente, i conti con le considerevoli
differenze tra le diverse proteste di allora e quelle nascenti di oggi
(altrettanto multiformi?).
Allo stesso tempo, visto che il metodo stesso di guardare al passato
che ci è stato consegnato dal pensiero ufficiale si è rivelato parte
della fregatura, ecco l’occasione di guardare ad un modo diverso di
fare storia, nato allora, poi sconfitto e, quindi, anch’esso rimosso.
Perché proprio Primo Maggio fu la testimonianza più viva,
coinvolta e
determinata di un modo differente di guardare al passato, un modo
militante, ma non per questo meno capace, meno profondo, meno efficace.
E ancora, la scelta per un sapere militante non si limitò in Primo
Maggio alla storiografia, ma si avventurò in numerosi altri campi,
apportando innovazioni e aprendo prospettive che possono costituire per
noi, oggi, preziosi stimoli intellettuali. Non è quello che ci serve?
La rivista.
Primo Maggio nacque nel 1973 e visse
per 16 anni,
raggiungendo complessivamente 29 numeri e alcune edizioni speciali.
Fondatori furono ricercatori di formazione operaista come Sergio
Bologna, ma anche giovani studiosi come Bruno Cartosio. Da un punto di
vista pratico, e non solo, fu fondamentale l’appoggio di una figura
poliedrica come Primo Moroni.
La rivista contò su varie collaborazioni tra cui quelle di Cesare
Bermani, Valerio Marchetti, Peppino Ortoleva, Marco Revelli, Lapo
Berti, Franco Gori, Christian Marazzi, Marcello Messori e Giancarlo
Buonfino (creatore della allora modernissima grafica della
rivista).
Di cosa si
occupava Primo Maggio?
Viene in mente Bertolt Brecht. La voce che
levò Primo Maggio
tra le
riviste della sinistra radicale di allora fu quella brechtiana del
1935: “Compagni, parliamo di rapporti di produzione!”.
Primo Maggio portava il segno operaista dei Quaderni Rossi
e di classe
operaia, un segno forte e concreto, che cercava di unire la lotta
del
sapere con la lotta del lavoro, partendo da quest’ultimo. In Primo
Maggio, come in molte altre esperienze di quegli anni, si definì
come
centrale un’azione di conoscenza che stesse dalla parte del lavoro e
delle sue urgenze e in lotta contro la logica dell’organizzazione
capitalistica del lavoro e della conoscenza stessa. Se si provasse,
quindi, a leggere Primo Maggio senza tener conto che, allora,
lo sforzo
era quasi interamente rivolto al mutamento dei rapporti economici e
sociali, si finirebbe per non capire niente dello spirito di quelle
pagine.
Nessuna posata equidistanza, Primo Maggio stava da una parte
sola.
Piaccia o meno, questa fu la sua forza.
Si trattò della ricerca di un sapere militante, perché
volontariamente parziale e schierato in quella dicotomia irrinunciabile
che veniva riconosciuta nel conflitto tra capitale e lavoro.
E nascendo come rivista di storia, cosa significava allora fare una
“storia militante”? Significava fare una ricerca storica della classe
lavoratrice, “per una storia di classe” si può leggere oggi su
ciascuna
delle ventinove copertine. Una ricerca storica che però aveva poco a
che fare con la storiografia di sinistra fino ad allora esistente e che
voleva guardare al passato della classe lavoratrice non limitandosi
alla storia etico-politica delle organizzazioni partitiche o sindacali
convenzionalmente rappresentanti la classe lavoratrice. In questo senso
il progetto di Primo Maggio portava a termine alcune
prospettive aperte
dieci anni prima da Coldagelli e De Caro che, primi tra tutti, sul
numero 3 dei Quaderni Rossi, con il loro Alcune ipotesi di
ricerca
marxista sulla storia contemporanea, invitavano a fare una storia
materiale del lavoro e dei movimenti operai, senza cadere nel tranello
di fare, comunque e sempre, una storia integrativa della storia del
capitale. Una storia di classe, appunto.
Ma perché i lavoratori e il Movimento avrebbero avuto bisogno
direttamente di una storia propria, soltanto loro, in nessun modo
legata a quella padronale?
I lavoratori avevano bisogno di una storia propria non certo per
contemplarla con un gusto per l’antico e non certo solo per riconoscere
le lacune della storia ufficiale raccontata dal padrone. I lavoratori
avevano bisogno di una storia propria per l’azione, vale a dire per la
loro lotta.
Altrimenti la storia, suggeriscono molti passi di Primo Maggio,
a che
servirebbe? Una domanda che gli storici non dovrebbero mai smettere di
farsi.
Nella domanda di senso attivo per l’attività intellettuale coglie
perfettamente il segno l’analisi condotta da Alberto De Lorenzis: lo
spirito della storia militante fu, infine, molto nietzschiano: la
storia, se serve, serve per l’azione (non solo Nietzsche ma anche
Jünger hanno infatti in qualche modo animato l’operaismo…spregiudicato
metodo quello operaista: prendere pezzi di pensiero conservatore e
rimodellarlo per la lotta di classe…una specie di détournement
debordiano?).
Il passato serve allora per l’azione, va quindi letto con la lente del
presente e serve per agire sul presente. Il passato in funzione del
presente, poiché Gramsci aveva avvertito: ogni storia è storia
contemporanea, e Primo Maggio aveva concluso: tanto vale non
fingere
che non sia così.
Un’impostazione che farebbe inorridire i sacerdoti dell’immobile
imparzialità odierna e che già solo per questo sarebbe da rileggersi
nel 2011. Non per fare gli stessi errori, ma per coglierne stimoli
vitali, per smuovere l’immobile sterilità accademica, da anni ricaduta
su se stessa (e solo oggi disperatamente cosciente di fronte alla
propria liquidazione finale).
Sia chiaro, oggi non è difficile notare alcuni limiti epistemologici e
di metodo di un’interpretazione storiografica come quella militante,
evidentemente eccessivamente concentrato sugli aspetti prettamente
economici dell’analisi del reale, spinta a forza nella polarizzazione
tra capitale e lavoro e, appunto, piegata a volte spudoratamente alle
esigenze del presente. Ma bisogna assolutamente tenere conto del fatto
che quando Primo Maggio lanciò la sua sfida andava a rompere
barriere
epistemologiche molto più ottuse. Si può dire che fino ad allora tutta
la storiografia italiana era stata, sempre e comunque, storia delle
élites, che fossero di destra o di sinistra, padronali o ufficialmente
operaie. Fino a quel punto la storia era sempre stata storia del
potere, dei poteri, o, al massimo, storia della rappresentanza delle
classi subalterne.
L’idea di Primo Maggio mandò quindi all’aria trent’anni di
idealismo
crociano e una certo Gramsci ufficiale tanto amato dal Pci (non certo
quello di Americanismo e fordismo, per intenderci). Cogliendo
il vento
di importanti avanguardie storiografiche internazionali (francesi e
americane su tutte), Primo Maggio tentò di proporre una
storiografia
radicale. Radicale nel senso che andasse alla radice delle cose. Primo
Maggio, strumentalmente o meno, volle puntare al cuore dei rapporti
sociali del passato e del presente, con un atto di rottura fino ad
allora sconosciuto nella storiografia italiana, e non solo in quella.
La storia militante. Per chi
rilegge oggi la rivista ci sarà, quindi,
l’occasione di trovare articoli pionieristici su realtà marginali del
movimento operaio, quali l’anarcosindacalismo, l’anarchismo, il
consiliarismo, altre forme di spontaneismo e democrazia operaia, che
vennero riscoperte con la dichiarata volontà di trarre spunto per il
Movimento extraparlamentare italiano di allora.
Ma soprattutto chi legge oggi Primo Maggio scoprirà con i
propri occhi
che il vero pionierismo fu nel campo della storia internazionale,
qualcosa che la storiografia italiana amava allora poco. Su tutte la
storiografia americana, che arrivò in Italia proprio con Primo
Maggio.
La storia operaia americana, dimenticata a sinistra per impostazione
ideologica filosovietica, spuntò d’un tratto grazie ad autori come
Cartosio ed Ortoleva e dimostrò, a chi volesse scoprirlo, che gli
americani non erano tutti imperialisti e che alcuni di loro, ad esempio
gli IWW, avevano una visione meno idealistica e più materialistica
della storia di tanti marxisti europei (cosa che già Mario Tronti aveva
sancito nel suo Marx a Detroit).
Tra l’altro, andando oltreoceano in fuga dal marxismo ortodosso, si
aprirono anche prospettive di storia delle emigrazioni che oggi, per
una ottusa damnatio memoriae, non sono riconosciute a Primo Maggio,
ma
che furono contributi fondamentali alla storiografia contemporanea
dello specifico settore.
Ma non ci furono solo gli Stati Uniti, Primo Maggio portò in
Italia
anche la storia tedesca, grazie ai legami che allora l’operaismo
italiano aveva con ricercatori come Karl Heinz Roth. Il gruppo di Roth
con un solo libro, un po’sgangherato ma con un titolo già vincente come
L’altro movimento operaio, fu capace di sbattere in faccia alla
pacificata socialdemocrazia tedesca la continuità del potere repressivo
nelle fabbriche prima, durante e dopo il nazionalsocialismo. E lo
fece seguendo la storia che si svolgeva nel cuore della produzione
industriale, secondo lezione operaista e secondo esortazione
brechtiana.
E non si può fingere di non notare come, quando Roth stesso rimase
coinvolto nel conflitto sociale dei suoi giorni, si concretizzò forse
l’aspetto più tragico del sapere militante: non guardare la storia
dalla riva, ma nuotando in essa. In molti negli anni di Primo Maggio
accetteranno le conseguenze di una simile scelta che, giusta o
sbagliata che fosse, ci rivela una forma di integrità alla propria
proposta intellettuale che l’attuale mercantilizzazione dei saperi non
riesce più a codificare.
E poi, ancora, la storia orale: forse il più radicale dei percorsi
storiografici proposti da Primo Maggio. Si trattò infatti di un
metodo
pronto ad andare a fare una storia dei subalterni non più scavando nel
materiale già esistente, ma con fonti specifiche, pezzi di storia che
altrimenti non sarebbero mai esistiti. Fu questo il lavoro
rivoluzionario di Cesare Bermani, tra l’altro curatore del volume qui
trattato, che portò a compimento una tradizione di storia popolare
sviluppatasi, ad esempio, attorno all’Istituto De Martino. Quel Cesare
Bermani che dovrà poi lottare per non permettere che, a partire dagli
anni Ottanta, anche la storia orale diventasse una disciplina
qualsiasi, normalizzata e sterilizzata, vale a dire privata della sua
energia principale: il suo essere euristica perché nata all’interno di
un rapporto di militanza che legava ricercatore e testimone.
Per essere un metodo debilitato dalla parzialità la storia militante
sembra, quindi, averci lasciato un bel po’ di gemme, c’è un certo
bisogno che qualcuno ne riesca a fare, oggi, di nuovo qualcosa di buono.
Il sapere militante.
Ma Primo Maggio non fu solo una
rivista di
storia,
non è solo utile leggerla come rivista di storiografia militante, ma
anche come testimonianza diretta della propria di storia. Primo
Maggio
è al tempo stesso proposta storiografica e fonte storica: in essa si
ritrova anche un’osservazione radicale, di nuovo parziale, ma quasi
sempre lucida, del tempo in cui furono enormemente coinvolti i suoi
autori. Quella che per essi era attualità strettissima, per noi, a
distanza di trent’anni, diventa di nuovo materiale di ricerca storica.
E allora eccoci di fronte ad una fonte che ci parla visceralmente degli
anni Settanta, a partire proprio da quel mutamento del sistema
produttivo di cui ancora oggi siamo una determinazione (come
solidamente sostiene oggi lo stesso Karl Heinz Roth nel volume di
presentazione).
Ecco la rivista Primo Maggio testimone “in diretta” della presa
di
coscienza dell’evoluzione del modello fordista. Certi predicatori del
novello verbo produttivista dovrebbero andare ancora adesso a scuola da
quei ragazzi un po’ esaltati, magari quelli della redazione torinese di
Primo Maggio, che guardando la Fiat e andando davanti ai
cancelli ad
annusare l’aria che tirava, vedevano prima di altri una fabbrica che
cambiava, che si scioglieva nella società, mutandola e venendone
mutata. Chi oggi parla di lavoratori dovrebbe provare ad imparare da
quella che fu la capacità di allora di creare contatti diretti con la
realtà del lavoro, apportando conoscenza teorica ma assorbendo anche
tantissima conoscenza pratica e tacita dagli interlocutori operai
(penso ad esempio ai lavori di collaborazione di Primo Maggio
con il
Collettivo Operaio Portuale di Genova, ma non solo, ci furono tante
altre esperienze simili).
Dalla presa di coscienza del processo di superamento della vecchia
fabbrica si svilupparono, poi, ulteriori avanguardie di ricerca, su
tutte l’intuizione che la nascente saldatura tra produzione e
circolazione richiedeva una nuova attenzione al settore dei trasporti.
Anche in questo campo si aprirono ricerche incredibilmente intuitive
che, come si può leggere nel volume di presentazione, ancora oggi
Sergio Bologna considera uno dei risultati migliori della rivista.
In questo contesto di perenne laboratorio intellettuale, si era intanto
fin dall’inizio fatta strada la consapevolezza della necessità di una
nuova multidisciplinarietà, capace di abbattere gli steccati
classicamente accademici legati ad un mondo sociale e produttivo in via
di superamento.
Ecco allora che, fin dai primi numeri di Primo Maggio, si
possono
leggere articoli preveggenti su fenomeni oggi noti a tutti: la
finanziarizzazione dell’economia e l’internazionalizzazione dei
mercati. Di questo trattano i saggi “sulla moneta” di Bologna stesso,
di Lapo Berti, di Franco Gori, di Christian Marazzi. Anche qui abbozzi,
ipotesi, avanguardie quasi disperse, ma quale lucidità!
E quando, infine, nei primi anni Ottanta, la vivacità operaia che tanto
aveva dato nutrimento e committenza alla ricerca militante subì
sconfitte quasi mortali, ancora una volta la capacità di resistenza del
progetto di Primo Maggio rimase notevole, ancora una volta la
presa di
coscienza dei mutamenti lasciò sforzi preziosi. Basta sfogliare i
numeri di allora per trovare, assieme a notevoli forme di
rivendicazione della propria sconfitta, l’analisi concreta di
fenomeni sociali emergenti quali il lavoro informatizzato, la
persistente questione della tecnologia, la questione ambientale. A
questi andrebbero aggiunte tante altre cose: prospettive internazionali
meno note, sofferti confronti con il tema della violenza, campagne in
favore dell’editoria alternativa e tante altre proposte, spesso solo
ipotizzate, ma sempre lanciate in avanti, spregiudicatamente. Non si
può poi dimenticare che nei numeri di Primo Maggio degli anni
Ottanta
si ritrova anche la percezione della galoppante proletarizzazione del
lavoro intellettuale tramite la precarizzazione del lavoro e
all’interno di un’epocale ristrutturazione capitalistica, vale a dire
qualcosa che riguarda la nostra generazione, qualcosa che torna diritti
al nostro presente, al nostro 2011 da cui anche in queste righe eravamo
partiti.
Sentieri interrotti.
Ecco allora come stanno le cose: tra gli anni
Settanta e Ottanta, Primo Maggio, in mezzo ad enormi
difficoltà,
lacerazioni teoriche, disgrazie economiche, accanimenti giudiziari ed
eterogenei vissuti personali, fu capace di vedere e scrivere cose che,
dieci o venti anni dopo, gli intellettuali dello star system
hanno presentato come fossero la scoperta dell’America.
Ovviamente si potrebbero oggi scrivere pagine intere anche su quanto in
Primo Maggio fu eccessivo, miope o semplicemente sbagliato. Su
quanto
alcune impostazioni non seppero svincolarsi dall’ideologia e su quanto
alcune sedimentazioni culturali non furono mai superate (due su tutte,
enormi: l’incapacità di cogliere l’emergere della società di massa e le
sue nuove forme di dominio su corpi e menti e la scarsa capacità di
accogliere la critica di genere).
Eppure resta innegabile che ciò che si espresse, in maniera eterogenea,
sulle pagine di Primo Maggio, fu un’ostinata applicazione
dell’intelligenza e un coraggioso utilizzo della stessa come strumento
attivo nel, per (e contro) il lavoro. In questo senso credo che abbia
colto nel segno il saggio di Valerio Evangelisti, quando conclude
dicendo a proposito di chi scriveva sulla rivista: “They were
warriors”, riconoscendo così a certi intellettuali una
predisposizione
non comune a superare le comodità della contemplazione e, appunto, a
nuotare nella storia, comunque vada.
Tornando al punto di partenza: in quanto a noi, che fare? Certo non si
tratta di scimmiottare il passato, le nostalgie non servono a niente,
soprattutto quando non appartengono. Non siamo qui per rifare Primo
Maggio, proprio no. Si tratta solo di cogliere i numerosi frammenti
di
quelle intelligenze liberamente al lavoro e vedere se, e come, ci
servono oggi.
Che succederebbe, ad esempio, se domani mattina si levasse una voce
brechtiana che ci dicesse: “Parliamo di rapporti di produzione!” Noi
sapremmo da dove cominciare? Non è il momento di farlo proprio tenendo
conto del ruolo della conoscenza di cui molti di noi sono soggetti
attivi? Non è questo un imperativo ancora valido che fa piazza pulita
di quel getto continuo di pensiero superficiale e spettacolare mai
capace di aggredire la contingenza?
E ancora:
Quanto servirebbe leggere oggi Primo Maggio a noi che siamo
costretti
ad ingoiare un passato ufficiale incapace di spiegarci come siamo
arrivati alla nostra realtà attuale? Quanto ci servirebbe Primo
Maggio
piuttosto che certe idiote narrazioni storico-televisive che hanno
ormai contaminato anche i corsi universitari?
Quanto avrebbero da dirci quelle pagine a proposito di quel passato
recente che viene ossessivamente usato ogni giorno per terrorizzarci,
sedarci, spaventarci ogni volta che, giustamente, alziamo la voce per
le nostre vite?
Quanto sono più vicine a noi pagine come quelle di Primo Maggio
sulla
precarietà nascente rispetto a certe retoriche accademiche che non
sanno nemmeno più distinguere il Risorgimento dalla Resistenza? Quanto
possono essere utili certe prese di coscienza sullo sviluppo storico di
una Costituzione materiale che ha, già da tempo, fatto a pezzi la
Costituzione giuridica, la stessa che tanti onesti credono ancora di
poter difendere sulla carta?
Andiamo avanti: in un momento storico dove l’attacco ai diritti sociali
conquistati nell’ultimo cinquantennio è portato avanti con tale
determinazione, quanto potrebbe servire a noi, che quell’attacco
subiamo, leggere come realmente furono conquistati quei diritti, a
prezzo di quali sacrifici e di quali rischi, con quali metodi e con
quali aspettative?
Oppure: in un contesto politico dove la massima espressione della
sinistra è un nuova ideologia lavorista monodimensionale, quanto può
essere vitale riconnettersi ad atteggiamenti che il lavoro non avevano
paura di criticarlo, anche fino in fondo?
Quanto avrebbero da dirci quei percorsi intellettuali di allora, che si
ponevano domande sul senso del lavoro scientifico, sulle sue dinamiche
sociali, sul rischio della sua addomesticazione? Quanto può
servirci oggi la prova concreta che esistano uno e più modi differenti
di fare un uso attivo del proprio sapere?
Quanto potrebbe servirci intuire, tra una riga e un’altra di Primo
Maggio, una qualche forma di gioia, scaturita
dall’autodeterminazione e
dal rifiuto della servitù?
[20
gennaio 2011]
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