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Shoah. Le colpe degli italiani
Pier Paolo Poggio
La storia politica del Novecento si sta rapidamente allontanando da
noi, non fa più parte del nostro presente. La contemporaneità si nutre
del non contemporaneo, a cui attinge a piene mani il sistema della
comunicazione e dello spettacolo, ma ciò avviene a prezzo della
cancellazione del legame con il passato recente, in primo luogo con le
vicende politiche del secolo scorso.
Liberarsi del Novecento, secolo degli orrori, è stato una sorta di
programma comune che doveva consentire di sbarazzarsi di eredità
imbarazzanti e ingombranti, per affrontare il mare aperto della
globalizzazione sotto il segno dell’eterno presente.
Quel che non poteva essere dimenticato si trasferiva nella dimensione
ritualizzata della memoria ufficiale, istituzionalizzata, presuntamente
condivisa. È così successo che, in tempi abbastanza rapidi, la Shoah,
da evento rimosso se non negato, sia assurta a simbolo di un’epoca
intera, mantenendo aperto un varco tra presente e passato, e però
contribuendo potentemente alla vittoria della memoria sulla storia. Per
non banalizzare Auschwitz e ridurre la Shoah a rito ripetitivo della
memoria, è necessario conoscerne le dimensioni effettuali, la
fenomenologia, indagarne le cause e responsabilità.
In tal senso il libro di Marino Ruzzenenti, Shoah. Le colpe degli
italiani (manifestolibri, 2011), rappresenta un contributo
prezioso che
affronta temi spinosi e ineludibili.
È significativo che esso abbia meritato un attacco diretto
dell’“Osservatore Romano”, forse dovuto anche allo stupore che uno
studioso extraccademico avesse osato mettere in discussione il senso
comune storico, gli assunti non solo del Vaticano ma della storiografia
italiana standard in tema di antigiudaismo e antisemitismo, di
coinvolgimento o meno del fascismo nella Shoah.
Bisogna tener conto che tali assunti fanno parte degli esiti di una
massiccia operazione di revisione storiografica, dispiegatasi
soprattutto dagli anni ’80 in poi: una sorta di rivoluzione
conservatrice all’italiana, volta a ribaltare l’egemonia della cultura
di sinistra, alle prese con il disfacimento e crollo del comunismo.
In quel contesto, al di là di schermaglie di superficie, si
determinarono ampie convergenze trasversali sulle tesi propugnate da
Renzo De Felice e volgarizzate da legioni di giornalisti e fabbricatori
di opinione pubblica.
Resta il fatto che anche dopo l’ondata di piena del revisionismo e il
suo ridimensionamento a fenomeno circoscritto e provinciale, in primo
luogo per merito della ricerca storica sul nazismo, la storiografia
italiana solo in tempi recenti ha cominciato ad affrontare la questione
della responsabilità degli italiani, e del mondo cattolico in
specifico, nella preparazione e perpetrazione dello sterminio degli
ebrei.
Ruzzenenti lo fa con un affondo di grande efficacia portando l’indagine
su un territorio emblematico, quello di Brescia e provincia, epicentro
della Repubblica sociale italiana.
Grazie alla preziosa documentazione trovata nell’Archivio di Stato
della città lombarda, tenendo conto che gli ebrei del territorio erano
pochi, perché massicciamente espulsi all’epoca della Controriforma,
Ruzzenenti riesce a ricostruire le peripezie e i tragici destini di
ognuna delle vittime della persecuzione razziale, l’opera degli zelanti
funzionari della Repubblica di Salò, in gara coi tedeschi per catturare
le prede, spesso persone anziane ed inermi, l’aiuto che gli ebrei
ricevettero da parte di persone comuni e però anche le delazioni,
l’accaparramento, il saccheggio, motivati da squallidi interessi, ma
anche dagli stereotipi convergenti dell’antigiudaismo e
dell’antisemitismo.
Nelle maglie della persecuzione omicida, orchestrata dalla Questura di
Brescia, incapparono tra gli altri i Dalla Volta, commercianti di
tessuti. In uno dei capitoli più belli e emozionanti del suo libro,
Ruzzenenti ricostruisce con accuratezza la storia tragica del giovane
Alberto Dalla Volta, l’amico fraterno di Primo Levi ad Auschwitz,
scomparso nella marcia della morte a cui le SS costrinsero i
prigionieri al momento dell’evacuazione del lager nel gennaio del ’45
(Levi si salvò perché abbandonato sul posto in quanto ammalato).
Negli ultimi anni, su stimolo in particolare di Enzo Collotti, sono
state condotte ricerche analoghe, nondimeno in Italia non è mai stato
possibile varare uno studio sistematico e capillare del
collaborazionismo, arrivando a negare l’esistenza del fenomeno in nome
di uno dei miti più insulsi e duraturi, quello degli “italiani brava
gente”. Una fantasia autoassolutoria profondamente radicata nel senso
comune, fatta propria dalla retorica politica e instillata con ogni
mezzo in quella che doveva essere una Repubblica antifascista,
consentendo trasformismi, sdoganamenti, riprese sotto altra veste del
razzismo, reviviscenza dell’antisemitismo nei contesti più diversi, di
destra e di sinistra, e soprattutto in ambienti cattolici tutt’altro
che marginali.
Il contributo della ricerca storica in questa battaglia intellettuale è
indispensabile. Lo si può constatare a proposito del secondo tabù che
Ruzzenenti affronta nel suo lavoro, quello dell’antisemitismo
cattolico, sistematicamente derubricato a antigiudaismo di matrice
puramente religiosa, non razziale, e quindi, chissà perché, legittimo e
innocente.
Il dispositivo autoassolutorio, che ha consentito con esiti deleteri di
non fare i conti con la propria storia, poggia infatti su due pilastri:
l’immunizzazione del fascismo dal contagio nazista, erigendo un muro
tanto invalicabile quanto fantastico tra i due movimenti, utilizzando a
tal fine proprio la Shoah, rispetto a cui i fascisti, cioè gli
italiani, non avrebbero avuto a che fare. Anzi il fascismo avrebbe
fatto da scudo agli ebrei perseguitati dai nazisti. Le leggi razziali e
l’apporto diretto della RSI alla Shoah ci dicono però esattamente il
contrario.
Il secondo pilastro è rappresentato dalla tesi secondo cui il fascismo,
a differenza del nazismo, non era razzista e sicuramente non era
antisemita. Lo divenne per opportunità politica, a causa dell’alleanza
con Hitler, ma razzismo e antisemitismo gli erano estranei. In
definitiva tale estraneità rimanderebbe ad una differenza
antropologico-culturale degli italiani rispetto ai tedeschi o altri
popoli propensi ad atteggiamenti razzisti e antisemiti.
Scavando ancora si scopre che alla base della impermeabilità, puramente
leggendaria, degli “italiani brava gente” alle derive razziste e
antisemite c’è il cattolicesimo, la religione e la cultura cattolica,
egemone da sempre nel Bel Paese.
Di qui l’irritazione per la ricerca di Marino Ruzzenenti. Egli infatti
esamina il particolare antigiudaismo di un esponente di primo piano
della cultura cattolica novecentesca, lo storico Mario Bendiscioli,
strettamente legato al futuro Papa Paolo VI, nonché fortemente polemico
contro il “neopaganesimo razzista”, tipico del nazismo. Per tale motivo
e per il suo successivo collocarsi su posizioni antifasciste e
democratiche, Bendiscioli viene presentato come un campione e maestro
del miglior cattolicesimo democratico-progressista. Rispetto a ciò
Ruzzenenti non opera alcun rovesciamento scandalistico. Bendiscioli era
effettivamente critico del paganesimo antireligioso del nazismo, però
propugnava una forma di antigiudaismo religioso, ampiamente condiviso
in ambito cattolico, capace di superare la frattura della Shoah e di
riproporsi a lungo, per esempio nella solenne preghiera del Venerdì
Santo in cui si stigmatizzava la “perfidia” degli ebrei.
Negli anni Trenta, quando si posero le basi dello sterminio, poi reso
effettuale nel contesto della guerra mondiale, Bendiscioli contribuì
attivamente a definire la posizione della Chiesa sulla “questione
ebraica”. Le sue tesi, proprio perché non abbiamo a che fare con un
reazionario, sono sintomatiche e inquietanti. Egli sostiene che
“l’ebreo non si lascia assimilare che nell’apparenza”, crederlo è una
finzione e illusione. Il passo ulteriore consiste nel trovare una
soluzione politica all’insopprimibile diversità ebraica. In merito
Bendiscioli, sulla scorta di Hilaire Belloc, propugna l’abolizione dei
diritti politici degli ebrei e la loro riduzione al rango di stranieri
in Patria. Di là a pochi anni questi auspici si concretizzeranno
pervenendo al tentativo di soluzione finale della questione ebraica.
Anche in questo caso non si può usare la Shoah come male assoluto,
perpetrato unicamente dai nazisti, per assolvere tutti coloro che
attivamente contribuirono al disastro. I più tenaci nel negare le
proprie responsabilità sono stati i cattolici; al contrario essi
dovrebbero essere in prima fila nell’interrogarsi su quanto è successo.
Sottrarsi è comodo ma non risolve nulla. Questo è l’invito che il libro
rivolge alla parte più sensibile del mondo cattolico.
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