home> recensioni> Boris Pahor, «Piazza Oberdan»

Boris Pahor, Piazza Oberdan
nuovadimensione, Portogruaro 2010 

 

Sergio Bologna

“Di dove sei?” “Triestino”. Non mi è mai venuto in mente di rispondere “triestino di lingua italiana”. Adesso l’ho imparato, meglio tardi che mai. Lo sguardo che Pahor, triestino di lingua slovena, rivolge a luoghi a me familiari è tale che, leggendo le sue pagine, mi appaiono altri luoghi. Quando sposta l’occhio sul mare, sul paesaggio del Carso, i nostri sguardi si riconciliano. Ed è comprensibile perché. I luoghi, in particolare quelli urbani, sono carichi di storia e la storia ha diviso, lacerato, ferito. Piazza Oberdan al turista appare oggi come un luogo incolore, anonimo, di scarso interesse. Pahor ne accende la storia: l’Albergo alla Posta, dove suo padre conversava con il gestore, frequentato in prevalenza da clientela slovena. L’edificio bianco con i portici all’angolo di via Carducci, dove la Gestapo torturava i dissidenti, i resistenti, sofferenze ricordate in una lapide scritta solo in italiano, mentre la grande maggioranza dei torturati era slovena. Il Mausoleo dedicato a Oberdan, sloveno ma irredentista italiano come non pochi sloveni assimilati alla società italiana di Trieste, impiccato per aver voluto attentare alla vita dell’imperatore austro-ungarico. L’edificio oggi sede di uffici della Regione e di sale per conferenze, che aveva un tempo ospitato la stazione radiofonica da cui nel maggio 1945 fu lanciato il primo messaggio in sloveno, dopo un’interdizione della lingua durata vent’anni. E infine il Palazzo oggi sede della Scuola Interpreti, che s’affacciava un tempo sulla piazza, allora centro multifunzionale e casa del popolo della comunità slovena, il Narodni Dom, dato alle fiamme e distrutto dai fascisti il 13 luglio 1920. E’ il primo ricordo traumatico, indelebile, di Pahor bambino, quando lui e la sorella che abitavano nei pressi, accorrono sul posto e si trovano davanti all’incendio che tingeva la notte di rosso e vedono andare in cenere, senza capire perché, il luogo dei loro ritrovi, delle feste dei bambini, dei regali a San Nicolò, a Natale.
Dicono di Trieste che è un posto dove il passato non si decide a passare, ad andarsene via. Sì, la città si porta questo peso al collo, non dimentica. Ma è una colpa non dimenticare? Possiamo dire che la memoria serve talvolta ad offuscare il presente, a distogliere dal presente. Ma serve anche a rimettere in gioco la narrazione, a correggere, a integrare, a smentire, a scoprire. Diciamo che Trieste è una delle capitali dell’uso pubblico della storia e talvolta del suo abuso.
Un anno e mezzo fa circa un’Associazione chiese di intitolare una via al nome di un militare italiano che aveva perso la vita nell’assalto al Narodni Dom, ferito da schegge di una bomba lanciata dall’interno del caseggiato. Siamo nel 2009 e qualcuno risveglia il ricordo di questo episodio del 1920 e rivendica onore per un martire della Patria. Secondo De Felice quell’assalto segna l’inizio dello squadrismo. Non so com’è finita questa storia della strada ma trovo su Internet il testo di un’approfondita ricerca, che documenta come su quell’episodio esistessero già al tempo versioni diverse e contrastanti. Controllate le cartelle cliniche della vittima, ricoverata all’Ospedale Maggiore, si scopre che venne trasferita all’ospedale militare e lì morì di peritonite. Magari Pahor ha preso spunto da questa vicenda per risvegliare la memoria e ridare volto a quel quartiere che un tempo era luogo di borghesia slovena e che ancora oggi rappresenta un punto d’unione tra la città a maggioranza italiana e i paesi del Carso a maggioranza slovena, piazza Oberdan, termine di corsa degli autobus che risalgono la vecchia strada del Friuli e della trenovia che ti porta a Opicina/Opcine. Qualche chilometro e sei oltre il confine.
1920-1922, il fascismo triestino è il battistrada del movimento. Installato il regime, comincia la politica di repressione della comunità slovena e d’interdizione della sua lingua madre. Trieste sarà anche l’ultima trincea del comunismo italiano. Pahor non dice che il movimento operaio socialista, allora di maggioranza massimalista, guardò con un certo distacco l’incendio del Narodni Dom, quasi fosse uno scontro tra opposti nazionalismi. Gli interessa di più mettere in luce come molti sloveni abbiano subìto la dipendenza psicologica nei confronti dell’oppressore, nelle sue parole si sente l’eco di Fanon, di Malcom X. E poi inizia il racconto del riscatto, quando il popolo sloveno comincia la ribellione, appoggiato dai suoi preti cattolici, anch’essi messi alle strette dalla gerarchia ecclesiastica fedele alla politica filofascista del Vaticano. Ricorda le condanne a morte dei Tribunali speciali e gli anni di galera inflitti ai giovani sloveni del TIGR (dalle iniziali dei nomi Trst/Trieste, Istra/Istria, Gorica/Gorizia e Rijeka/Fiume). Il testo, che raccoglie e commenta dei documenti, è intervallato da prove letterarie del Pahor giovane, brevi racconti ambientati nella comunità slovena. Il fascismo represse ma profuse anche risorse importanti per guadagnare il consenso della città e del proletariato bilingue. Grandi interventi urbanistici (che distrussero in parte il quartiere ebreo), commesse militari e civili ai cantieri navali e all’indotto, da città mitteleuropea della libera iniziativa Trieste diventa negli Anni Trenta provincia italiana assistita. Cade il fascismo, la città, il territorio del Litorale, diventano di fatto nel ’43 una provincia del Reich, la ferocia della repressione non ha limiti, alla Risiera s’installa un forno crematorio. Pahor è arrestato e condotto nei tristi luoghi della tortura ma lo vengono a prelevare due domobranci, sloveni passati dalla parte del nazifascismo. Tra i più efferati esecutori dell’ordine nazista non ci sono solo tedeschi e italiani ma anche sloveni, croati, ucraini, il Comandante delle SS è Odilo Globocnik, triestino di lingua slovena, mezzo austriaco ed austriaco è anche Rainer, il Gauleiter. Pahor rivendica al popolo sloveno una specie di primogenitura della resistenza al nazifascismo, un ruolo che non è riconosciuto né dalla storiografia né dai simboli della memoria (“non si può negare che per certi versi siamo dei diseredati e lo accettiamo con benevolenza senza renderci conto di quanto misero sia il nostro agire agli occhi di tutti coloro che salvarono il nostro onore e la nostra libertà. Siamo così accomodanti e pacifici da accettare che sulla facciata del Narodni Dom sia esposta una tabella che, seppur bilingue, evita di ricordare che un tempo l’edificio venne dato alle fiamme dai fascisti”). Ma la lotta di liberazione Jugoslava fu vittoriosa perché il partito comunista seppe unire le diverse etnie, fu una guerra civile combattuta prima di tutto contro cetnici, ustascia, domobranci alleati delle truppe naziste e delle Brigate Nere, una guerra spietata, a misura della violenza che il nazifascismo aveva esercitato, non fu soltanto una guerra contro l’occupante. Lo schema del racconto storico convenzionale del periodo ‘43-’45 non vale né per Trieste né per quell’angolo dell’Europa. Forse per questo il passato non passa, perché le narrazioni contrapposte sulle vicende della prima metà del Novecento, quelle che una volta si studiavano anche a scuola, non funzionano per quei luoghi. E’ un’altra storia, che ogniqualvolta si torna a indagare riserva sempre delle sorprese.
Combinazione, l’ultima volta che sono stato a Trieste era per un evento in Piazza Oberdan, negli spazi della Regione. In città oggi vive una comunità serba di quasi diecimila persone, gli sloveni hanno ripreso in parte il ruolo che hanno avuto, quello di imprenditori dinamici e innovativi, specie nel settore vitivinicolo, sono loro che hanno reintrodotto l’olivicultura. E’ rimasta una città assistita, sonnacchiosa, filistea, rispecchiata abbastanza dal suo quotidiano “Il Piccolo” del Gruppo L’Espresso. Ma è anche una città con tanti giovani a dispetto di chi la vuole solo piena di vecchi, una città che da vent’anni ospita un Festival del Cinema che non ha eguali in Italia, una città con profili di alta cultura e di ricerca, che ha ancora spazi straordinari da valorizzare come il Porto Vecchio, 600 mila metri quadri sul mare. Dopo gli anni del solco tra Oriente ed Occidente, nei Settanta e Ottanta Trieste è diventata un mito, un miraggio, un sogno per tanti giovani della ex Jugoslavia che accedevano per la prima volta ai consumi occidentali, alla moda italiana di poco prezzo. Poi tutto ha ricominciato a ripiegarsi su se stesso, il conflitto nei Balcani, la ripresa del populismo nazionalista al di qua e di là del confine. La nostra generazione è stata quella della memoria divisa, poi sono venute le generazioni senza memoria, oggi probabilmente i giovani, di lingua italiana, slovena, serbo-croata sanno riconciliare i loro sguardi sui luoghi che li hanno visti crescere e non hanno timore della storia in loro racchiusa. Non so quanto sapranno far fronte ai problemi che questa versione del capitalismo ha creato loro in un universo di selvaggia globalizzazione. C’è il rischio che quanto non è riuscito a fare il nazifascismo - strappare a un popolo la sua lingua - riesca a farlo, per italiani e per sloveni, per tanti altri popoli europei, il governo della finanza mondiale. 

 

[25 ottobre 2010]

home> recensioni> Boris Pahor, «Piazza Oberdan»