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Matteo Anna Masecchia, “Al cinema con Proust”

 

Alessandro Cadoni

 

Il noto aforisma di Peter Greenaway secondo cui «il cinema è troppo importante per essere semplicemente lasciato ai narratori di storie» rischia, se preso alla lettera, di incanalare l’aspettativa di un certo tipo di spettatore verso un cinema di pura forma, perfetta autonomia del significante. Eppure – e lo sa bene lo stesso Greenaway – spesso, anche là dove l’intreccio langue, si annida l’essenza profonda del racconto. L’intima compromissione fra pensiero, azione e storia può infatti produrre un abissale senso di verticalità, come, in effetti, accade nella Recherche proustiana. Pensiamo a un cineasta come Edgar Reitz, autore di quella «cattedrale» della cinematografia moderna (se vogliamo parafrasare il classico epiteto dell’opera proustiana) che è il ciclo di Heimat: mirabile sintesi, appunto, fra il gusto dell’immagine di un Greenaway e il talento narrativo di un Truffaut, e talvolta a Proust accostato proprio per la sua capacità di incidere, con l’immagine, nel tempo e nella memoria.

Tutto ciò pare avere bene in mente Anna Masecchia, autrice, per i «Saggi» di Marsilio, di Al cinema con Proust, risultato di un’approfondita ricerca sugli adattamenti filmici (o i progetti di adattamento) dell’opera dello scrittore, passati attentamente al vaglio della ricostruzione storiografica e dell’analisi testuale e critica. Una tappa importante del percorso è segnata dalla personalità dell’attrice e produttrice Nicole Stéphane, la quale, nell’arco di circa vent’anni, ha portato avanti un ambizioso progetto di adattamento del capolavoro che, se da un lato ha dato alla luce un solo film –  Un amour de Swann di Volker Schlöndorff (1984) –, dall’altro ci ha lasciato preziosi documenti nelle sceneggiature (o abbozzi di sceneggiature) di Luchino Visconti e di Harold Pinter (per Joseph Losey). Questo progetto costituisce, in qualche modo, il terreno di prova dell’avvicinamento del cinema a Proust: e solo in tempi più recenti, con Le temps retrouvé di Raoul Ruiz (1999) e La captive di Chantal Akerman (2000), qualcuno è riuscito nell’impresa di trasportare nel film «gli elementi più profondi dell’opera proustiana».

Sul campo metodologico – quello dei rapporti fra cinema e letteratura – questo studio si colloca in una prospettiva di ricerca e analisi ricca e, da chi scrive, pienamente condivisa: esposta con chiarezza nell’introduzione e verificata alla prova dei testi nel corso dei quattro capitoli del saggio, essa si fonda sulla convinzione che l’adattamento di un testo letterario non vada studiato, scolasticamente, come referto di aggiunte o sottrazioni, né solo come un irrevocabile meccanismo di traduzione intersemiotica: piuttosto come un atto interpretativo, critico, dal cineasta compiuto nei confronti del testo e dell’autore con i quali ha scelto di confrontarsi: ci si trova dunque di fronte non a un percorso da un punto prestabilito a un altro, ma a un dialogo fra due testi mediati dall’azione critica dell’autore cinematografico, inteso come analista, come traduttore (possibilmente in senso benjaminiano) e come ri-creatore dell’opera letteraria. L’approccio semiopragmatico, protestato dall’autrice stessa, si potrebbe riassumere nell’alternanza circolare della centralità del testo e della sua ricezione. In un caso emblematicamente interdisciplinare come il campo di studi letteratura-cinema, il discorso sulla ricezione, potremmo dire, si raddoppia, poiché ad essa – intesa nel suo significato primario di fortuna e stratificazione nel pubblico e nella storia culturale – si prepone quella individuale dell’opera letteraria da parte dell’autore filmico, che si fa mezzo di traino da un medium all’altro. Ecco, dunque, l’atto critico al centro dell’adattamento da opera letteraria a film, in un vortice che assomma i tratti più limpidi della modernità cinematografica: «L’attenzione alla lettura interpretativa che soggiace a tutte le operazioni di traduzione consente infatti di comprendere qualcosa in più del testo di partenza, o almeno di aggiungere ulteriori tasselli che ne motivano, insieme alla qualità artistica, la persistenza culturale e il suo radicarsi, in maniera più o meno esplicita, in ciò che definiamo “immaginario collettivo” […] Il film è pensato, in questo caso, come un oggetto “filtro” che interpreta il romanzo e ne propaga il senso verso traiettorie ulteriori. Pensare al rapporto fra letteratura e cinema nei termini di una rifrazione consente di riconoscere quelle che possono essere delle corrispondenze biunivoche e può aiutare ad analizzare da una prospettiva più ampia Proust, il lavoro di determinati registi e il cinema stesso» [p. 15].

Ecco: nel passaggio citato si vedono, in controluce, i nodi che rafforzano la struttura di questo saggio. Il lavoro di critico del regista, innanzitutto, e non da meno la solida argomentazione del giudizio di valore, nel cui merito l’autrice entra con accortezza eppure senza risparmio: decisa a proporre un’idea di canone per i film proustiani. Se, allora, il film di Schlöndorff è destinato a una netta bocciatura, nella sua vana tentazione di fedeltà al testo (già ridotto a una determinata porzione) che dimostra – oltre ai limiti di una mise en scène convenzionale – la povertà di spirito interpretativo, le opere della Akerman e di Ruiz – a cui sono dedicati i due capitoli centrali del saggio – riescono invece a percepire il battito della Recherche. La scollatura fra il primo e gli altri due film – con  quel quindicennio che va dal 1984 al 1999-2000 – richiama, attraverso una sorta di ricorso storicistico in grande scala, «il passaggio […] dal cinéma de papa al cinema “moderno”» [p. 16]. Forti di una decennale riflessione sul cinema moderno, e soprattutto della lezione che l’opera proustiana – la sua modernità – ha lì fatto germogliare, i due autori si sono inseriti in una scia segnata dall’effetto della «rifrazione del capolavoro proustiano al cinema». Ovvero, una sorta di «effetto Proust» che ha investito, anche al di là di veri e propri accostamenti tematici e dei confini strettamente cinematografici, opere di autori di avanguardia come Percy Adlon e Jon Jost o di un regista come Fabio Carpi. Il primo, con Céleste (1981), ha saputo sviluppare, in un film tratto dalle memorie della governante di Proust Céleste Albaret, due nodi centrali della Recherche come «la rappresentazione della percezione soggettiva di un tempo sensibile e il problema della posizione ambigua assunta […] dal je che racconta» [p. 170]; il secondo, nel suo All the Vermeers in New York (1990), ha sfruttato come elemento centrale del film il potenziale emanato da un importante episodio proustiano: la visita di Bergotte a un’esposizione di Vermeer e l’impressione nuova ricevuta dalla visione di un dipinto da lui già tanto amato come La veduta di Delft; il terzo (n. 1925), che sotto l’influenza della Recherche ha svolto tutta la sua esperienza intellettuale, ha saputo fare, con Le intermittenze del cuore (2003) – titolo già di per sé indicativo – un film che «spinge in una direzione ulteriore il doppio rapporto di investimento autoriale e autobiografico nella lettura della Recherche e di convocazione dello spettatore in qualità di complice e parte attiva di un tale processo di lettura» [p. 149]: un’opera, perciò, che assomma quella particolarità della pratica di ricezione dei film letterari di cui si è detto sopra.  

La lettura di questo libro può accendere, infine, il rimpianto per progetti non realizzati come quello di Visconti; anche perché, come giustamente nota Masecchia, la presenza di temi proustiani nelle corde del cinema di Visconti lascia certo intuire le potenzialità del suo film. E, allo stesso modo, gli abbozzi di sceneggiatura conservati dimostrano, appunto, un’attenta lettura critica della Recherche, testimoniata dalla nutrita presenza di studi su Proust nella biblioteca di Visconti, ma anche dall’«ascendenza debenedettiana» nel lavoro di Flaiano, al quale pure – prima ancora che al regista di Senso – Nicole Stéphane si era rivolta.

 

 

[1 dicembre 2009]

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