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Matteo Marchesini, “Marcia nuziale. Poesie (1999-2007)”
Libri Scheiwiller, Milano 2009, € 13,00

 

Luca Lenzini

 

Non è difficile riconoscere nel nuovo libro di Matteo Marchesini (classe ’79) uno dei non molti titoli destinati a lasciar traccia di sé nell’inventario del decennio inaugurale del secolo. Non che manchino poeti, ai nostri giorni, in grado di esibire una loro autorevole “competenza”, e di declinare con sapienza forme e ingredienti della nostra ricchissima tradizione; ma su buona parte di essi – anzi sui migliori - grava un sospetto d’epigonismo, e spesso l’impressione di una limitatezza o, anche peggio, indifferenza dei contenuti rispetto alla padronanza espressiva. Sin dalla prima lettura di Marcia nuziale, invece, il ricco tessuto metrico e verbale dei versi traccia un arazzo compatto e dolente di rime, strofe e visioni che sanno farsi testimoni inquieti di un tempo disamato, in ironico e lucido controcanto con l’annuncio del titolo. Pagina dopo pagina, ecco così venirci incontro paesaggi urbani e mentali di una densa materialità visiva, sul punto di farsi mobile e traslucido spettro di pixel. Si veda l’attacco di La città della polvere, in Asilo:

 

Sulla città la polvere è ansia spessa,
leggera, come sugli altari
la cenere che oggi impasta i lobi
e ingemma nuche lisce, larghe fronti:
non è con il suo velo altro che luce
senza ombra e calore, senza fonti.
O una secchezza tiepida. Una brezza
che spira entro i corpi. Non ha pori
la strada, fessure la tua mano:
tutto il quartiere è saturo ed informe
come le cose di cui non parliamo.
[…]

Oppure l’inizio dell’ottavo sonetto della suite L’attesa:

 

Forse è questa città che mi fa orrore;
queste sue trame torpide, bestiali,
di circe che si eguaglia ai suoi maiali
e scorda l’incantesimo; o il tepore

dei suoi uffici, il nascosto tumore
che smangia i volti e nutre i più irreali
cortei, comizi, ciompi, saturnali
dove si langue eternamente o muore

per invisibile mano; ed è il presagio
che vincerà per fame o per sofismi
anche noi due, […]

 

Qui, come altrove, l’intarsio cerimoniale delle rime e delle assonanze scorre dentro una sostenuta partitura discorsiva, inanellando figure tratte dal repertorio fisico, corporeo, che anima l’intera arcata dei versi (volti, tumore, nuche, fronti, mano, pori, ecc.). La tensione tra lirico e narrativo, su cui si regge il canzoniere, è mantenuta senza concessioni al didascalico, né al patetico: gli scenari urbani ed il dissidio esistenziale si riflettono e incalzano a vicenda, come in successive metamorfosi, spesso raggiungendo in chiusa di testo immagini di sintesi (in negativo) che non si dimenticano: «E nel dubbio questa muta / di lemuri è la sola cosa vera» (Mi sveglio nel terrore…), «… indimostrabile ma certo, / l’ultrasuono del male dà concerto» (Ti ricordi quando…). Il libro intona così, con ansia raziocinante, il suo rosario di disincanto e disappartenenza, che come per sfida s’impunta, con spietata tenerezza, sul motivo erotico, assunto e negato al tempo stesso per la mancanza di domicilio che insidia ogni trama di affetti e di durata: «quel pane / con cui fingo una coppia / che non siamo» (Quando torno in silenzio…, con la negazione in evidenza, come in «le cose di cui non parliamo» di La città della polvere).
Nella zona di Asilo si trovano alcuni degli esiti migliori: scene di crudo interno familiare come Infanzia, Il figlio alla madre, ma anche immagini colte al volo di luoghi e persone (I giocatori, Via Emilia Ponente) che potrebbero facilmente ridursi a bozzetti, ed invece si dilatano in prove di una vasta allegoria, come se lo spleen di Marchesini vi traducesse in controluce quadri di un suo Baudelaire basso-padano; mentre a Elegia della veglia sono affidate efficaci aperture alla rêverie, oggettivata al vaglio della memoria come questa:

 

Cosė un bambino sazio si addormenta

spiandosi aereo da oltre la sua porta

dove il cono di luce di un soggiorno

proietta cure e un quieto affaccendarsi,

riunioni di famiglia e l’indistinto

suono di chi lo veglia: e lui

non è più lui ma ancora tiene un lembo

di se stesso nel lieve dormiveglia.

 

Nella stessa Elegia sembra poi, a tratti, di cogliere, per restare entro una topografia domestica, un innesto singolare di Pasolini in Moretti (si ascolti l’avvio di una strofa):

 

Abbiamo camminato molto insieme.
A Bologna. Intorno ai rami immensi
e cerulei del Tevere a gennaio.
Eppure erano i viaggi il nostro scacco:
io stavo male, e l’unica vacanza
volevo prenderla senza progettare,
come un ladro o un aruspice impaurito.

 

Del resto, Marchesini non nasconde i propri maestri, anzi li chiama direttamente in causa attraverso imitazioni intitolate “ritratti” (il più incisivo di Fortini, gli altri di Caproni, Sereni, Pasolini): riverberi o allusivi rifacimenti, ma anche tappe autonome di una poetica personale che nella nota finale (Intorno a Marcia nuziale, pp. 109-124) si dispiega con dovizia di spunti interpretativi e di riferimenti critici (e auto-critici), non di rado eccellenti. Poche pagine, queste ultime, in cui coagula esemplarmente la “costellazione” che presiede alle prove di più di una generazione: come un tempo furono Carducci Pascoli D’Annunzio i territori da attraversare, ora lo sono soprattutto Sereni, in parte Pasolini, quindi Fortini e sempre più Raboni. Com’è giusto che sia; ma le genealogie letterarie, alla fine, non sono di per sé garanzia di niente, e non è per quelle che il libro di Marchesini ci convince, bensì per i suoi lemuri, e per i tumori che svela nel corpo della nostra esistenza.

 

 

[26 dicembre 2009]

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