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Paolo Maccari, “Fuoco amico”
presentazione di Mario
Specchio
Passigli,Firenze 2009, pp. 115.
Luca Lenzini
Introducendo la prima raccolta di Maccari (Ospiti,
Lecce, Manni, 2000), Luigi Baldacci parlava della visione del mondo di questo
poeta come «esente da ogni facile pessimismo giovanile» (Prefazione,
p.9). Maccari aveva allora venticinque anni; passato un decennio, di fronte al
suo nuovo libro oggi si può ancora sottoscrivere il giudizio del critico, per
il quale quel pessimismo era «una cosa terribilmente seria»: «e lo si vede –
aggiungeva - anche dal riscontro esatto che trova nel linguaggio, così duro e
aspro, sofferto in sé prima di dire la sofferenza degli altri».
Esatto, duro, aspro, nelle sue linee caratterizzanti, è pure il linguaggio di Fuoco amico;
sostenuto ovunque da una elevata coscienza formale, metrica innanzitutto. Quanto
all’insieme, ed alla cornice metaforica che indirizza il lettore all’interno
della raccolta, si noterà che se il primo titolo trovava un referente preciso
all’interno del libro d’esordio (gli anziani di un ospizio), assumendolo a
chiave di una condizione non tanto esistenziale quanto generalmente – ed
evangelicamente – umana, la titolazione della nuova raccolta muove verso un
terreno più denso (e ambiguo), in cui si coglie il riflesso della lingua dei
“media”, e dunque dei conflitti del mondo. La direzione di marcia resta di tipo
oggettivante (il testo d’apertura è in prosa quasi didascalica: Strettamente riservato),
ed il discorso non perde di vista un ancoraggio narrativo; ma la dimensione
allegorica ha una curvatura introversa ed il conflitto si precisa (ed evolve, di
testo in testo) in senso individuale: è l’io il teatro della guerra, è lo spazio
mentale ad essere lacerato («Non so se capirete: / nel retro della fronte / è in
corso una battaglia»).
A seguire la traccia metaforica di questa «belligeranza» s’incontrano gli autori
presumibilmente prossimi all’ispirazione di Fuoco amico: Raboni, in
primo luogo (titolare tra l’altro di Versi guerrieri e amorosi), ma
anche l’ultimo Fortini, intento a coniugare il tema (suo quant’altri mai) del
conflitto in forme di glaciale ironia; e certo Maccari non dimentica la lezione
di Cattafi, a cui ha dedicato una penetrante monografia (Spalle al muro,
Firenze, Lef, 2003). L’intensa suite iniziale di diciotto sonetti si muove su
questo crinale, come in una rêverie intorbidata da presentimenti,
paure, immaginazioni e rivendicazioni che alludono alla soggettività come limite
e prigione invalicabile:
Dovrei scegliermi l’incubo migliore.
Farne un gomitolo, succhiarne un capo
per renderlo sottile, e nelle ore
più quiete, quando il suo sapore sciapo
non attizzerebbe ancora il terrore,
tentare il pericolo di un a capo
che colleghi in un demente tepore
sonno e veglia: con uno scatto rapido
ficcare la stessa gomena nella
cruna del sonno e nella cruna della
veglia. Poi appendermi, sospeso, in mezzo.
Dondolarmi, far forza sull’attrezzo
strano dell’insania.
La campanella
del giorno, però, ora, mi trivella.
Può esserci il montaliano sogno del prigioniero, sullo sfondo di certe
ruminazioni tra carcerarie e solipsistiche, che più spesso però virano su un
franto monologo di sapore beckettiano: i modelli, in effetti, non vanno
circoscritti all’ambito poetico, e l’io di L’ultima voce (come in
Caproni) è appunto personaggio. Il sonetto n.12 parla di «mutismo prolisso», a
specchio di una «solitudine imperfetta»: tra queste dismisure si apre il luogo
di una soggettività scissa e per questo teatralizzata, una terra di nessuno (e
di molti senza patria) dove si è presi facilmente per traditori o vittime
sacrificali.
Le altre sezioni (Interni, Le prede migliori, Le navi, il mare)
ampliano l’orizzonte e non vi mancano le aperture a temi più conformi
all’occasione lirica, di riepilogo esistenziale: così, efficacemente, Quasi
trent’anni, Missiva, Lettera a un amico sui tempi presenti, e quella Rinascita che, con Le prede migliori,
costituisce uno degli esiti più certi e originali dell’autore. La parte
conclusiva della raccolta, Tradimenti, è composta da versioni da
Rimbaud, Claudel, Pound; “rifacimenti” che valgono come omaggio ma anche come
banco di prova. Le precede Richiamo, un dialogo con l’assente/presente
«maestro» che nel segno di un «niente» perseguito «quasi con foga / per troppa
vita» riassume una dialettica che percorre l’intero libro, e per questo giunge
esemplarmente in chiusura, calibrato in scorciate quartine. Compatto
nell’approfondire i suoi temi, ma capace di variarne le risultanze, il libro ha
il suo accento più personale nel controcanto ironico, sottaciuto e ambivalente,
che la prosa del mondo, con il suo carico di dolore, infligge alle speranze e
alle fughe dell’io, senza che questo si adegui agli «schifosi programmi» (A un presuntuoso)
dei pentiti e dei nuovi credenti: e su questo piano occorre dar ragione, di
nuovo, a Baldacci, che da subito aveva individuato un fondo anticonformista e
inconciliato nell’esordiente poeta («Maccari è un malpensante»). L’«ideale di
cruenti peter pan» evocato in un sonetto ha forse a che fare con quel fondo; ed
a veder bene un testo come Dialoghetto crudele vive tutto nello scarto
della non-adesione, nel puntuale sottrarsi al luogo comune: il suo autore mostra
di aver capito che la “malpensanza” è produttiva solo se è senza sconti. Il che
incoraggia a credere che in futuro questo poeta si confermerà come uno dei
pochissimi, tra i suoi coetanei, ad aver qualcosa da dirci, e di saperlo fare.
[28 giugno 2010]
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