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Anna
Carta, “Letteratura e spazio. Un itinerario a tappe”
Villaggio
Maori
Edizioni, Catania 2009, € 9,00
Antonio Allegra
Da quando Francesco Petrarca, descrivendo la sua ascesa al monte Ventoux, ha fatto diventare quel paesaggio mitico lo specchio della sua anima, trasformando un topos
letterario in un tema che da allora in poi sarebbe diventato uno dei
più suggestivi ed esteticamente produttivi, il concetto di
spazio nella modernità si è modificato più
è più volte, in filosofia, in scienza e, per riflesso, in
letteratura. Non senza che anche il concetto di uomo si modificasse
generando quello di individuo. A fronte di questi continui mutamenti,
la riflessione teorica non ha indagato a sufficienza le diverse
configurazioni che lo spazio ha assunto in letteratura fino a quando,
col romanzo modernista, esso si è trasformato da tema a
principio costitutivo estetico fondamentale. Anna Carta, in questa
ricostruzione “per tappe” della riflessione
sull’importanza dello spazio in letteratura, ci dice che è
stato l’americano Joseph Frank il primo teorico del Novecento a
dare l’avvio all’analisi su letteratura e spazio, scrivendo
nel 1945 un articolo dal titolo Spatial Form in Modern Literatur,
nel quale «lo spazio veniva a occupare il centro della scena
marginalizzando quello che fino a quel momento era stato il sovrano
incontrastato del regno narrativo: il tempo» (p.7).
Nello stesso periodo, lo spazio, come categoria fondante, entra anche
nel pensiero filosofico di Merlau-Ponty e Bachelard e negli studi di
Piaget. Si tratta di una piccola rivoluzione copernicana che
spingerà Foucault, qualche tempo dopo, a chiedersi come mai fino
ad allora «lo spazio fosse stato a lungo considerato come
qualcosa di morto» (p.8). La conclusione di questo ritardato
quanto veloce riconoscimento teorico (non senza contrasti, se si
considera la pozione di Kermode) è segnata da Franco Moretti che
“disegnerà” il primo Atlante del romanzo europeo,
dove un capitolo sarà dedicato proprio alla “geografia dell’intreccio”.
Riflettendo sulla contemporaneità di certi avvenimenti, ci si
sorprende constatando che allo strutturalismo, che potremmo azzardarci
a definire una spazializzazione della filosofia (in contrasto contro
ogni filosofia temporalizzata, leggi storicismo), corrisponda la
nascita del romanzo dell’école du regard che,
pur non avendo avuto grande seguito, ha puntato, per la prima volta e
in maniera preponderante, l’attenzione sulla descrizione degli
spazi. Così come salta agli occhi che, in parallelo con il venir
meno delle cosiddette “grandi narrazioni”, o, per dirla con
Lukács, che temeva proprio ciò, con il declino della
“prospettiva” (metafora spaziale per indicare un
ordinamento temporale dell’azione teleologicamente orientata), la
dimensione spaziale abbia prevalso su quella temporale nella narrativa
occidentale (americana ed europea), a differenza di quanto è
accaduto nella letteratura non occidentale: si pensi alla letteratura
dei Paesi del sud America, a quelli africani o a quelli asiatici dove,
e forse sarà un caso, in un certo senso la prevalenza di un
modello narrativo di tipo temporale ha permesso il racconto di quella
storia che il colonialismo aveva negato ai popoli senza lingua e senza
storia.
Ma lo spazio non interessa solo l’intreccio, lo sfondo, le descrizioni, bensì anche la prossemica. Nel capitolo “Semioticamente parlando” viene restituita importanza al corpo nella definizione della spazialità. Restituendoci, infatti, alcuni spunti della riflessione teorica di Merlau-Ponty, per il quale lo spazio dipende dalla percezione del soggetto, quindi dalla sua intenzionalità e dalla sua progettualità, l’autrice sostiene in queste pagine che nel pensiero del filosofo francese è centrale «l’aspetto motivazionale che, implicando il corpo all’interno di un voler fare, contiene già in sé un’istanza di narratività, un programma narrativo che condiziona la percezione della spazialità» (p.28). In questo senso, la semiotica della narratività ha puntato molto su un’idea di spazio come «luogo in cui si definiscono significati profondi, che attingono alle tre diverse dimensioni dell’agire umano: pragmatica, timica, cognitiva» (p. 30), ovvero come luogo di una relazione e di una valorizzazione. Si arriva insomma al superamento di una concezione dualistica di spazio e tempo, per dare vita ad una visione più dinamica. Ma se lo spazio è legato alla soggettività, al corpo, ai sensi, è pur necessario, come sosteneva Edward Hall, non considerare lo spazio solo in relazione al senso vista: per tale ragione si può parlare di spazio tattile, olfattivo e acustico. Questi ultimi due, non organizzati «per soglie e limiti», danno vita a tipologie spaziali che la vista «non potrebbe né percepire né articolare» (e viene qui da pensare all’Infinito di Leopardi).
Il capitolo “Uno sguardo al paesaggio”, non ci ripropone tutta l’articolata e complessa teoria di definizioni che sono state date nel tempo sul paesaggio, ma ci offre una precisazione importante sulla differenza tra spazio e luogo: «Paesaggi, città, case, oggetti, corpi, azioni, pensieri popolano lo spazio letterario, ne tracciano i confini, ne definiscono le caratteristiche in base a rapporti di tipo psicologico, semiotico, storico-esistenziale, vi iscrivono valori assiologici e morali. Trasformano insomma lo spazio – continuum indistinto, dimensione astratta – in luogo, “ritaglio concreto [...] e nominabile dello spazio”». E l’arte ha la capacità di restituirci questa parte dell’umano concreto con una capacità conoscitiva pari a nessun altra.
Nell’ultimo capitolo, infine, “La macchina della modernità: la città”, Anna Carta ci guida all’interno del labirintico mondo della città moderna, assurta a vero personaggio letterario. In forma oggettivata e reificata, la città rispecchia e cela nei suoi “segni” le relazioni fondamentali tra gli uomini, sicché essa diventa la cifra di quella seconda natura di marxiana memoria, che per essere svelata deve essere raccontata. Vale allora l’avvertimento di Nicia agli ateniesi, che l’autrice pone a suggello conclusivo del suo itinerario: «La città siete voi stessi... sono gli uomini a fare le città, non le mura e le navi senza gli uomini».
[18 maggio 2010]
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