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F. Jameson, “Brecht e il metodo”di Daniele Balicco
Dopo l’attesa traduzione integrale di Postmodernismo pubblicata a settembre per Fazi e la prima parte di Archeologia del futuro (Il desiderio chiamato Utopia) in libreria da novembre per le edizioni Feltrinelli, esce proprio in queste settimane la traduzione di un altro dei capolavori di Fredric Jameson: Brecht e il metodo. L’edizione, pubblicata da Cronopio, è curata da Giuseppe Episcopo che è anche autore della bella postfazione al volume. È bene ricordare che Jameson, come ogni vero saggista, difficilmente pubblica lavori monografici su autori. Di solito i suoi volumi sono raccolte di saggi precedentemente apparsi su rivista e poi riorganizzati per temi o problemi teorici: si pensi anche solo ai libri più noti in Italia, da Marxismo e forma alla Prigione del linguaggio, da L’Inconscio politico allo stesso Postmodernismo. Nella sua sterminata bibliografia, si contano infatti solo tre monografie vere e proprie: il suo primo libro su Sartre, mai tradotto in italiano, quello su Adorno (Tardo marxismo. Adorno, il Postmoderno e la dialettica, Manifestolibri 1994) e infine quest’ultimo su Brecht. Come ovvio, la scelta degli autori non è casuale perché indica una costellazione teorica, o, forse meglio, problemi specifici condensati in un nome. Detto più esplicitamente, in Jameson, Sartre diventa lo strumento per recuperare l’esperienza della storicità, Adorno la chiave per decodificare le forme dissimulate del tardo capitalismo, Brecht una proposta di pedagogia dell’emancipazione. Vediamo dunque più da vicino come è costruito questo libro. L’idea di Jameson è relativamente semplice: non si capisce nulla dell’opera di Brecht se non si riconosce sotto l’apparente eterogeneità dei suoi interessi e della sua scrittura il moto unitario che la sostanzia: mostrare come si trasmette e si comunica la conoscenza. Ma la tesi è, forse, ancora più radicale: per Jameson, Brecht non è tanto interessato all’insegnamento di contenuti specifici quanto alla didattica di una forma generale, di un metodo, appunto; di una Gestalt. Si consideri, come esempio, il suo rapporto con la «dottrina»: il marxismo. In pagine davvero illuminanti, Jameson mostra come Brecht si trovi in una posizione non troppo dissimile da quella di T. S. Eliot verso la cristianità cattolica. In entrambi, infatti, non c’è alcun interesse ad entrare nel merito della teoria, ad approfondirla, a discuterne le contraddizioni. Piuttosto, si cercano forme di vita adeguate a quella scelta, si propongono modi espressivi, gesti esemplari, un alfabeto per la vita quotidiana, una tecnica per imparare a conoscere - ma solo nel caso di Brecht - come funzioni il capitalismo. Jameson chiama Haltung (atteggiamento) il modo unitario – e immediatamente riconoscibile - attraverso cui Brecht agisce contemporaneamente sulla ricerca teorica, sulla narrazione, sullo stile. Due sono i presupposti di fondo del metodo. Il primo si origina dall’idea brechtiana di ideologia. Per Brecht è ideologica ogni forma di pensiero o di rappresentazione che non favorisce cambiamento, ogni idea priva di conseguenze reali. Ed è proprio contro l’effetto di impotenza a cui l’ideologia incatena, che va compreso il suo recupero di un’idea antica di arte come sapienza, come didattica piacevole dell’utile. A questo può servire tanto il confronto e il riuso dell’estetica classica cinese quanto una pratica smaliziata dell’idea weberiana di razionalizzazione. Entrambe insegnano la distanza, la posizione della terza persona, l’oggettivarsi dei processi nella loro riduzione meccanica a moduli elementari. Espressioni diverse per spiegare e interpretare una delle strategie estetiche più famose di Brecht: lo straniamento. Come è noto lo scopo di questa tecnica è quello di corrodere l’intorpidimento percettivo a cui fatalmente obbliga il rapporto consuetudinario con le cose. Jameson propone di interpretarlo almeno in quattro modi diversi. Anzitutto come semplice strategia conoscitiva de-familiarizzante. Fare in modo che qualcosa sembri strano per poterlo guardare con occhi nuovi e finalmente comprenderlo nel suo essere elemento non-identico, fenomeno esterno all’osservatore che lo valuta. Quindi come specifica forma di recitazione, una sorta di autoanalisi tecnica dell’attore che espone i propri strumenti, li osserva e li dirige, in una perfetta traduzione, nel dominio simbolico, di quello che nella tradizione socialista si chiama «controllo delle macchine». Il terzo modo è estetico, riguarda il rapporto fra opera e pubblico. Jameson si serve dell’analisi del concetto di casus di André Jolles per mostrare come la scrittura di Brecht cada precisamente sotto questa categoria. Il casus è un episodio giudiziario la cui forma narrativa esclude la possibilità del giudizio netto, binario. E l’aporia che ne consegue costringe l’interprete a riflettere sui fondamenti della facoltà di giudizio, sull’origine delle norme e delle istituzioni che lo regolano. Nel casus la questione vera e propria retrocede mostrando il movimento interno delle categorie e degli atti di decisione; e la loro implicita genealogia. Secondo Jameson, la costruzione degli intrecci, nella narrativa come nella drammaturgia brechtiana, viene estraniata precisamente in questa direzione, in un gioco di alternative secche che non possono essere risolte e che per questo sfidano la legge come istituzione e costringono il pubblico ad una posizione giudicante. Lo spettatore, in questo modo, attraverso l’arte, o, forse meglio, attraverso il metodo, può accedere alla facoltà di giudizio e diventare insegnante di se stesso. Il quarto e ultimo livello è invece politico e va compreso come lotta contro il processo di reificazione. Lo straniamento, in altre parole, tradurrebbe nell’estetico il precetto marxiano per cui ciò che appare nelle cose e nei rapporti umani come dato naturale deve essere, all’opposto, sempre compreso come risultato, come prodotto storico dell’azione umana. Questo, secondo Jameson, è il vero e proprio baricentro del metodo: recuperare il senso positivo dell’attività, riattivare il protagonismo e la responsabilità del soggetto di fronte alle cose, liberare energie nuove. Il secondo presupposto della didattica brechtiana cerca di risolvere un problema complicato: come si rappresenta il capitale? Come si possono mostrare sulla scena i movimenti astratti del denaro e delle sue trasformazioni? Secondo Jameson, Brecht opta pressappoco per due soluzioni: mostrando gli effetti dell’assenza di denaro sugli sfruttati e descrivendo la lotta per la sua moltiplicazione fuori misura fra bande della finanza. Se si considerano infatti i grandi affreschi ‘capitalistici’ brechtiani, come Santa Giovanna dei Macelli o Il romanzo da tre soldi o La contenibile ascesa di Arturo U, il mondo del lavoro viene quasi sempre presentato nella sua condizione sottoproletaria, afflitto dagli effetti della disoccupazione e sconvolto in una condizione quasi dickensiana di povertà. Il mondo del capitale, invece, viene progressivamente identificato nella figurazione più facilmente rappresentabile: quella del mercato azionario, teatro di lotte senza quartiere fra gruppi e pirati finanziari e per questo più facilmente traducibile in un intreccio vivace, mosso da continui ribaltamenti, complicato da sotterfugi, intrighi, furti, acquisizioni di informazioni segrete. È come se Brecht cercasse una forma distillata per mostrare come funzioni il potere e lo sfruttamento del capitale e un metodo per muovere contro “questa sottile, invisibile e distruttiva forza del denaro” (p.197) una nuova forma di vita.
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