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Bianca Guidetti Serra, Santina Mobiglia, “Bianca la rossa”

Einuadi, Torino 2009


Luca Lenzini

Tanto asciutto e antiretorico nella forma, quanto ricco di esperienza e di storie vissute, Bianca la rossa è un libro che già in questo suo modo d’essere propone al lettore un esempio, un paradigma morale. «Nel mio operare- si legge nell’ultimo capitolo, Mi è piaciuto il fare – ho anteposto i fatti concreti ai discorsi, la moralità delle persone alle idee» (p. 263): e così questa autobiografia, da non confondere con i prodotti dell’abbondante, e indulgente, memorialistica che riempie gli scaffali dei bookshop. La sua famiglia d’appartenenza, dunque, sarà piuttosto quella dei Primo Levi, dei Lussu, Revelli, cioé di quelli che (pochi), sfuggendo alle pose e ai vizi dei letterati, hanno saputo dire verità scomode ma incancellabili del nostro tempo. Diviso in capitoli che ripercorrono i temi e le scansioni dell’esistenza dell’autrice, noto avvocato penalista (che in questo caso si avvale della collaborazione di Santina Mobiglia), dagli anni del Fascismo e della Resistenza sino ai nostri giorni, il libro è popolato, da cima a fondo, di «vite, scelte e destini» (con le parole del titolo di una sezione); dove il termine-chiave è il secondo, che si lega ad un impegno che travalica l’ambito individuale ed il presente. Dapprima, giovanissima, la lotta contro il Fascismo, poi l’attivismo politico, prima dentro il Pci e poi, dopo il ’56 - altro grande crinale, con il ‘48 – «senza partito»; quindi le lotte per i diritti dei lavoratori, dei minori, delle donne, fino ai processi degli “anni di piombo”.
Molte sono le figure di queste pagine che, come già in Compagne (Einaudi, 1977), restano impresse nella memoria: operaie, sindacalisti, maestre, fuorilegge, semplici cittadini vittime dell’ingiustizia. Di fronte e intorno a loro, il muro delle complicità, dei luoghi comuni, delle piccole o grandi viltà rispetto al potere ed alla sua trama di inerzie e di ricatti: proprio per questo la tenace fedeltà al vero del racconto di alcuni episodi-chiave come le “schedature Fiat”, le “fabbriche della morte” o la morte di Pinelli, assume un significato particolare, un valore affermativo: si tratta infatti, davanti alla negazione dell’uguaglianza e della giustizia, non solo di far strada al loro riconoscimento, ma di individuare e progettare gli strumenti, i modi per farlo, nei luoghi e nei tempi dati, senza schemi ereditati o teorie astratte. Qui si scorge, oltre l’ordine della testimonianza, il nucleo che si può dire “conoscitivo” del libro, che si configura complessivamente come un lungo, ininterrotto apprendistato, il cui oggetto, infine, non è che la democrazia. La quale, ci dice Guidetti Serra, «è un processo, non un dato naturale o acquisito una volta per tutte, e può esaurirsi se si perde il filo delle sue ragioni, quel filo, da riannodare e intessere costantemente, che è poi il senso del legame sociale» (p. 250.)
A questa concezione della democrazia come processo, che nasce dunque nel conflitto degli interessi e delle idee, è intrinseco il porre l’accento sul movimento, altro termine che con le sue varianti ed insieme all’attigua nozione di “confine”, torna in alcuni passaggi cruciali, come questo di Militante senza partito: «Mi ha sempre interessato l’aula giudiziaria come luogo dei “diritti in movimento”, del confronto fra le istanze della società e i rapporti codificati di potere, di una dialettica tra le parti che tende a discutere e ridefinire i confini di ciò che si intende per giusto o ingiusto nella vita sociale.» (p. 87); oppure questo, in cui si parla di Primo Levi: «Inseguiva i punti di turbolenza, le fragilità e incrinature che insidiano quel confine mobile tra dignità e indegnità dell’uomo, tra civiltà e barbarie.» (p. 248)
Perdere il filo di questo processo, è proprio vero, può accadere: è infatti quel che è successo alla sinistra nel nostro paese. Una buona ragione, anche questa, per leggere il libro di Bianca Guidetti Serra.

 

[30 settembre 2009]

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