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Andrea Cavalletti, Classe
Bollati Boringhieri, Torino 2009, € 9,00
Antonio Allegra
Leggere il saggio di Cavalletti
significa innanzitutto accettare che la modernità non sia stata superata da
nessuno “postqualcosa”, per quanto essa, essendo un processo, si sia
diversamente configurata nel tempo. Significa tornare a chiedersi cosa stia al
fondo di questa modernità tanto respinta quanto mal compresa. Significa anche
trovare una prospettiva filosofica che vuole restituire dignità ermeneutica e
rivoluzionaria a una parola resa impronunciabile: classe. La ricca e
variegata argomentazione di Cavalletti spazia dalla psicologia delle masse
all’urbanistica, dalla letteratura alla filosofia, dalla sociologia alla
politica. Al centro di essa stanno tre concetti tipici della modernità politica:
massa, folla e classe, appunto. Mentre i primi due termini hanno precipuamente
un significato negativo perché indicano l’indistinto passivo e reazionario degli
assembramenti collettivi, il terzo indica non solo un dato concreto e
incontestabile della società, ma anche una possibile via d’uscita dalla
massa-folla, così come dalla moderna società borghese. I tre fenomeni sono il
prodotto della modernità, con questa differenza: la creazione della massa e
della folla è il risultato di una “compressione” operata dal controllo
biopolitico della paura e dell’emergenza, la classe è una modalità dell’essere
sociale del lavoro che in potenza può sovvertire, distruggendoli, i meccanismi
di controllo e di sfruttamento degli oppressi (la classe operaia o lavoratrice
tout court). Fin qui niente di nuovo nelle parole di Cavalletti, a
leggerle superficialmente, rispetto alle vecchie “narrazioni” della liberazione.
La novità sta innanzitutto nell’accento posto sulla reversibilità del processo
che porta alla formazione delle folle e della classe. Se la compressione crea la
massa, il processo inverso, l’“allentamento”, crea la classe. In cosa consista
questo allentamento l’autore ce lo spiega ricorrendo a diversi pensatori,
Benjamin in primis: la solidarietà, lo scontro di classe sul terreno
dell’illimitata estrazione del plusvalore dal pluslavoro, la gestione dei
bisogni e del piacere all’interno del limite, il ricorso al mito dello sciopero
generale quale momento in cui la collettività rifiuta ogni mediazione e si
riconosce come classe rivoluzionaria. In questo processo di autoriconoscimento
la classe recupera l’essere vivente (Lebendigkeit) di ogni singolo
“operaio”, di ogni escluso dal processo produttivo, opponendo così al concetto
malthusiano di “sovrappopolazione” quello marxiano di “esercito di riserva”.
In
definitiva, se la massa e la folla appaiono come un corpo indistinto, compatto,
mosso da interessi privati occasionali, dotato di una sua psicologia (e di una
sua attitudine alla devianza), facilmente suggestionabile, soggetto ad essere
guidato da un capo che emerge dall’indistinto e il cui motore principale sembra
essere la paura; la classe, attraverso questo allentamento, frutto della
solidarietà (secondo la visione di Benjamin), distrugge i processi di formazione
della massa. E tuttavia la reversibilità si dà quando l’operaio degrada al
livello della folla e non agisce più all’interno dell’antinomia capitale-lavoro,
cessa di pensare al livello della generalità della classe.
Non è possibile qui fare menzione
di tutte le suggestioni filosofiche che il libro fornisce al lettore, tali e
tante esse sono, disposte secondo un continuo ordine digressivo e frammentario
(in pieno stile benjaminiano). Tuttavia sono necessarie alcune osservazioni.
Per quanto il libro si ponga sulla
scia di una riflessione pluridecennale sulla classe come dato sociologico e come
forza rivoluzionaria, esso apporta delle novità che ci appaiono interessanti:
innanzitutto la individuazione di quella reversibilità di cui si è testé detto.
Questa specificazione ci porta sul terreno prettamente storico della formazione
della classe in quanto soggetto antagonista (della classe per sé, si direbbe),
perché Cavalletti non desume dal dato sociologico il carattere rivoluzionario
della classe. In questo senso, ci sembra molto forte l’insistenza sul
“volontarismo” dei soggetti componenti la classe. Quindi una probabile accusa di
determinismo sociologico ci sembra sia stata accortamente scansata dall’autore.
Tuttavia, il configurarsi della classe come soggetto rivoluzionario che ritrova
nello sciopero generale “illimitato” il luogo della sua effettiva prassi
politica desta qualche perplessità. Non tanto per il ruolo meramente
negativo e oppositivo che esso ha nei confronti del capitale, quanto per
l’assenza – ci sembra – di una effettiva capacità organizzativa e progettuale
che entri continuamente in conflitto all’interno dei processi di produzione
capitalistici. Questo di Cavalletti è un libro squisitamente filosofico, la cui
politicità latu sensu non può essere negata. Tuttavia, non è un manifesto
politico, per quanto, crediamo, non sia stata intenzione dell’autore scrivere
un altro Che fare? Eppure, questo rimanere al di qua dell’immediata
analisi e azione politica origina, nel “lettore” che vuole andare oltre
l’“orizzonte” figurato dall’autore, una serie di domande circa la reale
destinazione di questo libro. In quanto saggio filosofico è, evidentemente,
destinato a un pubblico colto interessato di filosofia e di politica. Il
contenuto del libro implica però un lettore appartenente alla classe, o che alla
costruzione della classe debba attivamente partecipare. Eppure, si è detto,
Classe non è un saggio o un manifesto politico e, come tale, rivolto a un
“pubblico” più ampio (a quella collettività, cioè, che dovrebbe
riconoscersi come classe). Ci sembra, dunque, che ancora una volta non si possa
uscire dal circolo intellettuali-classe che ha costituto l’orizzonte
teorico-pratico del movimento comunista novecentesco, per quanto il libro paia
auspicare la costituzione di un soggetto politico rivoluzionario autonomo e
cosciente, slegato magari da un partito e che rifiuti l’aura della
guida politica (leggi leninismo). Non vogliamo e non possiamo qui
discutere intorno alla validità del leninismo, ma evidenziare che, indotti dallo
stesso ragionamento di Cavalletti, quello che ci appariva preferibile
accantonare nella pratica rivoluzionaria ritorna nei risvolti impliciti della
destinazione effettiva del libro.
L’ultima osservazione che ci
sembra utile fare riguarda la differenza che sussiste tra la figura della
classe disegnata dall’autore e il concetto di moltitudine. Per quanto, a
nostro avviso, possano esserci dei punti di contatto tra i due concetti,
soprattutto per il riferimento al livello della genericità del lavoro
(per la quale, in definitiva, tutti i lavoratori rientrerebbero oggettivamente
all’interno della stessa categoria concettuale, sia essa la classe o la
moltitudine), e per quanto, in ultima istanza, la moltitudine sia stata
definita un “concetto di classe” (Toni Negri, Per una definizione ontologica
della moltitudine), la classe in Cavalletti mantiene un costante
riferimento alla (illimitata, appunto) valorizzazione del capitale attraverso
l’estrazione del plusvalore dal pluslavoro, calando l’antinomia capitale-lavoro
all’interno del processo produttivo, mentre il concetto di moltitudine,
come è ormai noto, fa riferimento al general intellect, cioè a quella
socializzazione della conoscenza che si svilupperebbe al di fuori dei
processi di valorizzazione del capitale e che il capitale stesso cercherebbe di
sussumere (rinnovando il fenomeno delle enclosure). Ci sembra che si
delineino qui due modi diversi – se intendiamo bene il ragionamento di
Cavalletti – di considerare la questione della soggettività antagonista e la
possibilità nell’immediato futuro di ricostituire una prassi autenticamente
rivoluzionaria. La partita è (ancora) aperta.
[12 gennaio 2010]
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