home> recensioni> Cesare Cases – Sebastiano Timpanaro “Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990”
Cesare
Cases–Sebastiano Timpanaro, “Un
lapsus di Marx.
Carteggio 1956-1990”,
a cura di L. Baranelli, Edizioni della Normale, Pisa
2004
Piergiorgio Bellocchio
Il
carteggio Cases-Timpanaro edito nel 2004 dalla Normale di Pisa, curato
con ammirevole rigore e amore da Luca Baranelli, consta di 123 lettere
scritte tra il 1956 e il 1990. Il nucleo maggiore appartiene al
ventennio ’60-70. Lo scambio decresce nell’ultimo
decennio, che annovera in tutto otto lettere.
L’importanza del carteggio è legata alla statura
intellettuale dei corrispondenti, due tra i massimi rappresentanti
della cultura del loro e del nostro tempo. Ma non si tratta quasi mai
di scambi di natura tecnicistica. I temi trattati nel carteggio sono
quelli che negli stessi anni erano al centro del dibattito nella
cultura di sinistra.
È comunque da tener presente che il dialogo tra Cases e
Timpanaro avviene anzitutto attraverso le rispettive opere (libri,
saggi, articoli, interventi pubblici). Queste lettere sono importanti
per i giudizi e le osservazioni critiche sugli scritti reciproci,
consentendo anche a entrambi i corrispondenti utili chiarimenti e
approfondimenti, che in qualche caso valgono quali supplementi o
appendici.
La quota di “privato” in queste lettere
è scarsissima. Vicende familiari e questioni pratiche sono
quasi assenti, secondo il costume di riserbo e direi di pudore che
caratterizza sia Cases che Timpanaro. Eppure il carteggio è
anche la testimonianza di un’amicizia, che non
verrà mai meno e anzi si rafforzerà sempre
più. Nessuna ombra la oscurerà o
raffredderà, neanche in occasione di forti
diversità di vedute e di giudizio, del resto frequenti e
quasi inevitabili, considerando la diversità di formazione,
scuola di pensiero ecc. C’è insomma un rispetto,
una stima, un’ammirazione reciproche che superano ogni
ostacolo. Credo che questa corrente di simpatia e di fiducia sia stata
immediata, fin dagli anni di Pisa, e non abbia fatto che consolidarsi
successivamente di pari passo con la conoscenza via via più
approfondita delle rispettive idee e scelte.
Ho detto prima del costume di riserbo e pudore comune a Cases e
Timpanaro. Ma mentre di Timpanaro si percepiva subito,
ancorché compressa, la natura appassionata, la prima
impressione che dava Cases era piuttosto di freddezza, quasi di
anaffettività, e solo dopo una lunga frequentazione e quando
s’era stabilita una certa confidenza si avvertiva in lui,
dietro la maschera ironica e scettica, la passione – non solo
per le idee, ma anche per le persone.
Nota Luigi Blasucci nell’eccellente recensione al carteggio:
«i due interlocutori continuano fino all’ultimo ad
apostrofarsi col cognome». Per curiosità ho fatto
un controllo. L’attacco delle lettere è
invariabilmente «Caro (o carissimo) Cases»,
«Caro (o carissimo) Timpanaro». O il semplice
«carissimo» (più usato da Cases). I nomi
– Cesare, Sebastiano – non compaiono mai. Le
lettere si concludono pressoché invariabilmente col nome e
cognome, spesso preceduto da «tuo». Con pochissime
eccezioni: ne ho trovate tre (su un totale di 123). Due volte Timpanaro
firma col solo nome (cartolina postale 14.4.72, p. 195; biglietto
maggio ’78, p. 271). Cases, una volta (20.8.83, p. 307).
Volendo, possiamo aggiungere due altri casi in cui i corrispondenti si
firmano col nome e l’iniziale del cognome seguita dal punto:
Timpanaro, 16.2.73, p. 213; Cases, 19.5.80, p. 299. L’ipotesi
che questi casi possano significare un progresso
nell’intimità è smentita non solo
dall’estrema rarità, ma soprattutto dal fatto che
nelle lettere successive si torna alla forma abituale. Si tratta di
distrazioni, di lapsus.
La differenza d’età tra i due era di soli tre
anni. Tanto Timpanaro che Cases usavano con molti altri amici il
semplice nome, a prescindere dalla differenza
d’età, nonché con persone meno amiche
di quanto non lo fossero Cases e Timpanaro l’uno per
l’altro. È più che evidente che si
tratta di un’amicizia molto diversa da ciò che si
intende in genere con questo termine: voglio dire
quell’amicizia che presuppone la vicinanza fisica, la
frequentazione, la comunione di esperienze, talora la colleganza e la
contiguità del lavoro, la fraternità, e di
conseguenza anche liti, gelosie, rancori, rotture e rappacificazioni.
Un sentimento proprio dell’adolescenza, ma che può
nascere e svilupparsi anche in età matura. Qui siamo
lontanissimi da quel modello. Ma d’amicizia si tratta. Tanto
più degna di nota, considerando la natura essenzialmente
intellettuale del rapporto.
I temi ricorrenti nel carteggio sono tanti, tutti importanti, sempre
trattati ad alto livello, anche quando uno dei due o entrambi scelgono
la chiave dello scherzo, della parodia. Ne elenco alcuni: le vicende
della sinistra istituzionale (Pci e Psi) almeno fino alla
metà degli anni Sessanta; la cosiddetta “nuova
sinistra”, il Sessantotto e post-Sessantotto;
Lukács e il marxismo teorico; la Scuola di Francoforte; la
psicoanalisi; il rapporto tra studio specialistico e impegno
politico… Volendo parlare anche di uno solo di questi temi
con un minimo di congruenza, non basterebbe la mezz’ora che
mi è stata assegnata. E comunque sarebbe difficile isolarne
uno, in quanto tutti i temi si connettono, si rimandano, si
intrecciano. Mi si vorrà scusare se mi limiterò a
cogliere qua e là, rapsodicamente, dei frammenti, nella
speranza di offrire qualche spunto di riflessione e discussione.
Per esempio, un tratto estremamente rivelatore di Timpanaro si ricava
da un episodio del tutto secondario cui accenna un passo della lettera
16.10.60 (p. 57), dove Timpanaro dichiara il suo sgradimento per
«Belfagor», perché – cito
testualmente – «su quella rivista una volta Giacomo
Devoto scrisse sul mio conto una frase idiota, e Luigi Russo [il
fondatore-direttore] rifiutò di pubblicarmi una
replica». Siamo nel ’60, l’incidente
(diciamo così) è di sette anni prima (1953).
Timpanaro supererà poi lo sgradimento e dal ’63
comincerà a pubblicare su «Belfagor»,
nel frattempo passata dalla direzione di Luigi Russo a quella del
figlio Carlo Ferdinando: dall’incidente erano passati dieci
anni. Ma vediamo la incriminata «frase idiota»
riportata nella nota del curatore: «Parlando degli allievi di
Giorgio Pasquali dopo la morte del maestro, Devoto aveva scritto:
“Faccio un solo nome, degno, quello di Sebastiano Timpanaro,
lo studioso di Ennio: esempio tipico di uno scolaro che ha preso quanto
di meglio poteva avere, e di un eccesso di modestia che fino ad ora lo
ha tenuto, schivo e santo, in una scuola secondaria modesta. Tutti
questi scolari devono mostrare ora, contro se stessi, che cosa sanno
fare senza di lui”.» Chi non abbia conosciuto
Timpanaro si stupirebbe che un elogio potesse esser preso per
un’offesa. Ma chi l’ha conosciuto capisce benissimo
l’imbarazzo di Timpanaro di esser messo al primo posto, al di
sopra di altri colleghi. E più ancora, che gli venisse
rimproverata, pur affettuosamente, la «modestia»,
il suo esser «schivo» e addirittura
«santo»: virtù che, secondo Devoto,
portate all’eccesso danneggiavano Timpanaro e gli studi in
generale. (Orrore di Timpanaro per il virtuismo. Non rifiuta di essere
definito “altruista”, «cioè un
egoista complicato, che per godere ha bisogno di veder contenti anche
gli altri»: lettera 24.12.70, p. 184.) Né
Timpanaro s’era limitato all’imbarazzo, al
fastidio, all’irritazione. Aveva deciso di replicare, con la
veemenza che si può immaginare. Non conosco la replica, se
fu realmente redatta e respinta o solo annunciata e scoraggiata,
rifiutata a priori da Luigi Russo. Al posto di Russo, credo che avrei
tentato in tutti i modi di far recedere Timpanaro dalle sue intenzioni.
Una delle punte dell’epistolario è costituita
dalle pagine su Thomas Mann. La posizione di Cases è
più che nota attraverso i numerosi scritti dedicati
all’autore, ignoravo il giudizio di Timpanaro. Che fosse
avverso a Mann lo davo un po’ per scontato, non
m’aspettavo che lo fosse in modo così radicale, ma
soprattutto la straordinaria pregnanza, anche stilistica, delle
formulazioni. Nella disputa io propendo per le ragioni di Cases assai
più che per quelle di Timpanaro. Ma confesso che la passione
e l’intelligenza di Timpanaro nella parte di avvocato del
diavolo mi hanno affascinato. Anche in questo caso, come in tanti altri
del carteggio (che si legge, e rilegge, come un romanzo), ho
riscontrato l’utilità della contrapposizione
dialettica di due tesi, quando siano fondate
sull’intelligenza e sull’ethos. Vale la pena di
leggere la pagina di Timpanaro (28.6.66, pp. 106-7):
«… a me sembra che
l’ideologia immanente nelle opere letterarie di Thomas Mann
sia rimasta, anche dopo quella svolta politica, un’ideologia
borghese-reazionaria, incentrata sul motivo
dell’“eletto”, cioè, in
sostanza, del superuomo. C’è stato, certo, il
passaggio da un superomismo romantico-irrazionalista a un superomismo
classico-olimpico (di qui l’avvicinamento a Goethe), e su
questo passaggio ha evidentemente influito l’avversione per
il nazifascismo, il quale costituiva una minaccia mortale non solo per
il socialismo e la democrazia, ma anche per l’aristocrazia
culturale decadentistica a cui Thomas Mann apparteneva. Ma il disprezzo
per il popolo (o, se vuoi, il distacco dal popolo) rimane; e rimane
quindi un’enorme distanza non solo dal socialismo di un
Brecht, ma anche dal radicalismo democratico di un Heinrich Mann.
Nonostante tutte le dichiarazioni di distacco da Wagner, io scorgo nel
giovane Giuseppe, in Gregorio, nel Goethe stesso di Lotte in
Weimar la stessa “faccia da schiaffi” di
Lohengrin, di Sigfrido, di Parsifal e di tutti i prediletti degli dei
(e mi viene in mente per contrasto quella splendida presa in giro del Lohengrin
nel Suddito
di Heinrich Mann); così come l’incesto tra
fratello e sorella nell’Eletto, basato sul
principio “dobbiamo per forza unirci tra di noi
perché siamo le uniche persone di razza
superiore”, è tale e quale l’incesto tra
Siegmund e Sieglinde celebrato nel primo atto della Walchiria.
Strettamente connesso con questo motivo dell’
“eletto” mi sembra il modo con cui Thomas Mann
“supera” la decadenza, l’irrazionale ecc.
Tu dici che egli tiene lontane da sé queste cose con le
tanaglie dell’ironia, ed è vero. Ma
l’ironia manniana fa parte di un procedimento che direi di
“vaccinazione”. L’altrui
tubercolosi o sifilide, l’altrui pazzia,
l’altrui suicidio sono indispensabili
perché il sig. Thomas Mann possa conoscere questi mali,
assaporarli e inocularseli in dosi mitridatiche e raggiungere
così, attraverso il loro superamento, la salute e la
classicità. Non è né
l’atteggiamento di chi vive fino in fondo, pagando di
persona, la decadenza di una società, né quello
di chi combatte la decadenza opponendole altri valori e
un’altra classe che ne sia portatrice, e nemmeno quello di
chi vuole (generosamente anche se vanamente) ricondurre a un ruolo
progressista una classe divenuta ormai reazionaria. È invece
un atteggiamento ambiguo e civettante, per cui la classicità
e lo stesso illuminismo si riducono ad essere una sapiente conquista
individuale di Thomas Mann, il quale è stato così
bravo (o così graziosamente predestinato dal Padre eterno)
da riuscire a trasformare in propria salute la malattia dei suoi
simili. Credo che sia questo il vero motivo per cui Thomas Mann
è stato per molti (ed è per me) “il non
amato”. È soltanto un’avversione
moralistica? Io penso che sia anche un’avversione estetica:
nell’indubbia magia narrativa di Thomas Mann sento sempre
qualcosa di sottilmente drogato, che non è vera
grandezza.»
Salto, per le ragioni già dette, la risposta di Cases
(27.7.66, pp. 108-11). Nella replica (29.7.66, pp. 112-14) Timpanaro
ribadisce il giudizio. Taccia Mann di «civettone
sapientissimo […] Gli possiamo e dobbiamo dire che
è tanto bravo; ma niente di più.» E
conclude con un elogio di Emile Zola: «Quello sì
che è uno scrittore!» Non è
evidentemente il caso di aprire qui una discussione su Mann (o magari
Zola). Mi limito solo ad osservare che Mann non aveva bisogno di
inocularsi la malattia: ce l’aveva addosso. Sono piuttosto
contravveleni e vaccini ciò che Mann ha assunto per tutta la
vita, e la sua opera rappresenta proprio questa lotta.
L’egoismo, la freddezza,
l’artificiosità, la maschera,
l’“olimpicità” sono le
fondamentali imputazioni a Mann. Ma se leggiamo la meravigliosa lettera
di Timpanaro a Elisa Frontali Milani, che il curatore ha molto
opportunamente messo in appendice al volume (26.4.81, pp. 328-37), a
proposito della Storia di Elena attraverso le sue lettere,
ci troviamo di fronte a un Timpanaro che in buona parte contraddice
(felice contraddizione!) lo spietato eversore di Mann. La destinataria
è la nipote di Elena Raffalovich, che era stata la moglie
del grande filologo Domenico Comparetti: un matrimonio
d’amore che s’era presto guastato, seguito da una
separazione di fatto. Le lettere di Elena (mancano quelle del marito)
finiscono inevitabilmente per mettere in cattiva luce il marito,
confermando il giudizio che ne aveva dato l’ex allievo
Giorgio Pasquali come di una persona che «seppe respingere
lontano da sé ogni sofferenza e perfino ogni
passione». L’argomento è toccato anche
in una breve lettera a Cases (25.5.81, p. 302), dove Timpanaro sostiene
che «Comparetti amò Elena fino
all’ultimo, e che Pasquali stesso, parlando di
olimpicità, disumanità, edonismo ecc. ecc. ecc.,
sbagliò tutto. L’olimpicità fu una
maschera con cui Comparetti riuscì a ingannare tutti e a
tenersi per sé il suo dolore». La lunga lettera
alla Frontali Milani – un modello di intelligenza critica,
penetrazione psicologica, nonché di delicatezza,
umanità e civiltà – va molto
più a fondo della questione. Andrebbe letta per intero. Mi
limito a citarne due brevi passi: «quella
“olimpicità”, quella apparente
indifferenza, quell’occuparsi soltanto di studi
interrompendoli ogni tanto con atteggiamenti da gaudente, furono
conquistati a caro prezzo» (p. 329). Ancora: «Un
caso, direbbero i freudiani, di “sublimazione”
perfettamente riuscita. Ma le sublimazioni si pagano a caro
prezzo» (p. 332).
Nell’esilio californiano che aveva riunito Heinrich e Thomas
Mann in fuga dal nazismo, durante una conversazione pare che Heinrich
abbia detto a Thomas: “Tu hai sempre avuto una fortuna
sfacciata”. Thomas lo ammise e chiese al fratello se non
gliene aveva mai voluto per questo. E Heinrich: “No,
perché so quanto t’è
costato”.
Nella prefazione al Buon senso del barone
d’Holbach (Garzanti 1985), uno studio di 80 fitte pagine,
Timpanaro tratta ripetutamente dei rapporti tra Holbach e Diderot,
delle influenze reciproche, del comune lavoro all’ Enciclopedia,
dei legami personali. Cito da un passo a p. X: «Anche con
Diderot [Holbach] fu spesso intrattabile […] Ma
ciò che non produsse mai il minimo dissapore da parte di
Holbach fu la consapevolezza, che certo in lui non mancò,
dell’ingegno molto più brillante, vivace,
problematico, di Diderot, così come Diderot non ebbe mai il
minimo disprezzo per la presunta “rozzezza” della
filosofia di Holbach […] I due si sentirono sempre
complementari nella loro diversità e nella loro
affinità di fondo.»
Del tutto estranea era a Timpanaro la civetteria di attribuirsi
parentele intellettuali illustri, un giochetto che ha sempre tentato
molti letterati e anche uomini di scienza. Ma non si può
fare a meno di cogliere un suono familiare. Ed è ovvio che,
del tutto inconsciamente, Timpanaro si metta nei panni del
“rozzo” Holbach, lasciando la parte del
più brillante e problematico Diderot ad altri, qui a Cases.
Così come predilige Engels rispetto a Marx. E magari
Giordani, non dico rispetto a Leopardi, genio inarrivabile a cui
nessuno è degno di raffrontarsi, ma rispetto a Cattaneo e
altri. Confessa Timpanaro (1.2.75, p. 254): «mentre io ho una
simpatia passionale, incapace di distacco storico, per il Giordani, non
ce l’ho per il Cattaneo».
Le diverse concezioni filosofiche e il diverso percorso politico
conducono Cases e Timpanaro a giudizi diversi. Il comunista
“messianico” Cases, già prima del
’68, arriva alla conclusione che occorre
«ricominciare da capo» (cfr. pp. 86 e 108, e ancora
161). Il socialista Timpanaro, mai tentato dal messianismo e dal mito
della totalità, vaccinato dal suo materialismo contro ogni
metafisica e trascendenza, interessatissimo invece fin dagli anni
’50 a esperienze concrete come quella iugoslava e polacca (il
primo Gomulka), è molto più restìo di
Cases a sbarazzarsi della tradizione, dello strumento partito ecc., e
cade per questo nell’errore di sopravvalutare o non
sottovalutare abbastanza certe scelte (v. Psiup) e certi dirigenti
politici. Ma si fa anche molte meno illusioni di Cases sul movimento
sessantottesco, la sua irreversibilità e
irrecuperabilità da parte del sistema (Cases a Timpanaro,
30.1.69, p. 134).
Comune a entrambi è la delusione politica, comune la
depressione – come penso di tanti qui presenti che abbiano
l’età per essersi illusi. Comune è
sempre, costantemente, il riferimento all’ethos: che percorre
tutto l’epistolario (di cui si potrebbero dare innumerevoli
esempi) e che finisce per diventare sempre più importante e
decisivo col progredire della disillusione politica.
La valutazione di uomini e libri non riguarda solo le idee, il livello
intellettuale e culturale, ma anche la passione, la
sincerità, l’onestà con cui le idee
sono sentite, professate, vissute. È questa dimensione etica
che finisce, se non per conciliare, per ridurre notevolmente la
distanza che separa le posizioni di Cases e Timpanaro. Ciò
di cui entrambi sono consapevoli. Due esempi:
Timpanaro (11.11.68, p. 129) a proposito di un libro di Marzio
Vacatello su Lukács, che aveva suscitato in entrambi riserve
di merito: «in tanto pullulare di libri cauti,
“storicisti”, che non si compromettono mai
– oppure di libri fumosi e involuti – mi sembra
meritoria la chiarezza e la voglia di compromettersi con cui il libro
è scritto».
Cases (18.4.75, p. 265), a proposito di un libro di Giovanni Scimonello
su Hölderlin: «ci si sente sempre l’uomo
“che ci crede”, il che non è
poco».
Infine,
dall’ultima lettera di Cases, che conclude la raccolta
(24.12.90, p. 317): «l’essenziale è oggi
lo spartiacque morale più che quello ideologico».
Già quando Timpanaro e Cases si scambiavano queste lettere,
il genere era tramontato, surrogato soprattutto dal telefono. Ora
poi… Ma se l’epistolario come genere è
morto, senza alcuna probabilità di resuscitare, dobbiamo
dire che non poteva trovare una “fin de partie”, un
epicedio, un commiato più bello.
* * *
Questo
intervento sarà pubblicato negli Atti del Convegno svoltosi
nel novembre 2005 ad Arcavacata di Rende in collaborazione con il
dipartimento di Filologia dell’Università della
Calabria (“La lezione di un maestro: omaggio a Sebastiano
Timpanaro”). Si ringraziano l’autore e il prof.
Nuccio Ordine, organizzatore del convegno.
[24 luglio 2008]
home> recensioni> Cesare Cases – Sebastiano Timpanaro “Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990”