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Che cos’è un seminario?1

Michel de Certeau


Un caquetoir (luogo di chiacchiere)

Un seminario è un laboratorio comune che permette a ciascuno dei partecipanti d’articolare le proprie pratiche e conoscenze. È come se ciascuno vi apportasse il «dizionario» dei suoi materiali, delle sue esperienze, delle sue idee e che, per l’effetto di scambi necessariamente parziali e d’ipotesi teoriche necessariamente provvisorie, gli diventasse possibile produrre delle frasi con questo ricco vocabolario, cioè di «ricamare» o di organizzare in discorsi le sue informazioni, le sue questioni, i suoi progetti, etc. Questo luogo di  scambi instauratori potrebbe essere comparato a quello che, nella Loira, si chiama un caquetoir, appuntamento settimanale sulla piazza principale, laboratorio plurale, dove dei «passanti» si fermano la domenica per produrre nello stesso tempo un linguaggio comune e dei discorsi personali. Un seminario mette così in causa una politica della parola, come vedremo. Tuttavia in rapporto al caquetoir presenta la differenza di non essere il solo appuntamento per le chiacchiere ma solamente un luogo di linguaggio tra molti altri in una rete che non comporta più né piazza principale né centro.
Così gli effetti della produzione del discorso che mette in atto non sono che tangenziali in rapporto alla ricchezza crescente e silenziosa dei viaggiatori che si fermano un momento in questa stazione. Mi sembra che il primo compito, in un seminario, sia di rispettare ciò che non viene detto, e ancora di più ciò che vi succede all’insaputa, dunque di moderare la propria voglia di articolare, forzare, coordinare gli interventi di ciascuno: vengono da troppo lontano per poter essere interpretati; vanno troppo lontano per poter essere circoscritti in un «luogo comune».
Se il «caquetoir» di Parigi VII crea degli eventi, come tu dicevi, può essere perché noi cerchiamo, e, da parte mia,  io cerco di «tenerlo» (come si «tiene» una direzione) tra due modi di dare a un seminario un’identità ripetitiva che esclude l’esperienza del tempo: l’uno, didattico, suppone che il luogo è costituito da un discorso professorale o dal prestigio di un maestro, cioè dalla forza di un testo o dall’autorità di una voce; l’altro, festoso e quasi estatico, pretende di produrre il luogo tramite il puro scambio dei sentimenti e delle convinzioni, e infine tramite la ricerca di una trasparenza di espressioni comuni. Tutti e due sopprimono le differenze al lavoro in un collettivo, il primo schiacciandole sotto la legge di un padre, il secondo cancellandole illusoriamente nel lirismo indefinito di una comunione quasi materna. Si tratta di due tipi di unità imposta, l’uno troppo «freddo» (che esclude la parola dei partecipanti), l’altro troppo «caldo» (che esclude le differenze di posizione, di storia e di metodo che resistono al fervore della comunicazione).
L’esperienza del tempo comincia in un gruppo con l’esplicitazione della sua pluralità. Occorre riconoscersi differenti (di una differenza che non può essere superata da nessuna posizione magisteriale, da nessun discorso particolare, da nessun fervore festoso) perché un seminario si trasformi in una storia comune e parziale (un lavoro sulle e tra differenze) e perché la parola vi divenga lo strumento di una politica (l’elemento linguistico di conflitti, di accordi, di sorprese, insomma di procedure «demo-cratiche»).
Certi nostri seminari hanno conosciuto dei momenti di euforia contagiosa o di «dinamiche di gruppo», e anche dei momenti in cui veniva la richiesta che, dal mio punto di vista particolare, io collocassi e raccogliessi in un discorso gli interventi dei partecipanti. Se da una parte è normale che ciò accada, tuttavia non dovrebbe essere la norma, perché ciò compromette quella che, in un gruppo, può essere esperienza politica della parola (dei rapporti discreti di forza), creazione di eventi nel tempo (delle «nascite» grazie alla relazione con l’altro) e produzione di un linguaggio dialogico (una comunicazione relativa  a delle differenze mantenute) – tre elementi che vanno alla pari.
La mia posizione sarà dunque piuttosto quella di esplicitare la mia posizione (invece di nasconderla sotto un discorso supposto capace di inglobare tutti gli altri), di mostrarne le conseguenze possibili, teoriche e pratiche, nella discussione di gruppo, e di reagire reciprocamente a quelli che intervengono in modo interrogativo che li spinga ad esprimere la loro differenza e a trovare nelle suggestioni che io posso fare il mezzo per formularla più chiaramente. I «modelli» teorici proposti hanno per funzione di delineare dei limiti (la particolarità della mia questione), e di rendere possibile degli scarti (l’espressione di altre esperienze e di altre questioni). In questo modo si avvia il lavoro comune che crea degli eventi: una serie di differenziazioni permette a ciascuno di specificare passo dopo passo il proprio cammino nella massa delle informazioni che si scambiano.

Lavori di pratiche

Alla fine, che cos’è un seminario? Cos’è stato il nostro? Come pensare la nostra pratica? Oscillando tra la storia di ciò che abbiamo già fatto e l’utopia di ciò che si dovrà fare, zigzagando in questo tra-due, vorrei soltanto fissare alcuni punti che possano essere sulla carta i segnali del nostro viaggio.
1) Parto dal postulato che per quanto concerne il nostro lavoro l’Università non è più il luogo né un luogo di ricerca. Per alcuni di noi non è né il campo di un confronto tecnico e professionale con il reale, né l’oggetto d’investimenti politici, intellettuali, o amorosi. Nel nostro gruppo, le pratiche effettive di ciascuno si svolgono fuori da Parigi VII. D’altra parte, nello spazio pubblico e marginale che è diventata l’Università, si possono effettuare degli incontri regolari, capaci di creare uno scarto in rapporto ai luoghi differenti da cui veniamo e dove lavoriamo. Altrimenti detto, un Seminario può produrre dei modi di prendere le distanze in rapporto ai nostri compiti e delle possibilità di ritornarvi in modo differente. Nel lavoro di ciascuno, apre una porta di uscita e di rientro. È una specie di cursore che cambia con discrezione il o i luoghi delle nostre pratiche effettive in scene dalle quali ci si può distaccare per pensare e rivederne l’azione. Permette dunque un lavoro ai bordi (sui bordi). Questo cursore non si potrà costituire come un doppione speculare dei luoghi abitati, come uno spazio dove essi potrebbero essere progettati e espressi: non è né il contrario né lo specchio della scena ma un margine che rende possibile qualche operazione di correzione sul testo. Ancor meno è un luogo autonomo in cui un sapere potrebbe costruirsi in pace. Introduce solamente un gioco nell’opaca normatività dei luoghi di lavoro.
Questo gioco di (e sui) luoghi apre uno spazio critico. Ha una doppia condizione di possibilità: a) per non trasformarsi in una lusinga, in spettacolo illusorio, in un simulacro di sapere, la pratica del gruppo deve essere determinata dall’elaborazione dei suoi rapporti con la sua «esteriorità», o piuttosto dalla sua situazione di non essere che una procedura di uscita e di rientro relativa a delle localizzazioni sociali, professionali, familiari, etc; b) ma esso «esercita» questa funzione di scarto critico a causa dell’incrocio di esperienze che vi entrano e vi escono, vale a dire per un lavoro di confronto tra delle ricerche che il Seminario non crea. Cioè, i discorsi del gruppo sono definiti sia  dal fatto di essere separati o privati delle pratiche e dei luoghi che analizziamo insieme, sia da una pratica della parola, da una gestione comune dei nostri scambi socio-linguistici.

2) In questo spazio appartato (questo studio quasi insulare, al 5° piano di Parigi VII), quali erano, quali potevano essere le nostre pratiche?
Generalmente parlando, hanno per caratteristica di salvaguardare a questo posto il ruolo di essere un luogo di transito.  Non hanno dunque come finalità la costruzione di un sapere con le pietre portate da ciascuno e di edificare così un luogo proprio. Al contrario, come degli «svincoli» stradali o di shifters linguistici, sono delle procedure di «passaggio all’altro» o di alterazioni. Vengono a restaurare nel luogo (che si dice «proprio») del sapere le sue relazioni con il suo contrario che comporta al tempo stesso una disappropriazione e una oscenità. Insomma, noi inficiamo il luogo «proprio», come i bambini reintroducono la loro storia nel testo adulto riempiendolo di macchie e di pasticci. Un modello di questa operazione è fornito da Freud come il ritorno di ciò che è stato rimosso: nel posto che si è voluto «proprio» grazie ad una eliminazione dell’altro, ecco che il rimosso riappare come qualcosa che ritorna e altera, «macchia» e ossessiona i luoghi. Questo modello è servito da punto di partenza al nostro Seminario di quest’anno, perché comporta molte implicazioni che mettono in causa diverse specie di luoghi propri (il luogo proprio del soggetto del sapere in rapporto all'oggetto studiato, il luogo proprio di una scientificità in rapporto a delle pratiche sociali o letterarie, etc.), e permette di analizzare i ritorni dell’altro nello stesso spazio che si è creduto autonomo. Due momenti di questo processo sono, in particolare, nettamente articolati: da una parte, una distinzione o separazione tra il «proprio» e il «non-proprio»; dall’altra parte il miscuglio e come la «bastardaggine» di ciò che accade lì dove sopraggiungono dei fantasmi che non dovrebbero trovarsi là.
Il nostro metodo potrebbe avere per fondamento una teoria della bastardaggine. Non che essa abbia per scopo di trasgredire e attraversare le frontiere stabilite. Si tratta piuttosto di rendere conto di ciò che accade effettivamente: il coinvolgimento del soggetto nel suo studio, il ritorno della finzione nella scientificità, la porosità tra le procedure «tecniche» e i modi di fare «comuni», le ambivalenze dei luoghi, etc. Fenomeni di passaggio, di combinazioni, di relazioni tra elementi differenti nello stesso spazio, etc., chiedono di essere analizzati per se stessi, alfine che una teoria espliciti le regole e i modelli conformi a ciò che realmente è l’esperienza della ricerca. Bisogna trovare un rigore proporzionato a questa promiscuità o bastardaggine dei fatti, e smetterla di giustapporre all’esperienza di lavoro una definizione onirica e atopica dei campi «propri».
Nella pratica di un Seminario si colgono delle procedure d’analisi e dei modi d’interrogazione che occorre specificare maggiormente: l’alternarsi tra le sedute dedicate a delle esposizioni su dei modelli teorici e le sedute riservate a dei racconti storiografie di ricerche concrete (il che rende possibile degli effetti delle une sulle altre senza confonderle); il privilegio accordato alla narratività come strumento di analisi, in quanto è un’interconnessione di dati osservati e di investimenti soggettivi e anche la combinazione di una teoria esplicativa referenziale e delle sue eccezioni; l’esame dei conflitti di potere impliciti negli scambi di parole; l’esplicitazione della storia (una pluralità di strati e di interazioni) che è rinchiusa in uno stesso luogo, e che fa in realtà di ciascun luogo un’esperienza ambivalente del tempo; l’eterogeneità nell’atto dell’enunciazione e il sistema di enunciati in cui essa si produce, etc.
Tutti questi procedimenti rinviano all’oggetto della nostra ricerca. Il fatto è che le pratiche della nostra analisi non possono essere eterogenee alla pratiche socio-culturali che studiamo. Questa posizione di principio è legata al fatto che il Seminario non costituisce un luogo «proprio» e che le procedure della ricerca non sono dunque fondamentalmente distinte dalle procedure o dalle «maniere di fare» comuni. Dal solo punto di vista metodologico è stato importante che il Seminario viaggiasse fuori da Parigi VII, come abbiamo fatto, per esempio, ritrovandoci in diversi altri luoghi – nel caso in cui ci fossero delle riunioni ulteriori non previste dal calendario universitario. Oltre al fatto che queste «uscite» permettevano delle esperienze più concrete e degli scambi più liberi, esse spezzavano la «finzione» seduttrice di un luogo e di un tempo propri. Esplicitavano o restauravano la relazione del nostro lavoro con la sua «esteriorità». Attraversando le frontiere artificiali tra le pratiche di un Seminario e le pratiche che ne sono in principio escluse (mangiare, bere, parlare della storia personale legata ad un lavoro, fare l’esperienza di una rete locale in cui s’iscrive una ricerca, etc.), facilitano una chiarificazione reciproca delle nostre «maniere» di studiare e delle maniere di fare che studiamo. Ci eliminavano dunque l’illusione di una specificità scientifica che è in gran parte sostenuta dal solo fatto di riunirsi in un luogo universitario e stimolavano tramite la percezioni di aspetti ignorati l’esigenza di analizzare l’astuta complessità delle più semplici pratiche.

3) Quanto alle pratiche socio-culturali, oggetto del Seminario, esse non designavano evidentemente dei comportamenti obiettivi, bensì delle operazioni trasformatrici: delle maniere di leggere (di produrre un senso attraversando un testo), di dirsi in una lingua che non è la propria, di truccarsi (di crearsi un volto nel codice delle simulazioni sociali), di organizzarsi delle traiettorie in un ordine urbano costituito, di «fare dei tagli» nell’intreccio di una politica locale o di un sistema famigliare, etc. Ciascuna di queste pratiche è un’arte di giocare in uno spazio imposto (un ordine) e con una congiuntura (delle «occasioni»). Ho chiamato tattiche questi modi di «rigirare» i fatti imposti da un sistema dominante e di crearvi un gioco per delle combinazioni temporanee. Le distinguo dalle strategie, che indicano la capacità di isolare un luogo autonomo di potere, di esplicitarvi un volere proprio, e di calcolare dei rapporti di forza con un «ambiente» circoscritto. Il nostro proposito era di analizzare queste tattiche, manipolazioni instabili e relazioni stabili, astuzie legate ad un non-potere e all’istante, operazioni complesse fondate su un flair, e di domandarci quali modelli teorici e quali tipi di scrittura potessero renderne conto. Questione tanto più importante perchè queste «tattiche» costituiscono l’immensa maggioranza delle pratiche sociali, e perché l’osservazione scientifica non ne conserva spesso che ciò che è conforme ai suoi schemi procedurali, supposti più razionali ma in tutti i casi semplificativi.
Iniziato dalle ricerche sulla cultura popolare e sul funzionamento effettivo delle rappresentazioni, questo lavoro pone delle questioni: la creatività dei «consumatori», poeti e artisti sconosciuti; la relazione di questa arte di «fare dei tagli» con il sistema dentro il quale si sviluppa; l’omologia con le «precise azioni» sociali e politiche; l’esperienza del tempo che implica una pertinenza dell’istante in queste tattiche; il rapporto di queste astuzie con i luoghi in cui si producono e che possono essere analizzati come dei puzzles di frammenti stratificati che giocano gli uni sugli altri; la funzione di queste tattiche, suscettibili di essere considerate come delle articolazioni operative tra dei sistemi (codificazioni prodotte) e dei corpi (luoghi opachi e determinati, di bisogni e di piaceri); le rivoluzioni silenziose prodotte da questa attività brulicante, etc. Ma tutte queste questioni compongono il vocio del nostro caquetoir.

Luoghi della ricerca
D’altra parte bisogna sottolineare che, in rapporto al CNRS o ad altre istituzioni spesso formate da luoghi inaccessibili per privilegiati senza responsabilità sociale e senza una regolare relazione con il crescente flusso delle ricerche degli studenti, le università offrono spazi di confronto permanenti con le domande e le innovazioni che i «ricercatori» patentati non percepiscono più. Mi sono sistemato a Parigi VII per questo. Alle grandi scuole «famigliari» o alle strutture insulari della Ricerca, «home» per un’intelligenza tranquilla da sola, preferisco questi luoghi universitari (del resto lentamente proletarizzati in rapporto ad una élite che gli sta di fronte): lì è possibile una viva collaborazione con tutti quelli che, anche se la loro presenza è già l’effetto di una selezione, arrivano viaggiando tra esigenze, esperienze e ambizioni venute da tutte le parti, da molto lontano. Certo, la «miseria» dilaga in questi luoghi. Ma proprio per questa ragione può essere che l’intellettuale trovi in questa collaborazione un’altra figura sociale e un altro ruolo tecnico, molto più che nelle celle ad aria condizionata in cui si giudica con disprezzo la degradazione delle università.
Detto ciò, le università non saprebbero essere trasformate in case chiuse del sapere o di un potere del sapere. Del resto è da un bel pezzo che, almeno nei UER di scienze umane, gli studenti e molti insegnanti lo sanno. Lo dicevamo poc’anzi a proposito di un Seminario particolare, si tratta piuttosto di cercare come il lavoro che si fa là, pubblico e marginale, possa articolarsi sull’insieme delle pratiche sociali. Questa connessione verrà fuori da costrizioni economiche, esperienze scientifiche e da confronti politici. Per terminare sottolineerei soltanto tre punti che risaltano dalla nostra ricerca particolare.
a) Un lavoro teorico e tecnico (la critica ideologica non è sufficiente) si deve basare sul taglio sociale sul quale si articola la costituzione di campi intellettuali «propri»: la separazione tra ciò che è «scientifico» e ciò che non lo è. Così l’analisi delle pratiche o «maniere di fare» come noi le interpretiamo mostra, da una parte e dall’altra di questa frontiera, la presenza dello stesso tipo di cosa di ciò che si fa, gli stessi «tagli» relativi ad una congiuntura e a dei destinatari, etc. Ma la parvenza delle istituzioni scientifiche (e tutte le iniziazioni necessarie ad una aggregazione) fa passare le pratiche interne per qualitativamente superiori alle pratiche «esterne» e protegge questa differenza. Può essere, in questa prospettiva e malgrado il terrorismo primario che ha generato in Lyssenko, che si debba ritornare al principio iniziale della «scienza proletaria»: vale a dire che esiste una scienza delle pratiche dell’operaio o della casalinga come del ricercatore, e che non si può gerarchizzare la loro competenza in base a criteri sociali.
b) Il lavoro di restituire la sua legittimità socio-culturale e di dare figura teorica a queste «maniere di fare» comuni ha portata politica, nella misura in cui esse contribuiscono a fornire dei riferimenti per un’azione collettiva. La presa di coscienza politica di esperienze sociali per lungo tempo ridotte al silenzio ha sempre avuto come condizione la produzione di analisi tecniche, di esplicitazioni teoriche rivalutazioni simboliche. Così è stato per delle culture oppresse o per dei comportamenti repressi. Da questo punto di vista, la nostra ricerca, legata ad altre, senza dubbio non è direttamente un’azione politica, ma le prepara degli strumenti. D’altra parte essa s’inscrive necessariamente in una rete di impegni politici preliminari e congiunti.
c) Proprio per il suo oggetto come per le sue prospettive, questo progetto non potrà essere circoscritto in un luogo universitario. Esso implica un gioco su una pluralità di luoghi. Il passaggio periodico per una scala di università non rappresenta che una punteggiatura di momenti critici nel testo delle nostre attività sociali. Questa operazione universitaria non può, mi sembra, essere «gestita» nella sua funzione marginale, dalla sola autocritica né dalla sola elucidazione dei suoi necessari rapporti con le esperienze che l’attraversano di tanto in tanto; le occorre essere legata in maniera più strutturale con dei luoghi d’azione e con delle effettive collettività. Occorrerà dunque considerare delle relazioni più strette tra unità universitarie e nuclei sociali fortemente impiantati – le prime più aperte gli altri più stabili. Non per una confusione di generi, che è sempre nefasta, ma in vista di connessioni nel mantenimento delle differenze. Ne abbiamo parlato a proposito delle relazioni possibili tra l’UER di etno-antropologia e altri luoghi. Ci sono sicuramente altre formule. Se, come io credo, la teoria si colloca sempre in uno scarto in rapporto all’istituzione, essa troverà in questa struttura plurale la sua condizione di possibilità.

Michel de Certeau
Traduzione dal francese di Luigi Mantuano


note

1. Pubblichiamo qui gli estratti principali di un incontro in cui Michel de Certeau risponde alle domande di Yann de Kerorguen. Il dialogo è stato pubblicato in «La brochure ethnologique», n°3, mai 1977 (2, place Jussieu, 75005 Paris).

***


Luce Giard

Su Michel de Certeau, Che cos’è un seminario?

A partire dal 1972, e fino alla sua partenza per l’Università di San Diego, California, Michel de Certeau ricopre un insegnamento all’Università di Parigi VII, presso il Dipartimento di antropologia, etnologia e scienza delle religioni, diretto da Robert Jaulin. In particolare, dal 1974 al 1978, ci fu un seminario di dottorato (per la formazione alla ricerca) che per la brillantezza, l’originalità, la ricchezza delle fonti, dei metodi e delle teorie confrontate, la diversità delle esperienze che vi si incrociarono, ha lasciato tra coloro che vi parteciparono un ricordo incomparabile.

Il seminario aveva per oggetto “le pratiche culturali”. Al centro dell'attenzione vi erano temi riguardanti tutti gli aspetti dell’antropologia culturale: le società vicine o lontane di cui si indagava il passato ed il presente, il dire e il fare, i processi di simbolizzazione, i rapporti tra le generazioni e i sessi, i codici e i riti, e mille altre cose. Per Certeau, questo seminario fu il luogo di sperimentazione entro il quale elaborò le grandi linee di ciò che in seguito teorizzò e argomentò ne L’Invention du quotidien (Paris, UGE, 10-18, 2 tomes, 1980 ; nouv. éd. Luce Giard, Paris, Gallimard, Folio, 1990-1994; trad. italiana Roma, edizioni Lavoro, 2001). Per molti dei partecipanti, questo luogo aperto, multiplo, contraddittorio, segnato da un «inquietante perturbamento» (secondo le parole di Freud), fu fonte di stimoli e spesso il catalizzatore di profonde trasformazioni. Si arrivava con delle domande, si andava via senza risposte, turbati o incuriositi, spogliati delle proprie certezze precedenti, rinviati a una sorta di libertà interiore, o piuttosto come messi in movimento, richiamati alle proprie esigenze, attenti ad altri interrogativi.

Così procedeva Michel de Certeau, con tocchi leggeri e discreti, interrogando o articolando le intenzioni dei partecipanti, suggerendo loro altre letture, altri incroci, mettendo da parte il ricorrere alle certezze che si presentavano per prime, senza insistenze nè soluzioni definitive. Sapeva rimanere con un’eleganza naturale «il maestro che non voleva avere dei discepoli», come nota giustamente un giovane antropologo brasiliano, attore di questo meraviglioso teatro. Senza pesare sul suo auditorio, senza avanzare dei principi incrollabili, senza difendere una teoria o un metodo esclusivo, Certeau fece di questo seminario un luogo indimenticabile, in cui fu portato a termine un buon numero di tesi di dottorato. La loro qualità e diversità sono la testimonianza di una singolare capacità per far nascere o piuttosto per cogliere ciò che di originale si rifletteva oscuramente in ciascun interlocutore. Tutte le parole, tutti i progetti ricevevano da parte sua la stessa attenzione e rispetto, e il suo autore si vedeva dolcemente sostenuto e accompagnato fino a che giungeva ad articolare pienamente la propria intenzione, a costruire il proprio progetto. Allora «colui che non era un maestro» si metteva da parte per «fare spazio all’altro», come amava ripetere, «cosicchè potesse nascere dell’altro».

Di questo modo di insegnare, generoso e lucido, così ricco d’intelligenza come di delicatezza, tutti cercavano di comprendere il segreto. Del loro desiderio di comprendere da dove fosse venuta questa «composizione di luogo» (solo uno o due studenti più familiarizzati con la spiritualità ignaziana vi hanno saputo riconoscere questo segno), il testo che segue rende testimonianza. Inizialmente ha avuto la forma di dialogo tra Michele de Certeau e Yan de Kerorguen, complice attento e acuto del seminario (su quest’ultimo si veda François Dosse, Michel de Certeau le marcheur blessé, Paris, La Découverte, 2002, p.398-401). Il dialogo fu pubblicato su un modesto giornale di studenti all’interno del Dipartimento di antropologia (La brochure ethnologique, Université de Paris VII, n°3, mai 1977, p.5-12). Abbreviato e rivisto in qualche punto da Michel de Certeau, il testo è stato ripreso in un dossier dedicato alla situazione universitaria francese dalla rivista Esprit (novembre-décembre 1978, p.176-181), come un ultimo saluto a colui che non c’era più: in quella data, l’autore aveva già raggiunto il nuovo incarico di professore in California. Questa seconda versione è stata ripubblicata in seguito su una rivista di psicoanalisi (Le Bloc-Notes de la psychanalyse, Genève, n°7, 1987, p.239-247), in un dossier su «Educazione e psicoanalisi» coordinato da Mireille Cifali, nel quale sia lei che Anne-Marie Chartier offrono ciascuna dei puntuali commenti  sull’apporto di Certeau in materia.
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