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Che cos’è un seminario?1
Michel de Certeau
Un caquetoir
(luogo di chiacchiere)
Un seminario è un laboratorio comune che permette a ciascuno dei
partecipanti d’articolare le proprie pratiche e conoscenze. È come se
ciascuno vi apportasse il «dizionario» dei suoi materiali, delle sue
esperienze, delle sue idee e che, per l’effetto di scambi
necessariamente parziali e d’ipotesi teoriche necessariamente
provvisorie, gli diventasse possibile produrre delle frasi con questo
ricco vocabolario, cioè di «ricamare» o di organizzare in discorsi le
sue informazioni, le sue questioni, i suoi progetti, etc. Questo luogo
di scambi instauratori potrebbe essere comparato a quello che,
nella Loira, si chiama un caquetoir, appuntamento settimanale
sulla
piazza principale, laboratorio plurale, dove dei «passanti» si fermano
la domenica per produrre nello stesso tempo un linguaggio comune e dei
discorsi personali. Un seminario mette così in causa una politica della
parola, come vedremo. Tuttavia in rapporto al caquetoir
presenta la
differenza di non essere il solo appuntamento per le
chiacchiere ma
solamente un luogo di linguaggio tra molti altri in una rete
che non
comporta più né piazza principale né centro.
Così gli effetti della produzione del discorso che mette in atto non
sono che tangenziali in rapporto alla ricchezza crescente e silenziosa
dei viaggiatori che si fermano un momento in questa stazione. Mi sembra
che il primo compito, in un seminario, sia di rispettare ciò che non
viene detto, e ancora di più ciò che vi succede all’insaputa,
dunque di
moderare la propria voglia di articolare, forzare, coordinare gli
interventi di ciascuno: vengono da troppo lontano per poter essere
interpretati; vanno troppo lontano per poter essere circoscritti in un
«luogo comune».
Se il «caquetoir» di Parigi VII crea degli eventi, come tu dicevi, può
essere perché noi cerchiamo, e, da parte mia, io cerco di
«tenerlo» (come si «tiene» una direzione) tra due modi di dare a un
seminario un’identità ripetitiva che esclude l’esperienza del tempo:
l’uno, didattico, suppone che il luogo è costituito da un discorso
professorale o dal prestigio di un maestro, cioè dalla forza di un
testo o dall’autorità di una voce; l’altro, festoso e quasi estatico,
pretende di produrre il luogo tramite il puro scambio dei sentimenti e
delle convinzioni, e infine tramite la ricerca di una trasparenza di
espressioni comuni. Tutti e due sopprimono le differenze al lavoro in
un collettivo, il primo schiacciandole sotto la legge di un padre, il
secondo cancellandole illusoriamente nel lirismo indefinito di una
comunione quasi materna. Si tratta di due tipi di unità imposta, l’uno
troppo «freddo» (che esclude la parola dei partecipanti), l’altro
troppo «caldo» (che esclude le differenze di posizione, di storia e di
metodo che resistono al fervore della comunicazione).
L’esperienza del tempo comincia in un gruppo con
l’esplicitazione della
sua pluralità. Occorre riconoscersi differenti (di una differenza che
non può essere superata da nessuna posizione magisteriale, da nessun
discorso particolare, da nessun fervore festoso) perché un seminario si
trasformi in una storia comune e parziale (un lavoro sulle e
tra
differenze) e perché la parola vi divenga lo strumento di una politica
(l’elemento linguistico di conflitti, di accordi, di sorprese, insomma
di procedure «demo-cratiche»).
Certi nostri seminari hanno conosciuto dei momenti di euforia
contagiosa o di «dinamiche di gruppo», e anche dei momenti in cui
veniva la richiesta che, dal mio punto di vista particolare, io
collocassi e raccogliessi in un discorso gli interventi dei
partecipanti. Se da una parte è normale che ciò accada, tuttavia non
dovrebbe essere la norma, perché ciò compromette quella che, in un
gruppo, può essere esperienza politica della parola (dei
rapporti
discreti di forza), creazione di eventi nel tempo (delle
«nascite»
grazie alla relazione con l’altro) e produzione di un linguaggio
dialogico (una comunicazione relativa a delle differenze
mantenute) – tre elementi che vanno alla pari.
La mia posizione sarà dunque piuttosto quella di esplicitare la mia
posizione (invece di nasconderla sotto un discorso supposto capace di
inglobare tutti gli altri), di mostrarne le conseguenze possibili,
teoriche e pratiche, nella discussione di gruppo, e di reagire
reciprocamente a quelli che intervengono in modo interrogativo che li
spinga ad esprimere la loro differenza e a trovare nelle suggestioni
che io posso fare il mezzo per formularla più chiaramente. I «modelli»
teorici proposti hanno per funzione di delineare dei limiti (la
particolarità della mia questione), e di rendere possibile degli scarti
(l’espressione di altre esperienze e di altre questioni). In questo
modo si avvia il lavoro comune che crea degli eventi: una serie di
differenziazioni permette a ciascuno di specificare passo dopo passo il
proprio cammino nella massa delle informazioni che si scambiano.
Lavori di pratiche
Alla fine, che cos’è un seminario? Cos’è stato il nostro? Come pensare
la nostra pratica? Oscillando tra la storia di ciò che abbiamo già
fatto e l’utopia di ciò che si dovrà fare, zigzagando in questo
tra-due, vorrei soltanto fissare alcuni punti che possano essere sulla
carta i segnali del nostro viaggio.
1) Parto dal postulato che per quanto concerne il nostro lavoro
l’Università non è più il luogo né un luogo di ricerca.
Per alcuni di
noi non è né il campo di un confronto tecnico e professionale con il
reale, né l’oggetto d’investimenti politici, intellettuali, o amorosi.
Nel nostro gruppo, le pratiche effettive di ciascuno si svolgono fuori
da Parigi VII. D’altra parte, nello spazio pubblico e marginale che è
diventata l’Università, si possono effettuare degli incontri regolari,
capaci di creare uno scarto in rapporto ai luoghi differenti da
cui
veniamo e dove lavoriamo. Altrimenti detto, un Seminario può produrre
dei modi di prendere le distanze in rapporto ai nostri compiti e delle
possibilità di ritornarvi in modo differente. Nel lavoro di ciascuno,
apre una porta di uscita e di rientro. È una specie di cursore
che
cambia con discrezione il o i luoghi delle nostre pratiche effettive in
scene dalle quali ci si può distaccare per pensare e rivederne
l’azione. Permette dunque un lavoro ai bordi (sui bordi). Questo
cursore non si potrà costituire come un doppione speculare dei luoghi
abitati, come uno spazio dove essi potrebbero essere progettati e
espressi: non è né il contrario né lo specchio della scena ma un
margine che rende possibile qualche operazione di correzione sul testo.
Ancor meno è un luogo autonomo in cui un sapere potrebbe costruirsi in
pace. Introduce solamente un gioco nell’opaca normatività dei
luoghi di
lavoro.
Questo gioco di (e sui) luoghi apre uno spazio critico. Ha una doppia
condizione di possibilità: a) per non trasformarsi in una lusinga, in
spettacolo illusorio, in un simulacro di sapere, la pratica del gruppo
deve essere determinata dall’elaborazione dei suoi rapporti con la sua
«esteriorità», o piuttosto dalla sua situazione di non essere che una
procedura di uscita e di rientro relativa a delle localizzazioni
sociali, professionali, familiari, etc; b) ma esso «esercita» questa
funzione di scarto critico a causa dell’incrocio di esperienze che vi
entrano e vi escono, vale a dire per un lavoro di confronto tra delle
ricerche che il Seminario non crea. Cioè, i discorsi del gruppo sono
definiti sia dal fatto di essere separati o privati delle
pratiche e dei luoghi che analizziamo insieme, sia da una pratica
della
parola, da una gestione comune dei nostri scambi socio-linguistici.
2) In questo spazio appartato (questo studio quasi insulare, al 5°
piano di Parigi VII), quali erano, quali potevano essere le nostre
pratiche?
Generalmente parlando, hanno per caratteristica di salvaguardare a
questo posto il ruolo di essere un luogo di transito. Non
hanno
dunque come finalità la costruzione di un sapere con le pietre portate
da ciascuno e di edificare così un luogo proprio. Al contrario, come
degli «svincoli» stradali o di shifters linguistici, sono delle
procedure di «passaggio all’altro» o di alterazioni. Vengono a
restaurare nel luogo (che si dice «proprio») del sapere le sue
relazioni con il suo contrario che comporta al tempo stesso una
disappropriazione e una oscenità. Insomma, noi inficiamo
il luogo
«proprio», come i bambini reintroducono la loro storia nel testo adulto
riempiendolo di macchie e di pasticci. Un modello di questa operazione
è fornito da Freud come il ritorno di ciò che è stato rimosso: nel
posto che si è voluto «proprio» grazie ad una eliminazione dell’altro,
ecco che il rimosso riappare come qualcosa che ritorna e altera,
«macchia» e ossessiona i luoghi. Questo modello è servito da punto di
partenza al nostro Seminario di quest’anno, perché comporta molte
implicazioni che mettono in causa diverse specie di luoghi propri (il
luogo proprio del soggetto del sapere in rapporto all'oggetto studiato,
il luogo proprio di una scientificità in rapporto a delle pratiche
sociali o letterarie, etc.), e permette di analizzare i ritorni
dell’altro nello stesso spazio che si è creduto autonomo. Due momenti
di questo processo sono, in particolare, nettamente articolati: da una
parte, una distinzione o separazione tra il «proprio» e il
«non-proprio»; dall’altra parte il miscuglio e come la «bastardaggine»
di ciò che accade lì dove sopraggiungono dei fantasmi che non
dovrebbero trovarsi là.
Il nostro metodo potrebbe avere per fondamento una teoria della
bastardaggine. Non che essa abbia per scopo di trasgredire e
attraversare le frontiere stabilite. Si tratta piuttosto di rendere
conto di ciò che accade effettivamente: il coinvolgimento del soggetto
nel suo studio, il ritorno della finzione nella scientificità, la
porosità tra le procedure «tecniche» e i modi di fare «comuni», le
ambivalenze dei luoghi, etc. Fenomeni di passaggio, di combinazioni, di
relazioni tra elementi differenti nello stesso spazio, etc., chiedono
di essere analizzati per se stessi, alfine che una teoria espliciti le
regole e i modelli conformi a ciò che realmente è l’esperienza della
ricerca. Bisogna trovare un rigore proporzionato a questa promiscuità
o
bastardaggine dei fatti, e smetterla di giustapporre all’esperienza di
lavoro una definizione onirica e atopica dei campi «propri».
Nella pratica di un Seminario si colgono delle procedure d’analisi e
dei modi d’interrogazione che occorre specificare maggiormente:
l’alternarsi tra le sedute dedicate a delle esposizioni su dei
modelli
teorici e le sedute riservate a dei racconti storiografie di
ricerche
concrete (il che rende possibile degli effetti delle une sulle altre
senza confonderle); il privilegio accordato alla narratività
come
strumento di analisi, in quanto è un’interconnessione di dati osservati
e di investimenti soggettivi e anche la combinazione di una teoria
esplicativa referenziale e delle sue eccezioni; l’esame dei conflitti
di potere impliciti negli scambi di parole;
l’esplicitazione della
storia (una pluralità di strati e di interazioni) che è rinchiusa in
uno stesso luogo, e che fa in realtà di ciascun luogo
un’esperienza
ambivalente del tempo; l’eterogeneità nell’atto dell’enunciazione
e il
sistema di enunciati in cui essa si produce, etc.
Tutti questi procedimenti rinviano all’oggetto della nostra ricerca. Il
fatto è che le pratiche della nostra analisi non possono essere
eterogenee alla pratiche socio-culturali che studiamo. Questa posizione
di principio è legata al fatto che il Seminario non costituisce un
luogo «proprio» e che le procedure della ricerca non sono dunque
fondamentalmente distinte dalle procedure o dalle «maniere di fare»
comuni. Dal solo punto di vista metodologico è stato importante che il
Seminario viaggiasse fuori da Parigi VII, come abbiamo fatto, per
esempio, ritrovandoci in diversi altri luoghi – nel caso in cui ci
fossero delle riunioni ulteriori non previste dal calendario
universitario. Oltre al fatto che queste «uscite» permettevano delle
esperienze più concrete e degli scambi più liberi, esse spezzavano la
«finzione» seduttrice di un luogo e di un tempo propri. Esplicitavano o
restauravano la relazione del nostro lavoro con la sua «esteriorità».
Attraversando le frontiere artificiali tra le pratiche di un Seminario
e le pratiche che ne sono in principio escluse (mangiare, bere, parlare
della storia personale legata ad un lavoro, fare l’esperienza di una
rete locale in cui s’iscrive una ricerca, etc.), facilitano una
chiarificazione reciproca delle nostre «maniere» di studiare e delle
maniere di fare che studiamo. Ci eliminavano dunque l’illusione di una
specificità scientifica che è in gran parte sostenuta dal solo fatto di
riunirsi in un luogo universitario e stimolavano tramite la percezioni
di aspetti ignorati l’esigenza di analizzare l’astuta complessità delle
più semplici pratiche.
3) Quanto alle pratiche socio-culturali, oggetto del Seminario,
esse
non designavano evidentemente dei comportamenti obiettivi, bensì delle
operazioni trasformatrici: delle maniere di leggere (di produrre
un
senso attraversando un testo), di dirsi in una lingua che non è la
propria, di truccarsi (di crearsi un volto nel codice delle simulazioni
sociali), di organizzarsi delle traiettorie in un ordine urbano
costituito, di «fare dei tagli» nell’intreccio di una politica locale o
di un sistema famigliare, etc. Ciascuna di queste pratiche è un’arte di
giocare in uno spazio imposto (un ordine) e con una congiuntura (delle
«occasioni»). Ho chiamato tattiche questi modi di «rigirare» i
fatti
imposti da un sistema dominante e di crearvi un gioco per delle
combinazioni temporanee. Le distinguo dalle strategie, che
indicano la
capacità di isolare un luogo autonomo di potere, di esplicitarvi un
volere proprio, e di calcolare dei rapporti di forza con un «ambiente»
circoscritto. Il nostro proposito era di analizzare queste tattiche,
manipolazioni instabili e relazioni stabili, astuzie legate ad un
non-potere e all’istante, operazioni complesse fondate su un flair,
e
di domandarci quali modelli teorici e quali tipi di scrittura potessero
renderne conto. Questione tanto più importante perchè queste «tattiche»
costituiscono l’immensa maggioranza delle pratiche sociali, e perché
l’osservazione scientifica non ne conserva spesso che ciò che è
conforme ai suoi schemi procedurali, supposti più razionali ma in tutti
i casi semplificativi.
Iniziato dalle ricerche sulla cultura popolare e sul funzionamento
effettivo delle rappresentazioni, questo lavoro pone delle questioni:
la creatività dei «consumatori», poeti e artisti sconosciuti; la
relazione di questa arte di «fare dei tagli» con il sistema dentro il
quale si sviluppa; l’omologia con le «precise azioni» sociali e
politiche; l’esperienza del tempo che implica una pertinenza
dell’istante in queste tattiche; il rapporto di queste astuzie con i
luoghi in cui si producono e che possono essere analizzati come dei
puzzles di frammenti stratificati che giocano gli uni sugli
altri; la
funzione di queste tattiche, suscettibili di essere considerate come
delle articolazioni operative tra dei sistemi (codificazioni prodotte)
e dei corpi (luoghi opachi e determinati, di bisogni e di piaceri); le
rivoluzioni silenziose prodotte da questa attività brulicante, etc. Ma
tutte queste questioni compongono il vocio del nostro caquetoir.
Luoghi della ricerca
D’altra parte bisogna sottolineare che, in rapporto al CNRS o ad altre
istituzioni spesso formate da luoghi inaccessibili per privilegiati
senza responsabilità sociale e senza una regolare relazione con il
crescente flusso delle ricerche degli studenti, le università offrono
spazi di confronto permanenti con le domande e le innovazioni che i
«ricercatori» patentati non percepiscono più. Mi sono sistemato a
Parigi VII per questo. Alle grandi scuole «famigliari» o alle strutture
insulari della Ricerca, «home» per un’intelligenza tranquilla da sola,
preferisco questi luoghi universitari (del resto lentamente
proletarizzati in rapporto ad una élite che gli sta di fronte): lì è
possibile una viva collaborazione con tutti quelli che, anche se la
loro presenza è già l’effetto di una selezione, arrivano viaggiando tra
esigenze, esperienze e ambizioni venute da tutte le parti, da molto
lontano. Certo, la «miseria» dilaga in questi luoghi. Ma proprio per
questa ragione può essere che l’intellettuale trovi in questa
collaborazione un’altra figura sociale e un altro ruolo tecnico, molto
più che nelle celle ad aria condizionata in cui si giudica con
disprezzo la degradazione delle università.
Detto ciò, le università non saprebbero essere trasformate in case
chiuse del sapere o di un potere del sapere. Del resto è da un bel
pezzo che, almeno nei UER di scienze umane, gli studenti e molti
insegnanti lo sanno. Lo dicevamo poc’anzi a proposito di un Seminario
particolare, si tratta piuttosto di cercare come il lavoro che si fa
là, pubblico e marginale, possa articolarsi sull’insieme delle pratiche
sociali. Questa connessione verrà fuori da costrizioni economiche,
esperienze scientifiche e da confronti politici. Per terminare
sottolineerei soltanto tre punti che risaltano dalla nostra ricerca
particolare.
a) Un lavoro teorico e tecnico (la critica ideologica non è
sufficiente) si deve basare sul taglio sociale sul quale si
articola la
costituzione di campi intellettuali «propri»: la separazione tra ciò
che è «scientifico» e ciò che non lo è. Così l’analisi delle pratiche o
«maniere di fare» come noi le interpretiamo mostra, da una parte e
dall’altra di questa frontiera, la presenza dello stesso tipo di cosa
di ciò che si fa, gli stessi «tagli» relativi ad una congiuntura e a
dei destinatari, etc. Ma la parvenza delle istituzioni scientifiche (e
tutte le iniziazioni necessarie ad una aggregazione) fa passare
le
pratiche interne per qualitativamente superiori alle pratiche «esterne»
e protegge questa differenza. Può essere, in questa prospettiva e
malgrado il terrorismo primario che ha generato in Lyssenko, che si
debba ritornare al principio iniziale della «scienza proletaria»: vale
a dire che esiste una scienza delle pratiche dell’operaio o della
casalinga come del ricercatore, e che non si può gerarchizzare la loro
competenza in base a criteri sociali.
b) Il lavoro di restituire la sua legittimità socio-culturale e di dare
figura teorica a queste «maniere di fare» comuni ha portata politica,
nella misura in cui esse contribuiscono a fornire dei riferimenti per
un’azione collettiva. La presa di coscienza politica di esperienze
sociali per lungo tempo ridotte al silenzio ha sempre avuto come
condizione la produzione di analisi tecniche, di esplicitazioni
teoriche rivalutazioni simboliche. Così è stato per delle culture
oppresse o per dei comportamenti repressi. Da questo punto di vista, la
nostra ricerca, legata ad altre, senza dubbio non è direttamente
un’azione politica, ma le prepara degli strumenti. D’altra parte essa
s’inscrive necessariamente in una rete di impegni politici preliminari
e congiunti.
c) Proprio per il suo oggetto come per le sue prospettive, questo
progetto non potrà essere circoscritto in un luogo universitario. Esso
implica un gioco su una pluralità di luoghi. Il passaggio periodico per
una scala di università non rappresenta che una punteggiatura di
momenti critici nel testo delle nostre attività sociali. Questa
operazione universitaria non può, mi sembra, essere «gestita» nella sua
funzione marginale, dalla sola autocritica né dalla sola elucidazione
dei suoi necessari rapporti con le esperienze che l’attraversano di
tanto in tanto; le occorre essere legata in maniera più strutturale con
dei luoghi d’azione e con delle effettive collettività. Occorrerà
dunque considerare delle relazioni più strette tra unità universitarie
e nuclei sociali fortemente impiantati – le prime più aperte gli altri
più stabili. Non per una confusione di generi, che è sempre nefasta, ma
in vista di connessioni nel mantenimento delle differenze. Ne abbiamo
parlato a proposito delle relazioni possibili tra l’UER di
etno-antropologia e altri luoghi. Ci sono sicuramente altre formule.
Se, come io credo, la teoria si colloca sempre in uno scarto in
rapporto all’istituzione, essa troverà in questa struttura plurale la
sua condizione di possibilità.
Michel de Certeau
Traduzione dal francese di Luigi Mantuano
note
1.
Pubblichiamo qui gli estratti principali di un incontro in cui Michel
de Certeau risponde alle domande di Yann de Kerorguen. Il dialogo è
stato pubblicato in «La brochure ethnologique», n°3, mai 1977 (2, place
Jussieu, 75005 Paris).
***
Luce Giard
Su Michel de Certeau, Che cos’è un
seminario?
A partire dal 1972, e fino alla sua partenza per l’Università di San
Diego, California, Michel de Certeau ricopre un insegnamento
all’Università di Parigi VII, presso il Dipartimento di antropologia,
etnologia e scienza delle religioni, diretto da Robert Jaulin. In
particolare, dal 1974 al 1978, ci fu un seminario di dottorato (per la
formazione alla ricerca) che per la brillantezza, l’originalità, la
ricchezza delle fonti, dei metodi e delle teorie confrontate, la
diversità delle esperienze che vi si incrociarono, ha lasciato tra
coloro che vi parteciparono un ricordo incomparabile.
Il seminario aveva per oggetto “le pratiche culturali”. Al centro
dell'attenzione vi erano temi riguardanti tutti gli aspetti
dell’antropologia culturale: le società vicine o lontane di cui si
indagava il passato ed il presente, il dire e il fare, i processi di
simbolizzazione, i rapporti tra le generazioni e i sessi, i codici e i
riti, e mille altre cose. Per Certeau, questo seminario fu il luogo di
sperimentazione entro il quale elaborò le grandi linee di ciò che in
seguito teorizzò e argomentò ne L’Invention du quotidien (Paris, UGE,
10-18, 2 tomes, 1980 ; nouv. éd. Luce Giard, Paris, Gallimard,
Folio, 1990-1994; trad. italiana Roma, edizioni Lavoro, 2001). Per
molti dei partecipanti, questo luogo aperto, multiplo, contraddittorio,
segnato da un «inquietante perturbamento» (secondo le parole di Freud),
fu fonte di stimoli e spesso il catalizzatore di profonde
trasformazioni. Si arrivava con delle domande, si andava via senza
risposte, turbati o incuriositi, spogliati delle proprie certezze
precedenti, rinviati a una sorta di libertà interiore, o piuttosto come
messi in movimento, richiamati alle proprie esigenze, attenti ad altri
interrogativi.
Così procedeva Michel de Certeau, con tocchi leggeri e discreti,
interrogando o articolando le intenzioni dei partecipanti, suggerendo
loro altre letture, altri incroci, mettendo da parte il ricorrere alle
certezze che si presentavano per prime, senza insistenze nè soluzioni
definitive. Sapeva rimanere con un’eleganza naturale «il maestro che
non voleva avere dei discepoli», come nota giustamente un giovane
antropologo brasiliano, attore di questo meraviglioso teatro. Senza
pesare sul suo auditorio, senza avanzare dei principi incrollabili,
senza difendere una teoria o un metodo esclusivo, Certeau fece di
questo seminario un luogo indimenticabile, in cui fu portato a termine
un buon numero di tesi di dottorato. La loro qualità e diversità sono
la testimonianza di una singolare capacità per far nascere o piuttosto
per cogliere ciò che di originale si rifletteva oscuramente in ciascun
interlocutore. Tutte le parole, tutti i progetti ricevevano da parte
sua la stessa attenzione e rispetto, e il suo autore si vedeva
dolcemente sostenuto e accompagnato fino a che giungeva ad articolare
pienamente la propria intenzione, a costruire il proprio progetto.
Allora «colui che non era un maestro» si metteva da parte per «fare
spazio all’altro», come amava ripetere, «cosicchè potesse nascere
dell’altro».
Di questo modo di insegnare, generoso e lucido, così ricco
d’intelligenza come di delicatezza, tutti cercavano di comprendere il
segreto. Del loro desiderio di comprendere da dove fosse venuta questa
«composizione di luogo» (solo uno o due studenti più familiarizzati con
la spiritualità ignaziana vi hanno saputo riconoscere questo segno), il
testo che segue rende testimonianza. Inizialmente ha avuto la forma di
dialogo tra Michele de Certeau e Yan de Kerorguen, complice attento e
acuto del seminario (su quest’ultimo si veda François Dosse, Michel de
Certeau le marcheur blessé, Paris, La Découverte, 2002, p.398-401). Il
dialogo fu pubblicato su un modesto giornale di studenti all’interno
del Dipartimento di antropologia (La brochure ethnologique, Université
de Paris VII, n°3, mai 1977, p.5-12). Abbreviato e rivisto in qualche
punto da Michel de Certeau, il testo è stato ripreso in un dossier
dedicato alla situazione universitaria francese dalla rivista Esprit
(novembre-décembre 1978, p.176-181), come un ultimo saluto a colui che
non c’era più: in quella data, l’autore aveva già raggiunto il nuovo
incarico di professore in California. Questa seconda versione è stata
ripubblicata in seguito su una rivista di psicoanalisi (Le Bloc-Notes
de la psychanalyse, Genève, n°7, 1987, p.239-247), in un dossier su
«Educazione e psicoanalisi» coordinato da Mireille Cifali, nel quale
sia lei che Anne-Marie Chartier offrono ciascuna dei puntuali
commenti sull’apporto di Certeau in materia.
[pubblicato su «École», n.6, dicembre 2004]
[20 gennaio 2011]
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