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Per capire la storia, per entrare
dentro la violenza dei vincitori…
Incontro con Massimiliano Tomba
Padova 9 febbraio 2011
Ilia Pedrina
Mi sono trovata in un crogiuolo di tensioni,
da una certa data in poi, da quando cioè ho iniziato a ricopiare tutto
il testo di Rabbi Jacob Taubes, Abenlaendische Escathologie,
nella
versione italiana, ed ho inserito di getto tutti i commenti
possibili, di diverso colore. Ad un certo punto vedo citato Bruno Bauer
e l’insistenza di Taubes che consigliava di lavorare su di lui
(L’attenzione per la Prefazione al testo di Michele Ranchetti verrà in
un secondo momento!). Allora mi metto alla ricerca e mi trovo tra le
mani il lavoro pubblicato da Massimiliano Tomba, Bruno Bauer-Karl
Marx.
La questione ebraica, edito da Manifesto libri nel 2004. Non ho
resistito a mettermi in contatto prima telefonico poi per posta
elettronica con lui, che insegna a Padova. Così, dopo averlo
intervistato on line una prima volta per la Rivista storico-letteraria
«Pomezia Notizie», lo incontro di persona per la prima volta, nel suo
studio alla Facoltà di Scienze Politiche a Padova, in Via del Santo. Mi
accoglie in modo affabile con musica di J. S. Bach, che fa da sfondo
alla registrazione, e con una grande fotografia di Walter Benjamin
pensoso dietro alle sue spalle.
Ilia Pedrina Il contatto che ho intrapreso con
Shlomo Sand, lo
storico
di Tel Aviv che sta avendo molto successo, è stato abbastanza
problematico: alla presentazione del suo libro, ora tradotto in
italiano ed edito da Rizzoli, L’invenzione del popolo ebraico, al
Caffé
Galla di Vicenza il 24 Gennaio 2011, ho portato Bruno Bauer-Karl
Marx:
La questione ebraica (Manifestolibri, 2004), che hai curato e
tradotto. Qual è il rapporto tra popolo ebraico come
predecessore, come precedente rispetto al popolo cristiano, e come
conseguente secondo Bruno Bauer? Pochi conoscono Bauer e tu ci hai
lavorato sodo, tanto che io ho anche quest’altro tuo libro, Crisi e
Critica in Bruno Bauer. Il principio di esclusione come fondamento del
politico (Bibliopolis, 2000). Come portare Bauer tra noi con quel
processo metodologico che tu hai utilizzato in Strati di tempo.
Karl
Marx materialista storico (Jaka Book, 2010)? Perché qui c’è un
metodo
molto preciso che tu sei andato via via elaborando attraverso lo studio
della crisi e delle diverse epoche nella crisi.
Massimiliano Tomba. Bauer ha il merito di capire qual è il
funzionamento politico delle categorie teologiche e di tradurre le
categorie teologiche nelle categorie politiche. Per Bauer non solo la
religione ebraica, ma in realtà la religione in quanto tale è
strutturata intorno al principio di esclusione, nel senso che alla base
di un’idea di religione c’è l’idea della comunità religiosa. Il
problema è che la costituzione della comunità religiosa richiede una
dinamica di definizione della propria identità e questa identità è
possibile soltanto a partire da un elemento di esclusione. Ora Bauer ha
chiaro questo schema, che tra l’altro è uno schema che sarà ripreso nel
Novecento dal giurista nazista Carl Schmitt come modello
“amico/nemico”. Schmitt aveva nella propria biblioteca personale la
Questione ebraica di Bruno Bauer e non solo l’aveva, ma la sua
edizione
era tutta annotata a matita, letta e studiata e non semplicemente lì in
esposizione. Bauer analizza il principio di esclusione alla base della
comunità ebraica e utilizza lo stesso schema per definire poi la
comunità cristiana: Bauer sviluppa questo approccio, e siamo nel
1842-43, quando scrive La questione ebraica, e scrive
contemporaneamente anche l’altro testo Il Cristianesimo disvelato.
Qui
Bauer sostiene che il principio di esclusione diventa più radicale
nella religione cristiana che non nella religione ebraica, perché nel
dispiegamento dell’universalismo cristiano la contrapposizione diventa
tra cristiani e non-cristiani, con il problema ulteriore che a tutti
nel cristianesimo è offerto il dono della Grazia che, se non viene
accettato, se viene rifiutato, comporta la dannazione. A questo punto
la virulenza polemica della dannazione nei confronti di chi non accetta
la Grazia, il dono della fede cristiana, è decisamente più forte e
violento del principio di esclusione ebraico. Questo è il problema
politico. La cosa interessante è che Bauer utilizza lo stesso tipo di
lettura anche nell’analisi testuale della Bibbia e quindi riesce a dare
ragione di una serie di passaggi neotestamentari che inventano un
riferimento veterotestamentario testuale. Nel Vangelo di Matteo si può
leggere: «Voi avete udito che fu detto: ‘Ama il tuo prossimo e odia il
tuo nemico’». La frase «odia il tuo nemico» non trova riscontro
nell’Antico Testamento. Essa è, secondo Bauer, un’invenzione funzionale
alla costruzione di un parallelismo polemico tra l’Antico e il Nuovo
Testamento; prodotto di una riflessione posteriore, non di Gesù, ma del
pragmatismo letterario di colui che la Chiesa nominò Matteo e che,
avendo Luca sotto gli occhi, vi aveva potuto trovare il comandamento
dell’amore per i nemici, che lui integrò costruendo la contrapposizione
all’Antico Testamento. Questo è il modo in cui Bauer lavora negli anni
Quaranta. Ritornerà a lavorare sulle origini del cristianesimo negli
anni Settanta, ad esempio in Cristo e i Cesari, un libro
che
attirò l’interesse di Taubes.
I.P. Ecco: qui emerge il rapporto con i diritti umani.
Il lavoro
che
Bauer induce a mettere sotto osservazione è quello della innaturalezza
dei diritti umani, che poi tu rilevi molto fortemente in questo recente
lavoro Strati di tempo?
M.T. Lo scritto di Bauer sulla questione ebraica, un testo
da prendere
certamente con cautela, ha degli spunti geniali, altre volte è un po’
noioso, come quando, ad esempio, si perde nella storia delle ritualità.
È vero che quest’uomo aveva delle illuminazioni! È una cosa che gli
riconosce anche Schweitzer nella Storie della vita di Gesù,
quando dice
che tra la Vita di Gesù di Strauss e i primi scritti di Bauer è
come se
fossero passati almeno cinquant’anni con il lavoro di 6/7 generazioni
di studiosi in mezzo. Perché i problemi che Bauer pone, David Strauss
neanche riusciva ad immaginarseli. E sono problemi che vengono ripresi
dalla critica testuale e dal metodo storico formale del Novecento. Sui
diritti umani alcuni passaggi di Bauer sono più illuminanti della
critica a Bauer che Marx muove nella sua Questione Ebraica. In
molti
punti Marx, anche quando critica Bauer e accoglie elementi
feuerbachiani, continua ad essere baueriano.
Quanto Bauer abbia influenzato Marx è chiaro se si va a leggere la sua
Dissertazione su Democrito ed Epicuro. Ma questa influenza è
registrabile anche in seguito, come dimostrato da alcuni studi di Zvi
Rosen. Nella Dissertazione è però evidente oltre ogni misura.
La cosa
sorprendente è che ci sono ancora letture che cercano di dimostrare
l’approccio e l’interesse materialistico di Marx in relazione a
Democrito ed Epicuro. In realtà, non gliene poteva importare di meno.
Marx non ha questo problema. Marx ha il problema di capire come
funzionano le filosofie post-sistematiche, post-aristoteliche allora,
post-hegeliane adesso. Costruisce il parallelo per vedere come
funzionano le filosofie in un’epoca di crisi. È tutto
baueriano, quella
è l’idea di Bruno Bauer. Marx al tempo era amico intimo di Bauer, il
quale voleva affidargli un incarico all’Università: «..Sbrigati a
laurearti, perché così io ti chiamo…». Bauer stava preparando la
carriera accademica a Marx.
I.P. Ma dopo ci ha rimesso lui, Bruno Bauer è
stato allontanato!
M.T.
Innanzitutto
Bauer è stato allontanato da Berlino; quando scriveva
la Critica dei Sinottici lo trasferirono a Bonn. Poi qui gli
tolsero la
docenza.
I.P. Perché era infuocato questo testo?
M.T. Questo testo era parecchio
problematico: Bauer si era esposto già
molto. Contemporaneamente al ministro della cultura Aldstein, “amico”
della scuola hegeliana, succede, nel 1840, il ministro conservatore
Eichhorn, che ben esprimeva il cambiamento politico impresso alla
Prussia da Federico Guglielmo IV. Bauer viene spedito a Bonn, dove
insegna per un po’ di tempo, fino alla sospensione e all’allontanamento
dall’Università. A quel punto torna a Berlino, a Rixdorf per
l’esattezza, dove cerca fonti economiche di sostentamento alternative
rispetto a quelle garantitegli dal lavoro universitario.
I.P. Ha avuto problemi anche economici?
M.T. A Bonn, in seguito alla sospensione,
fu costretto a vendere la
biblioteca personale per mangiare. Quando torna su a Rixdorf fa il
contadino. La stalla di casa diventa il suo studio e comincia a
guadagnare dei soldi scrivendo per giornali, riviste, di tutto e di
più. Per buona parte la sua fonte di sostentamento era proprio questa
sua incredibile attività di collaboratore di giornali e riviste, dopo
il ’48 sempre più orientate in campo conservatore. Il passaggio dal
Bauer radicale, vicino alla cosiddetta “sinistra hegeliana”, al Bauer
conservatore è a parer mio senza soluzione di continuità: Bauer fu
sempre e solo un pensatore radicale della crisi. Così, per tornare alla
domanda di partenza, nella sua critica ai diritti umani, questi non
sono qualcosa che è radicato nella natura umana, non sono qualcosa che
ci tocca in sorte dalla tradizione, ma al contrario rappresentano la
rottura rispetto alla tradizione; rappresentano la rottura di assetti
consuetudinari, di diritti ricevuti e altro. I diritti umani vanno
compresi all’interno della sua concezione polemologica della politica:
sono la posta in gioco in un conflitto. Per Bauer ciò che conta di più,
più che l’assetto formale della dichiarazione, è l’elemento pratico dei
diritti umani. Funziona l’elemento di liberazione, l’elemento politico,
l’esperienza politica, nella rivendicazione e nella lotta per i diritti
umani, non tanto il catalogo. Bauer sapeva benissimo che un catalogo
dei diritti umani, così come viene concesso, può essere anche in ogni
momento ritirato, revocato.
I.P. Ritorniamo sul principio di esclusione
negli aspetti della
crisi
della democrazia, che tu hai analizzato ne La vera politica tra
Kant e
Benjamin; aspetti della democrazia che sono molto riduttivi
rispetto
all’idea di una capacità rappresentativa di essi per il cittadino.
Infatti è straordinaria la possibilità che tu metti in gioco di
acquisire capacità critica nel nostro tempo rispetto agli inadempimenti
reali e concreti, storici, dei partiti politici. Che cosa si può
sintetizzare di questo grande supporto che tu hai dato allo spirito
critico di ciascuno di noi attraverso quel testo, che parte
dall’analisi kantiana all’interno dell’estetica e arriva fino al
lavoro, per Benjamin, sul concetto di violenza, sul concetto di Gewalt?
M.T. Per me il senso di quel testo, che è
anche il senso delle cose
alle quali sto ancora lavorando, è indicato già nel sottotitolo, che
recita: Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia. Si
trattava
della questione della giustizia che a me stava a cuore. La mia idea è
che la nostra modernità, la concettualità politica moderna, Hobbes
prima di tutto, rende impensabile la questione della giustizia
attraverso il meccanismo rappresentativo: io non posso dire che una
legge è giusta se questa legge, fatta nel nome del popolo, esprime la
volontà del, e quindi la mia stessa volontà in quanto membro di esso. A
me interessava sottolineare che mettere in discussione la logica
politica che preclude l’idea di giustizia significa mettere in
discussione alcuni principi che noi consideriamo consolidati e
inviolabili, ad esempio l’idea di sovranità popolare: mettere in
discussione il principio di maggioranza perché con esso noi abbiamo non
l’espressione del più giusto, ma semplicemente la volontà o l’opinione
del più forte che domina sull’opinione di chi non ha i numeri per
dominare, il più numeroso. E assolutamente nulla ci garantisce della
giustezza dell’opinione del più forte o in questo caso del più
numeroso; non c’è nessun criterio che mi possa dire che la maggioranza
è giusta. Se assumessimo questo come criterio, “la maggioranza è
giusta”, allora dovremmo dire che quello che è accaduto nel 1933 in
Germania è giusto e da lì in avanti abbiamo un percorso legittimato
dalla volontà popolare che porta dall’ascesa di Hitler fino ai campi di
concentramento. O siamo disposti a riconoscere questo o altrimenti non
se ne viene fuori. Necessario è indagare i processi nel momento della
loro crisi e non nel corso normale della loro amministrazione. Questo è
ciò che cerco di insegnare ai miei studenti: bisogna cogliere i
concetti nel momento della crisi, nel momento di eccezione, perché
allora la vera questione, il vero problema della statualità moderna
emerge con forza. La costituzione formale, i paletti istituzionali e i
diritti fondamentali non sono in grado di proteggere il singolo dalle
torsioni autoritarie e dittatoriali dello Stato. E qui, come ci insegna
una tradizione che arriva fino a Kant, il diritto di resistenza risulta
logicamente impensabile nella statualità moderna. Per questo l’ultima
parte del libro si rivolge a Benjamin.
I.P. Allora si tratta di interrogare la
storia, quel continuum che
mai
si flette sul vinto per osservarlo, per rendersi conto che esiste e
soltanto procede con la logica del vincitore!
M.T. Il che significa avere anche la forza
di pensare due questioni:
la prima riguarda la giustizia contro il diritto; la seconda questione
è pensare un altro genere di violenza, che è il problema della Gewalt
divina, alla fine della sua Critica del concetto di violenza.
Quello
che è sicuramente difficile da capire in Benjamin è che lì c’è il
tentativo di pensare un altro genere di violenza rispetto alla violenza
statale e giuridica e quindi di pensare, al di là della semplice
contrapposizione violenza e non-violenza, perché l’assunzione della
non-violenza come ‘altro’ dalla violenza non è una soluzione, ma è
semplicemente il negativo della violenza. Un negativo che assume come
unica violenza quella statale e giuridica. Per Benjamin il problema è:
«Posso pensare un altro genere di violenza? È possibile un altro genere
di violenza?» Io credo che questo tipo di interrogazione sia
fondamentale. La sua pensabilità richiede lo spostamento in un
orizzonte che ha a che fare con il teologico, perché un altro genere di
violenza richiede un pensiero della giustizia e richiede un pensiero
della trascendenza. E sono termini che noi non possiamo pensare se
continuiamo a praticare e pensare la politica in un ordine di totale
immanenza.
I.P. Io qui ho aperto questa voragine di
riflessioni, certe volte
nelle e-mail ti ho accennato a questa capacità che ha avuto Benjamin di
lavorare sul pensiero ebraico, scollato completamente da Gershom
Scholem, per una sua strada, per un suo percorso che è quello di
individuare una storicità, una esperibilità del divino, della KWNH, che
sarebbe l’elemento che la collettività riesce a far esplodere quando
prega. Quindi ti è dato dalla collettività, ti è dato dalla presenza
della collettività, con te all’interno, perché se ci sei fuori non si
crea il cambiamento. Taubes lo tira fuori quando credo parli di una
festività, forse Purim, di un momento nel quale la collettività sembra
‘vibrare’ attraverso la preghiera. In La teologia politica di Paolo
di
Tarso dice «qui ci si può aspettare di tutto», perché l’insieme di
coloro che pregano è ciò che rappresenta nella storia la realtà del
Principio Divino.
Se Benjamin assume in profondità questo tipo di ebraicità, questo modo
particolare di ‘essere ebreo’, allora in quel caso lì lui, parlando di
violenza, parlando di alternativa alla violenza, ha presente
probabilmente un profilo teologico-politico di investigazione che non
ha avuto il tempo di sviluppare.
M.T.
Nelle tesi su Il
concetto di Storia, più precisamente nei
materiali per la preparazione delle tesi, Benjamin cita un passo dai
Vangeli apocrifi, vado a memoria, che dice «quando il Messia arriverà,
vi giudicherà per ciò che state facendo nel momento del Suo arrivo», e
un altro passo secondo me importante, che invece Benjamin riprende da
Kafka, è «il Messia non arriva l’ultimo giorno, ma arriva il giorno
dopo l’ultimo giorno». Io leggo questi due testi nel senso
dell’anticipazione: la seconda citazione, cioè che il Messia arriva
il
giorno dopo l’ultimo giorno, significa che il Messia non è il nostro
netturbino, non viene per ripulire un mondo che abbiamo lasciato come
un immondezzaio. Il compito nostro è mettere in ordine il mondo e solo
quando noi lo avremo fatto, arriverà il Messia, perché non avrà più
niente da fare. Cioè verrà perché finalmente il mondo è un mondo
adatto
al Messia. Sta a noi creare il mondo come mondo adatto alla venuta
del
Messia. Importante è questo senso di responsabilità etico-politica che
ciascuno di noi ha di rendere il mondo un mondo adatto alla venuta del
Messia. Questo fa il paio con la prima citazione, cioè che quando il
Messia arriverà, ci giudicherà per ciò che staremo facendo in quel
momento. Ecco il senso della anticipazione. Cioè il contrario
dell’agire strumentale dei rivoluzionari: “…intanto faccio i gulag e
metto a morte un po’ di oppositori e nemici, perché fra cinque anni o
fra centocinquant’anni ci sarà il regno della libertà…”! Al Messia non
interessa ciò che tu vorrai fare tra centocinquant’anni. Questo è il
rapporto mezzo-fine che Benjamin critica nella critica della violenza.
Non posso giustificare la mia prassi a partire dal fine che voglio
realizzare, ma la prassi deve avere in sé il criterio intrinseco di
giustezza. Ciò che io faccio in ogni momento deve essere
all’altezza
della venuta del Messia, come se il Messia arrivasse ora e ci
giudicasse. Ecco il senso dell’ “anticipazione delle relazioni”.
I.P. Ma allora ciò si può tradurre nella
specularità dell’altro
rispetto a me?
M.T. Sì, dell’altro rispetto a me e
nell’assunzione etica di
responsabilità nel rapporto con l’altro: io non posso fare ‘il
cavolaccio’ che voglio nemmeno nella mia sfera privata, perché se devo
costruire un mondo diverso, devo essere in grado di cambiare me stesso.
Ma ‘cambiare me stesso’, significa cambiare non solo la maschera
esterna, m significa completa corrispondenza e ri-definizione del
rapporto interno/esterno. In questo senso Benjamin diceva che dovremmo
vivere in ‘case di vetro’: l’esatto contrario dell’incubo totalitario.
Si tratta di ridefinire in modo rivoluzionario la crisi della
separazione tra pubblico e privato, dando un’altra possibilità a quel
rapporto ed evitando la sussunzione del privato nel pubblico,
sussunzione favorita proprio da chi si trincera nella privatezza.
I.P. Ma questo suo modo di pensare lo ha
allontanato dai suoi
amici?
Gli ha dato una distanza, un’incapacità di farsi capire; ha portato
delle conseguenze? Sto pensando alla corrispondenza con Adorno, a
quella “rigidità” che ho trovato in Adorno rispetto a lui, rispetto a
questi momenti che tu tenti fortemente di rilevare e che
risultano di grande intensità morale e di rigore.
M.T. Io credo che il prezzo da pagare per
tentare di fare quello che
Benjamin ha fatto, sia stato un prezzo enorme, spaventoso. Lo sguardo
diverso, altro, che Benjamin cerca di dare corrisponde a un tentativo
di completa, integrale modificazione di sé e di modificazione della
propria capacità di esperienza. Oserei dire quasi di modificazione
delle strutture trascendentali del soggetto. Benjamin sta lavorando ad
una modificazione della relazione interno-esterno attraverso la
distruzione dell’individuo moderno. Adorno scrive, in merito al “prezzo
da pagare”, che Benjamin parlava come fosse un morto. Probabilmente
questo era il prezzo da pagare per vedere ciò che gli altri non
riuscivano a vedere. Benjamin parlava come se la sua voce provenisse
dal mondo dei morti.
I.P.
Può essere che
la chiave qui sia il tentativo del “pensiero
abissale”? Io ci sto lavorando con grossi rischi dal punto di vista del
rapporto causa/effetto: lui voleva far esplodere questo rapporto?
M.T. Decisamente.
I.P. Allora il pensiero abissale sarebbe la
risposta a quella
KWNH, a
quell’elemento di incontro della collettività: in realtà questa
esplosione del rapporto causa/effetto ti consente la venuta, ma è
anticipazione essa stessa di fede, è una “fiducia” che tu devi avere
nella collettività. Quindi il suo isolamento gli pesava doppiamente.
Come tu dici, la sofferenza sua doveva essere caricata sulle spalle di
ciascuno e nella “preghiera” doveva essere sublimata.
M.T. Sì.
I.P. Ma come “esperienza”. Non la
trascendenza di quei momenti che
la
storia rendeva necessari per la venuta. Per cui, oltre a stracciare il
principio di causa/effetto, lui voleva andare al di là. Ho trovato nel
tuo La vera politica che Kant tenta di affrontare la cosa al
bordo
delle categorie, per dire: «ma io al di là… se vado al di là..» e ha
paura che questo pensiero possa fare a meno delle forze che lo
in- radicano sulla sicurezza e sulla certezza della parola che ha una
sua logica. E allora lì dice: «no, no… io questa cosa qui la lascio
perdere». Secondo me Benjamin è voluto andare lì, arrivare fino a
questa tensione e torsione del pensiero, come indicato in Kant.
M.T. Certo! Benjamin affronta Kant. Ma il
problema resta quello di
un’esperienza filosofica, psicologica, teologica e antropologica
contemporaneamente. Il problema riguarda l’oltrepassamento delle forme
pure kantiane dell’esperienza, spazio e tempo, che producono
necessariamente come principi d’ordine questa determinata realtà o
rappresentazione della realtà.
I.P. Come l’esperienza che passa tra le dita:
c’è questa
rappresentazione a spiegare l’amore in Immagini di città, quando
lui è
a Marsiglia. Evidentemente c’è tra gli interstizi un vuoto: tu, anche
nel testo su Marx, lavori su ciò che viene lasciato aperto, però non ha
confini. Ho trovato in te una forza rivoluzionaria che veramente
rassicura i giovani. Quando tu hai preso dentro il personale delle
scuole elementari i genitori e gli allievi nel momento di crisi, hai
detto «Apriamo l’accademia a chi ha la formazione di base e quindi
prendiamo dentro tutti» e tu nel 2008 hai fatto questo, per cui già sei
preparato a lavorare su piani non consueti. Vuoi darmi allora qualcosa
dell’esperienza di Londra?
M.T. Stavo facendo un ciclo di Seminari
sulle Tesi sul concetto
di storia di Benjamin e al terzo incontro c’era la manifestazione,
quando i giovani, gli studenti hanno occupato la casa dei Tories, a
Novembre. Beh, insomma ci fu questa coincidenza.
I.P.
Per che
struttura, per quale istituzione l’hai fatto?
M.T.
L’abbiamo fatto
per degli studenti di un Master di un’università
di
Londra che si chiama ‘Goldsmiths University’ e i miei studenti erano
gli studenti che erano alle manifestazioni e quindi c’è stato un
momento in cui insieme a Benjamin abbiamo discusso anche di queste
cose. È stata un’esperienza positiva sotto diversi aspetti, e
innanzitutto perché mi ha permesso di ripensare le tesi di Benjamin.
Dovevo fare chiarezza a me stesso, e questo per un motivo molto
semplice, perché il mio inglese è di basso livello e ciò significa che
ho dovuto cercare di tradurre le mie conoscenze di Benjamin, il ‘mio’
Benjamin, in una lingua semplice, che gli studenti potevano capire per
il livello comunicativo al quale io potevo arrivare. Questo è stato
utile per me perché mi ha costretto a ripensare e a chiedermi se avevo
realmente capito alcune cose.
I.P. Quindi un lavoro di selezione, di
ripulitura?
M.T. Sì, e poi l’altro
aspetto interessante è che appunto quelli erano
gli studenti attivi in queste manifestazioni e quindi avevano capito,
intuivano che c’era in Benjamin qualcosa che poteva servire loro: «Ma
qui c’è un Benjamin politico molto forte!» e dal momento che loro
avevano orecchiato, nel migliore dei casi, semplicemente il Benjamin
dell’Opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica, o
il
Benjamin estetizzante, che è quello normalmente diffuso nella cultura
anglosassone, scoprire il Benjamin politico è stato un fatto
interessante, positivo. Un altro aspetto è quello che riguarda la
formazione. Lì ho capito un po’ dove probabilmente noi andremo a finire
per quanto riguarda i nostri percorsi formativi. Un collega inglese mi
disse che ciò che viene rilasciato come titolo universitario è ormai
una sorta di “certificato di sana e robusta costituzione”, dove viene
certificato che lo studente è in grado di scrivere il proprio nome e di
presentarsi ad un appello se chiamato, il che vuol dire che sono idonei
a lavorare. Per quale lavoro? Per quello che capita. Questo è triste,
ma questo sta diventando la nostra formazione superiore. Noi stiamo
dando pacchetti di informazioni agli studenti che sono completamente
inutili e servono semplicemente a mettere in testa a questi studenti
che il libretto di istruzioni che noi diamo è inutile; perché i nostri
corsi sono ‘libretti di istruzioni’ che saranno assimilati e gettati
via in tempo rapidissimo, in base alle esigenze del mercato e delle
offerte di lavoro, Dietro all’altisonante slogan dell’imparare ad
imparare, in realtà c’è il vuoto totale: “imparare ad imparare”
significa che tu non devi imparare niente, se non un ‘habitus’ che è
quello di imparare delle istruzioni che dimenticherai nel giro di
qualche anno perché dovrai impararne delle altre. Quello che noi
abbiamo chiamato “sapere” fino al secolo XX, non ha quasi più senso,
sta diventando “informazione” e “pacchetti di informazione”: questo è
il lato negativo. Bisogna avere la forza e il coraggio di cogliere
anche la possibilità positiva.
I.P. Ma ci vuole tanto coraggio, un coraggio
incredibile. Tu hai
visto
nel bisogno dei ragazzi di mettere in pratica ciò che è “lezione” quasi
un bisogno di storia; il bisogno di storicizzarsi all’interno anche di
una rivoluzione, di una evoluzione. Questo è un loro diritto: se non
c’è posto di lavoro, che almeno ci sia posto per l’azione, un’azione
comunque essa sia, perché se lo studio non riporta ad un sapere che sia
spendibile, allora sarà l’azione a portarmi. Dove? Ecco, azione e
rivoluzione. Così arriviamo ora a Strati di tempo. Karl Marx
materialista storico, il tuo recentissimo lavoro, edito da Jaca Book
nella collana Di fronte e attraverso: qual è stato il tuo incontro con
Karl Marx?
M.T. K. Marx ha accompagnato in modo
talvolta evidente, altre volte
meno, l’intera mia formazione. Io ho iniziato a leggere e a studiare
Marx a 16 anni. Cominciavo a prendere appunti, a scrivere, poi lo
riprendevo. Ad un certo punto avevo iniziato a scrivere qualche piccolo
articolo su Marx e alcune cose sembravano interessare, allora mi son
detto che forse era arrivato il momento di mettere assieme tutta una
serie di idee e provare però a far saltare fuori un Marx un po’
anomalo. Non mi interessava fondamentalmente dire quello che Marx
aveva detto, mi interessava usare Marx anche contro Marx, se era
necessario. Avevo ben chiaro tutto ciò che non volevo fare. Per
me era abbastanza chiaro innanzitutto non considerare Marx una sorta di
idolo. Non ideologizzare Marx. Non era nemmeno il Marx self-service
dove si entra e si prende ciò che si vuole: La mia idea era di prendere
tutte le portate, incluse quelle che ci piacciono di meno. Su questo
punto polemizzai con amici e colleghi, in particolare riguardo ai
Grundrisse. La mia idea è: se c’è un punto che io non condivido,
ad
esempio la filosofia della storia dei Grundrisse, dal mio punto
di
vista questo inficia l’intera costruzione dei Grundrisse.
I.P. Ecco, si tratta proprio di metodo. Tu
apri il testo parlando
del punto di vista, del punto di osservazione che può modificare la
capacità di leggere un testo: ciò è preziosissimo!
M.T. A me interessano le ragioni che
spingono Marx ad abbandonare
l’impianto dei Grundrisse. Quando inizia a scrivere Il
Capitale, c’è in
Marx ancora “filosofia della storia”, nonostante alcuni suoi piani di
esposizione categoriale non abbiano più a che fare con la filosofia
della storia. Questo spostamento mi interessa. Negli anni Settanta,
riflettendo all’altezza della Comune Russa, Marx comincia a tirare una
serie di conseguenze e allora, forse nel modo più esplicito possibile,
ci dà la possibilità di pensare all’interno di un paradigma che non è
più del tipo di filosofia della storia. L’idea rivoluzionaria riguarda
una concezione della storia come serie di stratificazioni
geologiche
tutte presenti, primarie, secondarie… Pensa che l’accumulazione non
è il
percorso obbligato di tutte le civiltà; che i salti storici sono
possibili e che tutto questo deve essere inteso dentro stratificazioni
di temporalità diverse. Qui è possibile compiere un’operazione
diametralmente opposta a quella compiuta dal post-modernismo: se il
postmodernismo ha spazializzato il tempo, secondo me, oggi, è
possibile, con un approccio diametralmente diverso, temporalizzare lo
spazio. Era questa la prospettiva anche di Bloch. Credo che questo oggi
sia molto importante, per comprendere anche i conflitti fra temporalità
diverse. Un Padre gesuita, Padre Pirola, che è morto purtroppo
l’anno scorso, una persona che merita un enorme rispetto, in una
conversazione mi parlò della modernità attraverso l’immagine di una
serie di strati che frizionano uno sull’altro, e ad un certo punto mi
disse: «Beh, certo: chiaramente l’attrito di questi strati fa male, ed
è dove siamo noi» Quindi la modernità è questo scorrere di strati
diversi.
I.P.
Condizione non
indolore sicuramente.
M.T. E noi siamo scorticati dallo scorrere
di questi strati: ma un
compito di un pensiero all’altezza della possibilità del “novum”
e non della rincorsa delle “novità” deve essere un pensiero capace di
vedere in questi altri strati di tempo, che soltanto per un vizio
storicistico noi possiamo chiamare “residuali”, “passati”,
“premoderni”. In realtà sono contenute, sono incapsulate possibilità di
futuro. Si tratta di vedere come, nell’attrito fra temporalità diverse,
sia possibile dischiudere “futuro incapsulato”.
I.P. Ciò rappresenta la sua intuizione della
‘Jetztzeit’!
M.T. Sì, la ‘Jetztzeit’ di
Benjamin, dove poi la nostra
chiacchierata
continuamente va, e cioè al pensiero ebraico, è in realtà il senso
delle cose che sto cercando di fare e pensare. Da questo punto di vista
– un autore non dovrebbe dire una cosa del genere di un libro che ha
appena pubblicato – il libro su Marx è per me un libro di transizione.
I.P. In molti punti si sente una torsione
forte che viene sospesa
senza
essere interrotta.
M.T. È come se io avessi dovuto mettere
insieme tutta una serie di
cose: questo è quello che io posso tirare fuori da Marx in questo
momento, lo metto in chiaro per me e per gli altri, però è il punto di
partenza. Non per continuare a lavorare di bisturi sulla pagina del
Capitale. Da qui bisogna andare in un’altra direzione e per me
l’altra
direzione è un po’ quella di cui ti ho parlato. Bisogna saper scorgere
“la piccola porta attraverso la quale in ogni secondo può entrare il
Messia”. Comincio a pensare che la piccola porta attraverso la quale in
ogni secondo può entrare il Messia riguarda l’anticipazione che posso
produrre in ogni momento! Ma l’anticipazione è possibile lavorando su
se stessi, sul cambiamento di sé. Cambiando se stessi si cambia la
modalità di relazione con l’altro e la nostra relazione è già
anticipazione rispetto agli eventi: è questo il piccolo spostamento
dell’ordine delle cose che può preannunciare la venuta del Messia. Ecco
ancora una volta il tema della sofferenza di Benjamin: quanto sono in
grado di lavorare su me stesso per cambiare e distruggere il soggetto
trascendentale e l’individuo, nel senso del concetto moderno, che io
sono, al fine di cambiare me e le modalità relazionali.
I.P. Io ho sentito subito che questo testo
era un passaggio verso
profondità che ti andranno a dare più soddisfazioni: su Benjamin ti
aspetto!
M.T. È così. Spero.
Si alza e si dirige verso la sua libreria, a lato della scrivania. Tira
fuori un piccolo libro rosso: Walter Benjamin, Per la critica della
violenza, testo tedesco a fronte, a cura di Massimiliano Tomba, ed.
Alegre, 2010. Lo apre e vi scrive una dedica. La sua speranza era già
stata anticipata.
[7 ottobre 2011]
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