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Intellettuali e vittime. Rappresentazioni umanitarie e crisi della
pietà
Intellettuali
e vittime. Rappresentazioni umanitarie e crisi della pietà
Roberto Talamo
Devono dunque essere, allo stesso tempo, ipersingolarizzati tramite
l’accumulazione dei dettagli di sofferenza e
sottoqualificati: è lui, ma potrebbe essere chiunque altro;
è quel bambino che ci strappa le lacrime, ma qualunque altro
bambino andrebbe altrettanto bene al caso. Per ciascuno degli infelici
convocati, si accalca una folla di sostituti5.
Nella topica della denuncia l’attenzione dello spettatore non
si sofferma sull’infelice. Si sposta dal posto
dell’infelice che suscita la pietà a quello del
persecutore che viene accusato. È innanzi tutto verso il
persecutore che si orienta l’indignazione9.
Bertolt Brecht
I quadri, qualora durino, durano soltanto in quanto testimonianza
dell’arte di colui che li ha dipinti. Nel caso della
fotografia invece avviene qualcosa di nuovo e di singolare: nella
pescivendola di New Haven che guarda a terra con un pudore
così indolente, così seducente, resta qualche
cosa che non si risolve nella testimonianza dell’arte del
fotografo Hill, qualcosa che non può venir messo a tacere e
che inequivocabilmente esige il nome di colei che lì ha
vissuto, che anche nell’effigie è ancora reale e
che non potrà mai risolversi totalmente in arte12.
La foto sottintende sempre un elemento di crudeltà e di
distacco, è insomma uno dei modi più sicuri per
far sì che l’altro sia «altro»
[…]. Fra il gruppo di contadini o di ragazzi che si mettono
in “posa” o magari sull’attenti per farsi
fotografare e il foto-reporter che li vuole
“naturali”, l’incivile è
quest’ultimo. Quelli vogliono essere se stessi, e lui li
vuole interpretare, ridurre a paesaggio, a impressione, a natura morta13.
[…] Ma per noi, per
Non ci si deve vergognare di essere un
«intellettuale», come il Socrate di
Valéry in Eupalinos, votato al rimpianto
di non aver fatto
nulla con le sue mani. Credo nell’efficacia della
riflessione, perché la grandezza dell’uomo sta
nella dialettica del lavoro e della parola: il dire e il fare, il
significare e l’agire sono troppo mischiati perché
un’opposizione durevole e profonda possa essere istituita tra
«théoria» e
«praxis». La parola è
il mio regno e non
ne ho per nulla vergogna; o piuttosto ne ho vergogna nella misura in
cui la mia parola è partecipe della colpevolezza di una
società ingiusta che sfrutta il lavoro18.
La vergogna d’essere uomo […] la proviamo
[…] anche in condizioni insignificanti, di fronte alla
bassezza e alla volgarità dell’esistenza che
pervadono le democrazie, di fronte alla propagazione di questi modi di
esistenza e di pensiero-per-il-mercato, di fronte ai valori, agli
ideali e alle opinioni della nostra epoca […]. Noi non siamo
responsabili delle vittime, ma di fronte alle vittime19.
Il miglior correttivo […] consiste nell’immaginare
la persona di cui si sta parlando, in questo caso la persona sulla cui
testa cadono le bombe, mentre legge le tue parole in tua presenza20.
1. Premessa
Nel gennaio del 1898, scienziati, uomini politici, scrittori, artisti,
filosofi, avvocati, architetti, ingegneri, uomini e donne dalle
occupazioni e posizioni sociali estremamente diverse tra loro, che non
avrebbero avuto molte occasioni di cooperare nel corso delle rispettive
attività professionali, si riunirono intorno al nome di
intellettuali, firmando un manifesto in favore di
una
“vittima”, Alfred Dreyfus1.
L’autocoscienza degli intellettuali nel moderno ha il suo
atto di nascita simbolico nella comune difesa di un innocente
condannato ingiustamente.
Oggi, al contrario, mentre è in atto una trasformazione
radicale delle relazioni tra vittime e società, tanto da
poter parlare di un ambiguo «ordine mondiale della
compassione»2, davanti a una
moltiplicazione delle vittime,
dovuta anche alla neutralizzazione politica di queste (non
più “oppressi”,
“proletari”, “colonizzati”, ma
“pure” vittime), i modelli di rappresentazione
intellettuale sembrano incapaci di competere con le forme di
descrizione e “appropriazione” della sofferenza
messe in atto, in un intreccio non sempre facile da sciogliere, da
governi, media e Ong.
Si cercherà di mostrare come la rappresentazione umanitaria
abbia sostituito quella intellettuale appropriandosi dei due modelli
tradizionali di rappresentazione dei “dannati della
terra”: parlare in nome o parlare in
favore delle vittime. In
entrambe le disposizioni, che l’umanitario assume in
sé, c’è il rischio di negare
sostanzialmente l’identità del rappresentato.
Il bisogno di riconoscimento delle vittime, non soltanto nel ruolo di
“pura” vittima, ma come identità e
biografia reale, può essere attinto da un terzo modello di
rappresentazione intellettuale, che proverò qui a
formalizzare attraverso un percorso in un complesso arcipelago fatto di
testi poetici, sociologici e filosofici. Partendo da
un’enunciazione poetica di un io lirico, contenuta in una
poesia di Franco Fortini, cercherò di costruire una
variazione di scala che permetta di pensare alcuni aspetti generali
della figura dell’intellettuale nel presente.
2. La rappresentazione
umanitaria: paradigma del dubbio e crisi della
pietà
L’attuale dispositivo umanitario di rappresentazione delle
vittime è stato analizzato e messo in questione ponendo al
centro dell’interrogazione la categoria del dubbio:
«siamo certi di quello che vediamo quando guardiamo una
vittima?»3. Parlare oggi di
rappresentazione delle vittime
comporta infatti una riflessione su una realtà commista di
rivelazione delle vittime e insieme di denuncia di una propaganda
mediatica che, strumentalizzandole, le occulta. L’umanitario
gestisce la visibilità e insieme la leggibilità
della miseria: per entrare nella prospettiva umanitaria, per accedere
allo statuto di vittima, l’essere umano deve essere
spogliato, del tutto o in parte, della sua biografia e di precisi
riferimenti socio-culturali e politici, attraverso un ambiguo
«riconoscimento stigmatizzante»4,
un riconoscimento
che poggia sui codici culturali di coloro ai quali sono destinate
queste rappresentazioni. Secondo Boltanski, i singoli casi devono
diventare oggetto di un trattamento paradossale. Da una parte si deve
farne risaltare la singolarità, in modo da dare corpo alla
sofferenza, dall’altro, per accedere al discorso umanitario,
i soggetti devono perdere realtà, identità e
biografia, per trasformarsi in “pure” vittime:
La “crisi della pietà” (Boltanski),
ingenerata da riflessioni di questo tipo, non può che
chiederci di sviluppare e di pensare di più un siffatto
“paradigma del dubbio”: siamo certi di quello che
vediamo quando guardiamo una vittima?
3. Rappresentazione
umanitaria e rappresentazione intellettuale
Abbiamo visto come la rappresentazione umanitaria delle vittime
sottragga identità ai suoi oggetti, nel momento in cui li
rende riconoscibili parlando a loro nome o in loro favore. La posizione
di chi parla in nome o in favore delle vittime non è una
“scoperta” dell’umanitario. Il meccanismo
di svelamento-leggibilità-appropriazione di chi soffre, la
pretesa di parlare in nome, cioè al posto, delle vittime
è l’atteggiamento dell’intellettuale
tradizionale, che si sente investito da un mandato
universale. Ma
l’intellettuale, «se pretende di essere il custode
dell’universale […] ricade nella vecchia illusione
della borghesia che si vuole classe universale»7.
La seconda declinazione dello stesso modello (parlare in favore delle
vittime) è invece l’atteggiamento tipico
dell’intellettuale engagé,
oltre a essere, come
abbiamo visto per l’affaire Dreyfus, la
più antica
forma di autocoscienza intellettuale nel moderno. Boltanski descrive
questo atteggiamento nei termini di una “topica della
denuncia”8. Chi osserva da
lontano un
infelice che soffre
può indignarsi: a partire dalla pietà il suo
sentimento impotente può trasformarsi in un’azione
attraverso l’arma della collera, che simula
l’impegno in atti. La collera, atto a distanza, non
può che attualizzarsi nella parola di accusa,
che
però non si rivolge e non si interessa più alla
vittima, ma al persecutore. Il problema principale di una topica della
denuncia non è l’identità della
vittima, ma il riconoscimento del persecutore da accusare:
4. Due poesie sul dubbio:
Brecht e Fortini, allegoria e figura
Oggetto di questo paragrafo, in apparenza una divagazione, in
realtà un tentativo di “soluzione
poetica” (Ricœur) di una difficoltà
teorica, saranno due testi letterari, che hanno come tema il dubbio:
Colui che dubita di Bertolt Brecht e Sonetto
dei sette cinesi di Franco
Fortini10. Condurremo un’analisi in
parallelo,
perché il Sonetto riprende esplicitamente il testo
brechtiano, ma ci soffermeremo soprattutto sulla differenza tra i due
componimenti, perché è in questa differenza che
è riposto un senso importante anche per il discorso che
stiamo conducendo. Riportiamo integralmente le due liriche:
Colui che dubita
Sempre, ogni volta che
ci pareva di aver trovato la risposta a un problema,
uno di noi scioglieva, sulla parete, il nastro dell'antico
rotolo cinese sì che svolgesse e
visibile apparisse l'Uomo Seduto che
5
tanto dubitava.
Io, ci diceva,
sono Colui che dubita. Dubito che
sia riuscito il lavoro che v'ha inghiottiti i giorni.
Che, quel che avete detto, se detto peggio valga
tuttavia
10
per qualcuno.
Che lo abbiate detto bene e che forse un po' troppo
vi siate, alla verità di quanto avete detto, affidati.
Che sia ambiguo: per ogni possibile errore
vostra sarebbe la colpa. Può anche essere troppo
univoco
15
e allontanar dalle cose la contraddizione; non è troppo
univoco?
Allora quel che dite è inutilizzabile. Le cose vostre sono
inanimate, allora.
Siete realmente nel corso degli eventi? Compresi con tutto
quel che diviene? Siete ancora in divenire, voi? Chi siete? A
chi
20
parlate? A chi serve quel che state dicendo?
E, fra parentesi:
vi lascia sobri? Si può leggerlo di mattina?
È anche congiunto al presente? Le tesi
davanti a voi enunciate son messe a profitto o almeno
con-
25
futate? Tutto
è documentabile?
Per esperienza? Di chi?
Ma prima di tutto
e sempre, e ancora prima d'ogni cosa: come si
agisce
30
se si crede a quel che dite? Prima di tutto: come si agisce?
Pensierosi noi si considerava con curiosità
l'uomo Turchino dubitare dal quadro, ci si guardava e
da capo si ricominciava.
Franco Fortini
Sonetto dei sette cinesi
Una volta il poeta di Augsburg ebbe a dire
che alla parete della stanza aveva appeso
l´Uomo Del Dubbio, una stampa cinese.
L´immagine chiedeva: come agire?
Ho una foto alla parete. Vent´anni
fa
5
nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi.
Guardano diffidenti o ironici o sospesi.
Sanno che non scrivo per loro. Io
so che non sono vissuti per me.
Eppure il loro dubbio qualche volta mi ha
chiesto
10
più candide parole o atti più credibili.
A loro chiedo aiuto perché siano visibili
contraddizioni e identità fra noi.
Se un senso esiste, è questo.
Elenchiamo due ulteriori analogie (significative per il fatto che il
traduttore del testo tedesco è lo stesso Fortini): il
«visibile» (C, 5) della prima poesia trova eco nel
«visibili» (S, 12) della seconda.
«Contraddizione» (C, 16) è ripetuto al
plurale: «contraddizioni» (S, 13).
Eppure, al di là di questi riferimenti, calchi e simmetrie,
saranno le differenze ad attirare maggiormente la nostra attenzione.
Per cogliere la distanza tra i due testi dovremo naturalmente
soffermarci principalmente sul secondo. Fortini, dopo la quartina
introduttiva, prende la parola, nel quinto verso, in prima persona:
«Ho una foto alla parete» (S, 5). Nella nuova
situazione (individuale, a differenza del «noi»
brechtiano: C, 3 e 32), ad un’opera pittorica (quadro o
stampa) si sostituisce una foto di viaggio11.
Per riflettere su questa
prima importante differenza, mi affido a una considerazione di Walter
Benjamin:
Il dubbio, che muove l’individuo a riconsiderare i propri
atti e le proprie parole, a domandarsi «come agire
?», non è soltanto la contraddizione a cui invita
a pensare l’immagine dipinta, ma la presenza reale, seppure a
distanza, in forma di foto, di esseri umani reali, «visibili
contraddizioni e identità fra noi» (S, 12-13). La
dimensione della parola e dell’azione responsabile davanti
all’altro, riconosciuto nella sua identità,
riportano l’io lirico, attraverso una variazione di scala, al
livello dei “destini generali” (per usare
un’altra espressione cara a Fortini): il piano del
«noi» (S, 13), che, come abbiamo visto, chiude la
serie pronominale subito prima dell’icastica conclusione:
«Se un senso esiste, è questo» (S, 14).
All’analisi semantica, per cogliere un ultimo importante
senso di questa apparente digressione nel campo poetico, affiancheremo
ora un’analisi retorica di un essenziale aspetto che
distingue i due componimenti. L’elemento retorico a cui
faccio riferimento è l’uso nelle due poesie di un
diverso tipo di allegoria14.
Il dipinto dell’Uomo Turchino di Brecht e la serie di domande
che pone a chi ricerca la risposta a un problema sono
un’allegoria tradizionale (o allegoria in verbis)
del
processo di verifica a cui ogni intellettuale, che voglia essere
“compreso nel corso degli eventi, con tutto quel che
diviene”, deve sottoporre le proprie acquisizioni. In questo
tipo di procedimento retorico, rappresentazione allegorica e
significato dell’allegoria possono autonomizzarsi e
svincolarsi uno dall’altro: la rappresentazione
può essere anche presa letteralmente oppure il significato,
una volta raggiunto e compreso, può sganciarsi dalla
rappresentazione e cancellarla del tutto, sovrapponendosi a essa.
Così, nella poesia di Brecht, possiamo anche dimenticarci
dell’Uomo seduto che tanto dubitava e ritenere invece la
rigorosa disciplina di autoverifica dei risultati raggiunti.
L’allegoria di Fortini è di natura diversa:
è quella che nel medioevo fu codificata come allegoria in
factis (o, come la definisce Auerbach, figura).
L’allegoria
in factis si distingue dall’allegoria in
verbis per il fatto
che, in essa, fatti, entità, persone reali e storici sono
interpretati come figura di altri fatti,
entità, persone
altrettanto storici e reali. Se per gli esempi medioevali di questo
procedimento retorico non possiamo che rimandare ai magnifici scritti
di Erich Auerbach15, come esempio moderno della
“reversibilità” integralmente storica di
questo genere di allegoria, si può citare un brano di
un’altra poesia di Fortini, in cui compare esplicitamente il
termine “figura”:
noi che poco da vivere ci resta,
che cosa sono l’Asia immensa, il tuono
dei popoli e i meravigliosi nomi
degli eventi, se non figure, simboli
dei desideri immutabili dolorosi ? Eppure
– si ascolti ancora – i desideri immutabili
dolorosi che mordono il cuore nei sonni
e del poco da vivere che resta
fanno strazio felice, che cosa sono
se non figure, simboli, voci,
dei popoli che furono e che in noi
sono fin d’ora ? […]16
5. Figure delle vittime:
agire davanti al dubbio
dell’immagine umanitaria
La stampa di Brecht e la fotografia di Fortini non rappresentano delle
vittime. Ma un moderno metodo figurale di considerare
l’identità catturata in un’immagine
nella sua realtà e identità fra noi
è
il centro della risposta che qui si vuol dare al dubbio che
l’immagine umanitaria produce nel presente.
Davanti all’ambiguità mediatica di
ipersingolarizzazione e sottoqualificazione della vittima (è
lui, ma potrebbe essere chiunque altro), di fronte al dubbio posto
dalle immagini della rappresentazione umanitaria, la soluzione
figurale, ricavata da Fortini, non vuol dire pretestuosa elucubrazione
letteraria e soggettiva, né mancanza di attenzione ai
fenomeni reali17. Essa lega, al contrario, in
maniera inscindibile la
responsabilità delle nostre parole e dei
nostri atti, in
quanto intellettuali, ai destini generali, al di
là di
qualsiasi sentimento di impotenza negli atti o di vergogna nel prendere
la parola.
Scrive Ricœur:
Parlare davanti alle vittime vuol dire affrontare i dubbi e la
complessa realtà (di denuncia e insieme di soppressione
delle identità) dell’immagine umanitaria
contemporanea. Gli intellettuali devono oggi saper trasformare queste
rappresentazioni in figure reali a partire dal
dubbio che generano.
Un’operazione che non cancella il dubbio, non
“purifica” l’immagine, ma fa lavorare
proficuamente, per il presente, il dubbio stesso.
note
1. Cfr. Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 32.
2. Cfr. C. Eliacheff – D. Soulez Larivière, Il tempo delle vittime, Ponte alle Grazie, Milano 2008, p. 172.
3. P. Mesnard, Attualità della vittima. La rappresentazione umanitaria della sofferenza, Ombre corte, Verona 2004. Questo libro sarà al centro della ricostruzione del problema nella prima parte di questo paragrafo.
4. Ivi, p. 94.
5. L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 18.
6. Su questa definizione in termini politici della vittima cfr. P. Ricœur, Certitudes et incertitudes de la révolution chinoise, in Id., Lectures I, Seuil, Paris 1991, pp. 334-335.
7. J. P. Sartre, Difesa dell’intellettuale, Teoria, Roma-Napoli 1992, pp. 88-89. Il volume raccoglie tre conferenze tenute da Sartre in Giappone nel 1965 e pubblicate per la prima volta in Francia nel 1972.
8. L. Boltanski, cit., pp. 91-120.
9. Ivi, pp. 102-103.
10. B. Brecht, Colui che dubita, in Id., Poesie e canzoni, Einaudi, Torino 1961, pp. 200-201 (la traduzione è dello stesso Fortini) e F. Fortini, Sonetto dei sette cinesi, in Id., Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, p. 1067. La poesia di Fortini è datata 1975. D’ora in avanti indicheremo con C la poesia di Brecht e con S quella di Fortini, seguite dai numeri dei versi.
11. Si tratta del viaggio realmente compiuto da Fortini in Cina vent’anni prima rispetto alla data di composizione del sonetto, a cui fa anche riferimento il «vent’anni fa» (S, 5).
12. W. Benjamin, Piccola storia della fotografia (1931), in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 20003, pp. 61-62.
13. F. Fortini, Asia Maggiore, Manifestolibri, Roma 20072, p. 133.
14. Per le distinzioni che faremo cfr. B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 20032, pp. 259-263.
15. In particolare E. Auerbach, Figura, in Id., Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 20075, pp. 176-226.
16. F. Fortini, Reversibilità, in Id., Poesie inedite, Einaudi, Torino 19972, p. 27. Non è questa purtroppo la sede per un’ulteriore discussione sull’importanza della figura nell’opera di Fortini. Si rimanda quindi al bel saggio di A. Reccia, Fortini e Auerbach. Tra simbolo e allegoria: la figura come metodo, in a c. di R. Castellana, La rappresentazione della realtà. Studi su Erich Auerbach, Artemide, Roma 2009, pp. 197-205. Per l’interpretazione di Reversibilità: G. Mazzoni, Forma e solitudine, Marcos y Marcos, Milano 2002, pp. 205-215; R. Luperini, Il futuro di Fortini, Manni, Lecce 2007, pp. 86-88. Dello stesso Fortini, si veda anche: F. Fortini, Un decennio di postmoderno, in Id., Extrema ratio, Garzanti, Milano 1990, pp. 83-87.
17. Cfr. E. Masi, Postfazione , in F. Fortini, Asia Maggiore, cit., pp. 259-268.
18.
P. Ricœur, Storia e verità,
Marco editore, Cosenza
1991, p. IX. Ho rivisto in alcuni punti la traduzione.
19. G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia ?, Einaudi, Torino 1996, p. 101.
20. E. W. Said, Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, il Saggiatore, Milano 2007, p. 163.
21. Cfr. E. Renault, Mépris social. Ethique et politique de la reconnaissance, Passant, Bègles 20042 .
[4 gennaio
2011]
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