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Intellettuali e vittime. Rappresentazioni umanitarie e crisi della pietà

Roberto Talamo

Occorrono degli intellettuali per creare la teoria del sistema,
insegnarla e giustificarla agli stessi occhi delle vittime
PAUL RICŒUR
  



1. Premessa

Nel gennaio del 1898, scienziati, uomini politici, scrittori, artisti, filosofi, avvocati, architetti, ingegneri, uomini e donne dalle occupazioni e posizioni sociali estremamente diverse tra loro, che non avrebbero avuto molte occasioni di cooperare nel corso delle rispettive attività professionali, si riunirono intorno al nome di intellettuali, firmando un manifesto in favore di una “vittima”, Alfred Dreyfus1. L’autocoscienza degli intellettuali nel moderno ha il suo atto di nascita simbolico nella comune difesa di un innocente condannato ingiustamente.
Oggi, al contrario, mentre è in atto una trasformazione radicale delle relazioni tra vittime e società, tanto da poter parlare di un ambiguo «ordine mondiale della compassione»2, davanti a una moltiplicazione delle vittime, dovuta anche alla neutralizzazione politica di queste (non più “oppressi”, “proletari”, “colonizzati”, ma “pure” vittime), i modelli di rappresentazione intellettuale sembrano incapaci di competere con le forme di descrizione e “appropriazione” della sofferenza messe in atto, in un intreccio non sempre facile da sciogliere, da governi, media e Ong.
Si cercherà di mostrare come la rappresentazione umanitaria abbia sostituito quella intellettuale appropriandosi dei due modelli tradizionali di rappresentazione dei “dannati della terra”: parlare in nome o parlare in favore delle vittime. In entrambe le disposizioni, che l’umanitario assume in sé, c’è il rischio di negare sostanzialmente l’identità del rappresentato.
Il bisogno di riconoscimento delle vittime, non soltanto nel ruolo di “pura” vittima, ma come identità e biografia reale, può essere attinto da un terzo modello di rappresentazione intellettuale, che proverò qui a formalizzare attraverso un percorso in un complesso arcipelago fatto di testi poetici, sociologici e filosofici. Partendo da un’enunciazione poetica di un io lirico, contenuta in una poesia di Franco Fortini, cercherò di costruire una variazione di scala che permetta di pensare alcuni aspetti generali della figura dell’intellettuale nel presente.


2. La rappresentazione umanitaria: paradigma del dubbio e crisi della pietà

L’attuale dispositivo umanitario di rappresentazione delle vittime è stato analizzato e messo in questione ponendo al centro dell’interrogazione la categoria del dubbio: «siamo certi di quello che vediamo quando guardiamo una vittima?»3. Parlare oggi di rappresentazione delle vittime comporta infatti una riflessione su una realtà commista di rivelazione delle vittime e insieme di denuncia di una propaganda mediatica che, strumentalizzandole, le occulta. L’umanitario gestisce la visibilità e insieme la leggibilità della miseria: per entrare nella prospettiva umanitaria, per accedere allo statuto di vittima, l’essere umano deve essere spogliato, del tutto o in parte, della sua biografia e di precisi riferimenti socio-culturali e politici, attraverso un ambiguo «riconoscimento stigmatizzante»4, un riconoscimento che poggia sui codici culturali di coloro ai quali sono destinate queste rappresentazioni. Secondo Boltanski, i singoli casi devono diventare oggetto di un trattamento paradossale. Da una parte si deve farne risaltare la singolarità, in modo da dare corpo alla sofferenza, dall’altro, per accedere al discorso umanitario, i soggetti devono perdere realtà, identità e biografia, per trasformarsi in “pure” vittime:

Devono dunque essere, allo stesso tempo, ipersingolarizzati tramite l’accumulazione dei dettagli di sofferenza e sottoqualificati: è lui, ma potrebbe essere chiunque altro; è quel bambino che ci strappa le lacrime, ma qualunque altro bambino andrebbe altrettanto bene al caso. Per ciascuno degli infelici convocati, si accalca una folla di sostituti5.

Per concludere questa rapida sintesi della riflessione contemporanea sul problema della rappresentazione umanitaria, si può affermare, con Mesnard, che, da un punto di vista politico, l’umanitario è un soggetto collettivo che prende la parola in nome o a favore delle vittime, definendole, in termini apolitici, come “deboli”, “esclusi”, “senza”. La vittima, in questo modo, è quindi vittima anche perché condannata a non veder riconosciuto nessuno statuto politico al proprio lamento6.
La “crisi della pietà” (Boltanski), ingenerata da riflessioni di questo tipo, non può che chiederci di sviluppare e di pensare di più un siffatto “paradigma del dubbio”: siamo certi di quello che vediamo quando guardiamo una vittima?


3. Rappresentazione umanitaria e rappresentazione intellettuale

Abbiamo visto come la rappresentazione umanitaria delle vittime sottragga identità ai suoi oggetti, nel momento in cui li rende riconoscibili parlando a loro nome o in loro favore. La posizione di chi parla in nome o in favore delle vittime non è una “scoperta” dell’umanitario. Il meccanismo di svelamento-leggibilità-appropriazione di chi soffre, la pretesa di parlare in nome, cioè al posto, delle vittime è l’atteggiamento dell’intellettuale tradizionale, che si sente investito da un mandato universale. Ma l’intellettuale, «se pretende di essere il custode dell’universale […] ricade nella vecchia illusione della borghesia che si vuole classe universale»7.
La seconda declinazione dello stesso modello (parlare in favore delle vittime) è invece l’atteggiamento tipico dell’intellettuale engagé, oltre a essere, come abbiamo visto per l’affaire Dreyfus, la più antica forma di autocoscienza intellettuale nel moderno. Boltanski descrive questo atteggiamento nei termini di una “topica della denuncia”8. Chi osserva da lontano un infelice che soffre può indignarsi: a partire dalla pietà il suo sentimento impotente può trasformarsi in un’azione attraverso l’arma della collera, che simula l’impegno in atti. La collera, atto a distanza, non può che attualizzarsi nella parola di accusa, che però non si rivolge e non si interessa più alla vittima, ma al persecutore. Il problema principale di una topica della denuncia non è l’identità della vittima, ma il riconoscimento del persecutore da accusare:

Nella topica della denuncia l’attenzione dello spettatore non si sofferma sull’infelice. Si sposta dal posto dell’infelice che suscita la pietà a quello del persecutore che viene accusato. È innanzi tutto verso il persecutore che si orienta l’indignazione9.

Nel momento in cui si riconosce una genesi di natura “intellettuale” ai modelli umanitari, non si tratta naturalmente di rivendicare per gli intellettuali dei paradigmi da ritenere “indebitamente” sottratti dall’umanitario. Tanto più che questi modelli sono responsabili di quel riconoscimento stigmatizzante di cui abbiamo parlato. Si deve, al contrario, cercare una diversa via nel rapporto tra intellettuali e vittime che tenga conto e parta da ciò che abbiamo definito come “paradigma del dubbio”.


4. Due poesie sul dubbio: Brecht e Fortini, allegoria e figura

Oggetto di questo paragrafo, in apparenza una divagazione, in realtà un tentativo di “soluzione poetica” (Ricœur) di una difficoltà teorica, saranno due testi letterari, che hanno come tema il dubbio: Colui che dubita di Bertolt Brecht e Sonetto dei sette cinesi di Franco Fortini10. Condurremo un’analisi in parallelo, perché il Sonetto riprende esplicitamente il testo brechtiano, ma ci soffermeremo soprattutto sulla differenza tra i due componimenti, perché è in questa differenza che è riposto un senso importante anche per il discorso che stiamo conducendo. Riportiamo integralmente le due liriche:

Bertolt Brecht
Colui che dubita

Sempre, ogni volta che
ci pareva di aver trovato la risposta a un problema,
uno di noi scioglieva, sulla parete, il nastro dell'antico
rotolo cinese sì che svolgesse e
visibile apparisse l'Uomo Seduto che                                                5
tanto dubitava.

Io, ci diceva,
sono Colui che dubita. Dubito che
sia riuscito il lavoro che v'ha inghiottiti i giorni.
Che, quel che avete detto, se detto peggio valga tuttavia                    10
                                         per qualcuno.
Che lo abbiate detto bene e che forse un po' troppo
vi siate, alla verità di quanto avete detto, affidati.
Che sia ambiguo: per ogni possibile errore
vostra sarebbe la colpa. Può anche essere troppo univoco                15
e allontanar dalle cose la contraddizione; non è troppo univoco?
Allora quel che dite è inutilizzabile. Le cose vostre sono
                                       inanimate, allora.
Siete realmente nel corso degli eventi? Compresi con tutto
quel che diviene? Siete ancora in divenire, voi? Chi siete? A chi            20
parlate? A chi serve quel che state dicendo?
E, fra parentesi:
vi lascia sobri? Si può leggerlo di mattina?
È anche congiunto al presente? Le tesi
davanti a voi enunciate son messe a profitto o almeno con-                25
                                          futate? Tutto
è documentabile?
Per esperienza? Di chi?
Ma prima di tutto
e sempre, e ancora prima d'ogni cosa: come si agisce                        30
se si crede a quel che dite? Prima di tutto: come si agisce?

Pensierosi noi si considerava con curiosità
l'uomo Turchino dubitare dal quadro, ci si guardava e
da capo si ricominciava.


Franco Fortini
Sonetto dei sette cinesi

Una volta il poeta di Augsburg ebbe a dire
che alla parete della stanza aveva appeso
l´Uomo Del Dubbio, una stampa cinese.
L´immagine chiedeva: come agire?

Ho una foto alla parete. Vent´anni fa                                5
nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi.
Guardano diffidenti o ironici o sospesi.
Sanno che non scrivo per loro. Io

so che non sono vissuti per me.
Eppure il loro dubbio qualche volta mi ha chiesto            10
più candide parole o atti più credibili.

A loro chiedo aiuto perché siano visibili
contraddizioni e identità fra noi.
Se un senso esiste, è questo.

È la prima quartina del Sonetto a congiungere in modo esplicito i due testi: Fortini cita espressamente autore («il poeta di Augsburg»: S, 1) e contenuto essenziale del testo brechtiano, indicando in modo quasi didascalico il suo riferimento. Il «nastro dell’antico rotolo cinese» (C, 3-4) e il «quadro» (C, 33) diventano «una stampa cinese» (S, 3) e «l’immagine» (S, 4). Le diverse espressioni come «L’Uomo Seduto che tanto dubitava» (C, 5-6), «Colui che dubita» (C, 8), «l’uomo Turchino» (C, 33) sono ricondotte al sintetico «l’Uomo del Dubbio» (S, 3). La principale domanda del testo di Brecht («come si agisce ?»: C, 31) diventa «come agire?» (S, 4).
Elenchiamo due ulteriori analogie (significative per il fatto che il traduttore del testo tedesco è lo stesso Fortini): il «visibile» (C, 5) della prima poesia trova eco nel «visibili» (S, 12) della seconda. «Contraddizione» (C, 16) è ripetuto al plurale: «contraddizioni» (S, 13).
Eppure, al di là di questi riferimenti, calchi e simmetrie, saranno le differenze ad attirare maggiormente la nostra attenzione. Per cogliere la distanza tra i due testi dovremo naturalmente soffermarci principalmente sul secondo. Fortini, dopo la quartina introduttiva, prende la parola, nel quinto verso, in prima persona: «Ho una foto alla parete» (S, 5). Nella nuova situazione (individuale, a differenza del «noi» brechtiano: C, 3 e 32), ad un’opera pittorica (quadro o stampa) si sostituisce una foto di viaggio11. Per riflettere su questa prima importante differenza, mi affido a una considerazione di Walter Benjamin:

I quadri, qualora durino, durano soltanto in quanto testimonianza dell’arte di colui che li ha dipinti. Nel caso della fotografia invece avviene qualcosa di nuovo e di singolare: nella pescivendola di New Haven che guarda a terra con un pudore così indolente, così seducente, resta qualche cosa che non si risolve nella testimonianza dell’arte del fotografo Hill, qualcosa che non può venir messo a tacere e che inequivocabilmente esige il nome di colei che lì ha vissuto, che anche nell’effigie è ancora reale e che non potrà mai risolversi totalmente in arte12.

La fotografia esige il nome, l’identità, la biografia di chi, pur in effigie, è ancora reale. Nel suo diario di viaggio in Cina, Asia Maggiore, Fortini si esprime in termini affini:

La foto sottintende sempre un elemento di crudeltà e di distacco, è insomma uno dei modi più sicuri per far sì che l’altro sia «altro» […]. Fra il gruppo di contadini o di ragazzi che si mettono in “posa” o magari sull’attenti per farsi fotografare e il foto-reporter che li vuole “naturali”, l’incivile è quest’ultimo. Quelli vogliono essere se stessi, e lui li vuole interpretare, ridurre a paesaggio, a impressione, a natura morta13.

La foto “naturale” (ovvero costruita per sembrare tale) è un gesto di violenza, dice Fortini, verso l’identità del soggetto che vuole affermarsi nella sua impossibilità a risolversi totalmente in arte o natura morta. Prima di giungere a delle conclusioni, che del resto si possono già intravedere, terminiamo la lettura del Sonetto. «Nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi» (S, 6): «mio» è un aggettivo che apre una lunga serie di pronomi personali in coppie oppositive. «Loro. Io» (S, 8), «me» (S, 9), «loro» e «mi» (S, 10), «loro» (S, 12), «noi» (S, 14: su quest’ultimo pronome torneremo a breve). La distanza, in questo modo segnalata, raggiunge gli accenti di una netta separazione nei versi: «Sanno che non scrivo per loro. Io / so che non sono vissuti per me» (S, 8-9). A questo massimo di formalizzazione della distanza tra l’io lirico e gli operai che guardarono nell’obiettivo e ora guardano dalla foto alla parete (cfr. S, 6-7), segue però una critica di questa stessa idea di separazione, fortemente segnalata dall’avversativa «eppure» (S, 10). È l’identità specifica, rivendicata dagli sguardi “in posa” degli operai, che li riavvicina al poeta: è il loro «dubbio» (S, 10), la loro diffidenza, ironia o sospensione interrogativa (cfr. S, 7) che chiedono a chi parla e agisce “da lontano” come parlare e come agire: «Eppure il loro dubbio qualche volta mi ha chiesto / più candide parole o atti più credibili» (S, 10-11).
Il dubbio, che muove l’individuo a riconsiderare i propri atti e le proprie parole, a domandarsi «come agire ?», non è soltanto la contraddizione a cui invita a pensare l’immagine dipinta, ma la presenza reale, seppure a distanza, in forma di foto, di esseri umani reali, «visibili contraddizioni e identità fra noi» (S, 12-13). La dimensione della parola e dell’azione responsabile davanti all’altro, riconosciuto nella sua identità, riportano l’io lirico, attraverso una variazione di scala, al livello dei “destini generali” (per usare un’altra espressione cara a Fortini): il piano del «noi» (S, 13), che, come abbiamo visto, chiude la serie pronominale subito prima dell’icastica conclusione: «Se un senso esiste, è questo» (S, 14).
All’analisi semantica, per cogliere un ultimo importante senso di questa apparente digressione nel campo poetico, affiancheremo ora un’analisi retorica di un essenziale aspetto che distingue i due componimenti. L’elemento retorico a cui faccio riferimento è l’uso nelle due poesie di un diverso tipo di allegoria14.
Il dipinto dell’Uomo Turchino di Brecht e la serie di domande che pone a chi ricerca la risposta a un problema sono un’allegoria tradizionale (o allegoria in verbis) del processo di verifica a cui ogni intellettuale, che voglia essere “compreso nel corso degli eventi, con tutto quel che diviene”, deve sottoporre le proprie acquisizioni. In questo tipo di procedimento retorico, rappresentazione allegorica e significato dell’allegoria possono autonomizzarsi e svincolarsi uno dall’altro: la rappresentazione può essere anche presa letteralmente oppure il significato, una volta raggiunto e compreso, può sganciarsi dalla rappresentazione e cancellarla del tutto, sovrapponendosi a essa. Così, nella poesia di Brecht, possiamo anche dimenticarci dell’Uomo seduto che tanto dubitava e ritenere invece la rigorosa disciplina di autoverifica dei risultati raggiunti.
L’allegoria di Fortini è di natura diversa: è quella che nel medioevo fu codificata come allegoria in factis (o, come la definisce Auerbach, figura). L’allegoria in factis si distingue dall’allegoria in verbis per il fatto che, in essa, fatti, entità, persone reali e storici sono interpretati come figura di altri fatti, entità, persone altrettanto storici e reali. Se per gli esempi medioevali di questo procedimento retorico non possiamo che rimandare ai magnifici scritti di Erich Auerbach15, come esempio moderno della “reversibilità” integralmente storica di questo genere di allegoria, si può citare un brano di un’altra poesia di Fortini, in cui compare esplicitamente il termine “figura”:

[…] Ma per noi, per
noi che poco da vivere ci resta,
che cosa sono l’Asia immensa, il tuono
dei popoli e i meravigliosi nomi
degli eventi, se non figure, simboli
dei desideri immutabili dolorosi ? Eppure
– si ascolti ancora – i desideri immutabili
dolorosi che mordono il cuore nei sonni
e del poco da vivere che resta
fanno strazio felice, che cosa sono
se non figure, simboli, voci,
dei popoli che furono e che in noi
sono fin d’ora ? […]16

Nell’immagine figurale moderna e laica (quella che si slega cioè dal figuralismo medievale di segno cristiano), il soggetto raffigurato resiste nella sua identità, storicità, concretezza biografica anche dopo aver comunicato il suo significato “per noi”, rivendica la sua identità: «identità fra noi».


5. Figure delle vittime: agire davanti al dubbio dell’immagine umanitaria

La stampa di Brecht e la fotografia di Fortini non rappresentano delle vittime. Ma un moderno metodo figurale di considerare l’identità catturata in un’immagine nella sua realtà e identità fra noi è il centro della risposta che qui si vuol dare al dubbio che l’immagine umanitaria produce nel presente.
Davanti all’ambiguità mediatica di ipersingolarizzazione e sottoqualificazione della vittima (è lui, ma potrebbe essere chiunque altro), di fronte al dubbio posto dalle immagini della rappresentazione umanitaria, la soluzione figurale, ricavata da Fortini, non vuol dire pretestuosa elucubrazione letteraria e soggettiva, né mancanza di attenzione ai fenomeni reali17. Essa lega, al contrario, in maniera inscindibile la responsabilità delle nostre parole e dei nostri atti, in quanto intellettuali, ai destini generali, al di là di qualsiasi sentimento di impotenza negli atti o di vergogna nel prendere la parola.
Scrive Ricœur:

Non ci si deve vergognare di essere un «intellettuale», come il Socrate di Valéry in Eupalinos, votato al rimpianto di non aver fatto nulla con le sue mani. Credo nell’efficacia della riflessione, perché la grandezza dell’uomo sta nella dialettica del lavoro e della parola: il dire e il fare, il significare e l’agire sono troppo mischiati perché un’opposizione durevole e profonda possa essere istituita tra «théoria» e «praxis». La parola è il mio regno e non ne ho per nulla vergogna; o piuttosto ne ho vergogna nella misura in cui la mia parola è partecipe della colpevolezza di una società ingiusta che sfrutta il lavoro18.

Anche secondo Deleuze e Guattari, il sentimento di vergogna è uno dei temi più potenti della riflessione contemporanea e l’intellettuale può uscirne pensandosi non come direttamente responsabile delle vittime, ma responsabile (come in figura, aggiungiamo noi) di fronte alle vittime:

La vergogna d’essere uomo […] la proviamo […] anche in condizioni insignificanti, di fronte alla bassezza e alla volgarità dell’esistenza che pervadono le democrazie, di fronte alla propagazione di questi modi di esistenza e di pensiero-per-il-mercato, di fronte ai valori, agli ideali e alle opinioni della nostra epoca […]. Noi non siamo responsabili delle vittime, ma di fronte alle vittime19.

Edward Said propone un analogo argomento come correttivo a un’altra “vergogna”, quella del discorso sulla guerra e sulla pace proposto dai media internazionali:

Il miglior correttivo […] consiste nell’immaginare la persona di cui si sta parlando, in questo caso la persona sulla cui testa cadono le bombe, mentre legge le tue parole in tua presenza20.

Davanti agli attuali fenomeni di depoliticizzazione scientifica e morale della politica21, all’intellettuale che si attardasse nei vecchi modelli di rappresentazione delle vittime non rimarrebbe che il ruolo, marginale e subalterno, dell’esperto di una scienza etica universale (colui che parla in nome delle vittime) o dell’ideologo moralizzatore (colui che parla in favore delle vittime). Ripoliticizzare, in termini figurali moderni, cioè in base al riconoscimento dell’identità e della biografia delle vittime e al significato per noi della storia e del presente delle vittime, ripoliticizzare la rappresentazione umanitaria è la sfida dell’intellettuale che, al di là di qualsiasi impotenza o vergogna, voglia prendere posizione, prendere la parola davanti alle vittime. Ripoliticizzare vorrà dire allora anche ristoricizzare il campo delle vittime, raccontare una storia nella quale si possa riconoscerle e, insieme, riconoscersi.
Parlare davanti alle vittime vuol dire affrontare i dubbi e la complessa realtà (di denuncia e insieme di soppressione delle identità) dell’immagine umanitaria contemporanea. Gli intellettuali devono oggi saper trasformare queste rappresentazioni in figure reali a partire dal dubbio che generano. Un’operazione che non cancella il dubbio, non “purifica” l’immagine, ma fa lavorare proficuamente, per il presente, il dubbio stesso.



note

1. Cfr. Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 32.

2. Cfr. C. Eliacheff – D. Soulez Larivière, Il tempo delle vittime, Ponte alle Grazie, Milano 2008, p. 172.

3. P. Mesnard, Attualità della vittima. La rappresentazione umanitaria della sofferenza, Ombre corte, Verona 2004. Questo libro sarà al centro della ricostruzione del problema nella prima parte di questo paragrafo.

4. Ivi, p. 94.

5. L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 18.

6. Su questa definizione in termini politici della vittima cfr. P. Ricœur, Certitudes et incertitudes de la révolution chinoise, in Id., Lectures I, Seuil, Paris 1991, pp. 334-335.

7. J. P. Sartre, Difesa dell’intellettuale, Teoria, Roma-Napoli 1992, pp. 88-89. Il volume raccoglie tre conferenze tenute da Sartre in Giappone nel 1965 e pubblicate per la prima volta in Francia nel 1972.

8. L. Boltanski, cit., pp. 91-120.

9. Ivi, pp. 102-103.

10. B. Brecht, Colui che dubita, in Id., Poesie e canzoni, Einaudi, Torino 1961, pp. 200-201 (la traduzione è dello stesso Fortini) e F. Fortini, Sonetto dei sette cinesi, in Id., Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, p. 1067. La poesia di Fortini è datata 1975. D’ora in avanti indicheremo con C la poesia di Brecht e con S quella di Fortini, seguite dai numeri dei versi. 

11.  Si tratta del viaggio realmente compiuto da Fortini in Cina vent’anni prima rispetto alla data di composizione del sonetto, a cui fa anche riferimento il «vent’anni fa» (S, 5).

12. W. Benjamin, Piccola storia della fotografia (1931), in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 20003, pp. 61-62.

13. F. Fortini, Asia Maggiore, Manifestolibri, Roma 20072, p. 133.

14. Per le distinzioni che faremo cfr. B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 20032, pp. 259-263.

15. In particolare E. Auerbach, Figura, in Id., Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 20075, pp. 176-226.

16. F. Fortini, Reversibilità, in Id., Poesie inedite, Einaudi, Torino 19972, p. 27. Non è questa purtroppo la sede per un’ulteriore discussione sull’importanza della figura nell’opera di Fortini. Si rimanda quindi al bel saggio di A. Reccia, Fortini e Auerbach. Tra simbolo e allegoria: la figura come metodo, in a c. di R. Castellana, La rappresentazione della realtà. Studi su Erich Auerbach, Artemide, Roma 2009, pp. 197-205. Per l’interpretazione di Reversibilità: G. Mazzoni, Forma e solitudine, Marcos y Marcos, Milano 2002, pp. 205-215; R. Luperini, Il futuro di Fortini, Manni, Lecce 2007, pp. 86-88. Dello stesso Fortini, si veda anche: F. Fortini, Un decennio di postmoderno, in Id., Extrema ratio, Garzanti, Milano 1990, pp. 83-87.

17. Cfr. E. Masi, Postfazione , in F. Fortini, Asia Maggiore, cit., pp. 259-268.

18. P. Ricœur, Storia e verità, Marco editore, Cosenza 1991, p. IX. Ho rivisto in alcuni punti la traduzione.

19. G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia ?, Einaudi, Torino 1996, p. 101.

20. E. W. Said, Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, il Saggiatore, Milano 2007, p. 163.

21. Cfr. E. Renault, Mépris social. Ethique et politique de la reconnaissance, Passant, Bègles 20042 .


   
    [4 gennaio 2011]

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