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Su Ceti medi senza futuro?  di Sergio Bologna. Note per una discussione

Maria Vittoria Tirinato*

Leggendo l’ultima raccolta di scritti di Sergio Bologna sul lavoro ho avuto la sensazione di trovarmi davanti ad una di quelle mappe che, nelle stazioni o nelle piazze delle città, aiutano i viaggiatori ad orientarsi. Se l’analisi della riorganizzazione capitalistica postfordista è la mappa della città, la descrizione del lavoro in Occidente sembra avere la funzione di quel prezioso punto rosso che dice ai viaggiatori: «voi siete qui». Come ogni mappa che si rispetti, anche questa contiene indicazioni su come muoversi in città: si tratta di un aspetto importante perché il paesaggio urbano è irriconoscibile anche solo rispetto a un decennio fa; molte sono le strade interrotte, i ponti crollati, le sopraelevate incompiute. Oltre ad indicare le linee “soppresse” o inefficienti (la critica ai sindacati e alla sinistra istituzionale è senza sconti) Bologna esamina anche nuove possibilità di movimento, affrontando questioni pratiche e teoriche di non poco rilievo.
La premessa decisiva è che la riorganizzazione postfordista, nell’ultimo trentennio, ha frantumato i luoghi della produzione per incrementare l’estrazione di plusvalore e neutralizzare il potenziale conflittuale che la fabbrica, nella figura dell’operaio massa, aveva espresso negli anni Sessanta e Settanta. Il soggetto sociale su cui si focalizza l’attenzione, in parziale continuità con le tesi del 1997,
¹ è quello dei lavoratori autonomi di seconda generazione. Non sono i classici architetti o avvocati ma tutte quelle figure, dall’autotrasportatore al giornalista freelance, dal consulente al grafico pubblicitario, che non sono dipendenti e nemmeno tutelate dagli Ordini professionali. Appartengono a questo grande insieme le Partite IVA, le “ditte individuali”, la tanto celebrata “microimprenditoria”: è questo, avverte l’autore statistiche alla mano, l’unico settore produttivo italiano veramente dinamico. Bologna include tra le nuove figure del lavoro anche i collaboratori coordinati, i lavoratori a progetto e in generale i titolari di contratti “atipici” (ma questo stesso aggettivo è giustamente messo in discussione) che prestano la loro forza lavoro – manuale ma soprattutto e sempre di più intellettuale – a enti pubblici o a privati.
Il merito fondamentale di questo libro consiste a mio parere nella demistificazione della retorica che impedisce di comprendere una parte importante dei rapporti di produzione oggi. Bologna smantella pezzo per pezzo l’ideologia bipartisan secondo cui questi lavoratori, per i quali spazi e tempi di lavoro spesso coincidono con quelli di vita e che sono privi di tutele sociali e previdenziali, vengono collocati nel campo simbolico del capitale come “piccoli imprenditori”. Il perno di questa operazione è un concetto fondamentale e molto semplice, ribadito più volte nel testo: se è vero che perché si dia impresa sono necessarie almeno tre figure (il capitale, il management e il lavoro) è facile comprendere che, quando questi ruoli sono incarnati in una sola persona, siamo in presenza di un’impresa almeno quanto lo siamo della santissima Trinità.
L’analisi si fonda su una pluralità di strumenti, dalle testimonianze raccolte da blog italiani, europei e statunitensi dedicati al lavoro autonomo/precario, ai siti internet di associazioni e giornalisti, alle ricerche prodotte da enti ufficiali, banche, istituti pubblici e privati. Le citazioni da scritti e saggi di esperti, economisti sociologi politologi, sono invece più rare. Questa scelta rimanda a una presa di posizione molto precisa: per comprendere il lavoro oggi, sembra suggerire l’autore, è molto più utile ascoltare le voci dei protagonisti, che le leggere disquisizioni accademiche lontane anni luce dalla realtà.
Bologna impiega come fonte anche la propria carriera professionale, dedicando pagine illuminanti sia alla narrazione della propria esperienza come consulente freelance nel settore della logistica, sia all’analisi di questo settore come nodo strategico e specola privilegiata del postfordismo.
Attraverso l’uso incrociato di queste fonti si organizza insomma un riposizionamento percettivo, grazie al quale si può guardare al lavoro con lenti simili a quelle che sole permettevano ai protagonisti di Essi vivono – eccezionale b-movie di John Carpenter, scritto e ambientato non a caso in epoca reaganiana – di accorgersi che il mondo è invaso dagli alieni, e di organizzarsi di conseguenza.
Il libro vede affiancati e organizzati in tre sezioni interventi di natura molto diversa, dal saggio all’articolo, dall’intervista alla prefazione o alla recensione. La scelta di questa composizione mi sembra legata in parte alla critica rivolta a tanta letteratura “ufficiale” sul lavoro, in parte alla stessa personalità intellettuale dell’autore. La sua educazione umanistica, le esperienze politiche e culturali degli anni Sessanta e Settanta, la professione e le attenzioni di oggi sono tutte compresenti nel testo, e tutte contribuiscono alla declinazione del tema-cornice, che è quello della democrazia (intesa, con Polànyi, non come sistema di governo ma come «forma ideale di vita», p. 7).
Per quanto ricca e affascinante, questa struttura rende in realtà complicata una disamina sistematica di tutti i temi affrontati. L’impostazione di fondo e il retroterra metodologico tendono a fare da collante, ma l’eterogeneità degli interventi non facilita la percezione della coerenza complessiva del discorso. Questo si avverte soprattutto sul versante pratico-politico, dove l’analisi sembra a tratti perdere di vista elementi a mio parere decisivi della stessa realtà che, per altri versi, rischiara. Vorrei dunque concentrarmi su questi passaggi, che mi paiono i più fecondi proprio perchè richiedono la collaborazione critica del lettore.
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Le osservazioni che seguono sono basate sui tre saggi più organici (L’undicesima tesi, I lavoratori della conoscenza dentro e fuori l’impresa, Il senso della coalizione), collocati nella sezione Postfordismo e dintorni, non a caso la più nutrita del libro.
Un primo punto critico riguarda l’analisi psico-sociale del lavoratore autonomo di seconda generazione, in particolare in tema di “libertà”. Sulla scorta delle testimonianze raccolte da internet e assumendo l’ottica di una parte del femminismo italiano, l’autore afferma che questi lavoratori, più o meno giovani e spesso donne, scelgono talvolta liberamente il lavoro autonomo «per difendere una propria autonomia e indipendenza di vita o per conciliare il lavoro conto terzi e il lavoro di cura» (pp. 31-32). A questo proposito, Bologna aggiunge che il «rifiuto del lavoro normato», così come si manifestò nel ’77, è una delle cause della riorganizzazione postfordista e dunque della «precarizzazione», e che per questo si dovrebbe dismettere ogni accento vittimista e guardare anche al lato positivo della situazione.
Ora, anche accogliendo il presupposto non scontato della libertà di simili scelte – le sottili coercizioni esercitate dal capitalismo sono reali quanto difficilmente misurabili – va in primo luogo considerato il fattore “durata”. Non occorre citare dati statistici per affermare che, alla lunga, il lavoro autonomo stanca ed aliena. Del resto è proprio questo uno dei presupposti dell’analisi: se, come nella maggior parte dei casi, le condizioni iniziali di incertezza materiale e psicologica permangono, se non esistono tutele che consentano di accettare più serenamente il rischio, se tutto resta precario per troppo tempo, anche il lavoro autonomo diventa un’insostenibile schiavitù. A questo punto, per quanto libera fosse stata in origine, il lavoratore tenderà a riconsiderare la propria scelta. Qui si presenta una delle incongruenze cui accennavo: rivendicare la libertà di scelta e la parziale indipendenza che questo tipo di lavoro concede significa in parte smussare la critica all’asservimento che lo sottende, cioè una delle premesse fondamentali del discorso. È vero che le testimonianze colte dalla rete e utilizzate in quest’ottica hanno un peso e una verità non trascurabili. Ma non si tratta pur sempre di narrazioni soggettive che, in quanto tali, sono in complesso rapporto con la realtà oggettiva cui rimandano?  
Dal punto di vista femminile c’è un altro dato da considerare. Se è vero che il lavoro autonomo può conciliarsi col lavoro di cura è altrettanto vero che, in alcuni casi, esso può rappresentare un impedimento non solo alla possibilità di stabilire relazioni durature, ma anche a quella di procreare. Le «mutazioni antropologiche» che, come si osserva giustamente, riguardano questi lavoratori, non sono ancora mutazioni genetiche: l’orologio biologico della donna, qualunque sia il lavoro che svolge, la conduce inesorabilmente verso un momento in cui diventare madre sarà più complicato, più rischioso o addirittura impossibile, mentre il permanere di condizioni materiali precarie tende a ritardare la scelta della maternità. Non si tratta di fare le «vittime», senza dubbio l’autodeterminazione e la tutela dei diritti della donna non è legata solo alla possibilità di fare figli, ma questo è un altro discorso. Oltre a considerare che il capitalismo valorizza – in senso marxiano – alcune funzioni femminili («oggi il lavoro delle donne […] è il lavoro tout court», p. 32) bisogna forse anche chiedersi quali funzioni, altrettanto femminili, esso tenda a reprimere.
Anche sotto il profilo ideologico e più immediatamente politico la rivendicazione di strategie di libertà individuali sembra in difficile coabitazione con la tensione verso un’identità collettiva. Anche qui, la pratica della narrazione soccorre ma fino a un certo punto. Siamo certi che la narrazione, oltre ad offrire materiale conoscitivo, abbia di per sé la capacità di convertire i vissuti in esperienza universale, in dinamica collettiva?
Infine e a margine vorrei aggiungere che, se l’ideologia liberale ha riassorbito e neutralizzato alcuni dei contenuti più dirompenti degli anni Settanta, trasformandoli nella schiavitù quotidiana di milioni di persone, questa mi pare più che altro una sconfitta storica, su cui ancora manca una riflessione complessiva (almeno dal punto di vista degli sconfitti).
L’analisi del lavoro postfordista, come si è accennato, riguarda anche i lavoratori della conoscenza. Nel testo si chiarisce che i lavoratori autonomi di seconda generazione possono essere lavoratori della conoscenza e viceversa, ma che le due categorie non sono completamente sovrapponibili. La realtà del knowledge work, dipendente o autonomo, è svelata con estrema chiarezza:

la figura del knowledge worker è indissolubilmente legata al computer portatile nella sua doppia funzione di strumento di elaborazione-comunicazione […] e di organo di una specifica organizzazione del lavoro, quella caratterizzata dall’ubiquità del posto di lavoro […]. Col portatile ti porti appresso il luogo di lavoro, ti sposti l’ufficio ovunque, cioè non ti stacchi mai dalla prestazione, sei perennemente produttivo, almeno finché sei sveglio. Ma è proprio questa libertà di scelta […] a condizionare la “schiavitù” del knowledge worker» (p. 97).
Scrostato dalla retorica della libertà da gerarchie e tempi prestabiliti, la condizione del lavoro intellettuale nell’impresa, dipendente o indipendente che sia, si presenta dunque in questi termini.
Il mito liberale e democratico del lavoratore della conoscenza sarebbe tuttavia alimentato da due connotati propri della sua attività: quello dell’«indiscriminata accessibilità al mercato» e quello dell’«indiscriminata accessibilità all’uso del computer, cioè della possibilità di accedere al linguaggio dei simboli senza educazione formale, con una semplice scolarità di base» (ibidem). Questo mito, secondo Bologna, «scricchiola» proprio se si riflette sul secondo elemento: non è vero che i lavoratori della conoscenza possono divenire tali senza un’elevata scolarizzazione, è vero invece che la maggior parte delle imprese assumono, nei posti di maggiore responsabilità, solo persone provenienti da università private e con percorsi di specializzazione costosissimi ed esclusivi, anche se non particolarmente meritevoli. La generale accessibilità al lavoro di conoscenza, dunque la profonda democraticità della società su di esso fondata, sarebbe quindi smentita, perchè solo una esigua minoranza selezionata per censo può permettersi di accedere a questo tipo di formazione. L’autore tematizza qui il rapporto pubblico/privato e s’interroga sull’adeguatezza dei sistemi formativi «rispetto ai bisogni delle imprese che si muovono in un mercato globale» (p. 135).
Bisogna considerare che, da una decina d’anni, i sistemi formativi europei tentano di riorganizzarsi proprio per rispondere alle «sfide» dell’economia della conoscenza, o meglio alle esigenze degli attori forti di questa economia, multinazionali in primis (a questo riguardo è utile leggere i documenti dell’U.E. sulla costruzione dello Spazio Europeo della Ricerca e sull’armonizzazione dei sistemi formativi dei paesi membri).
³ Se si analizzano strutture e tendenze del sistema, risulta chiaro che l’obiettivo essenziale è individualizzare i percorsi formativi – così come si individualizzano i rapporti di lavoro – ed educare da una parte alla logica di impresa, dall’altra allo specialismo più estremo. Venendo all’Italia, e fatte salve le nostre specificità, si può osservare che, con l’introduzione del 3+2 (riforma Berlinguer-Moratti), l’università di massa tende a sfornare individui ossessionati dal mito della produttività (quantità e ritmi degli esami sono il vero nocciolo della valutazione), incapaci di cogliere i nessi tra discipline e tra contenuti, privi di funzioni socio-intellettive “pericolose” quali la capacità di astrazione, l’esercizio critico, il senso di cooperazione. I percorsi post lauream, diversificati quanto costosi, servono a specializzare ulteriormente questi lavoratori per renderli più competitivi, o (come in Italia) a ritardarne l’immissione sul mercato. Come si vede, la questione della formazione oggi non investe solo i contenuti, la sua maggiore o minore accessibilità, la sua durata, ma la sua stessa architettura e il suo orientamento. Per queste e per altre ragioni che non è possibile elencare in questa sede, la risposta alla domanda dell’autore circa l’adeguatezza dei sistemi formativi rispetto alla knowledege economy è sostanzialmente affermativa. Ma è proprio questo il problema: i sistemi formativi postfordisti sono organizzati in modo da evitare che i lavoratori possano assumere una qualche consapevolezza di sé e attrezzarsi per la difesa dei propri diritti. In altre parole, per andare alla radice del problema, è necessario prendere atto che il tramonto dell’educazione formale da cui lo stesso Bologna proviene è diretta conseguenza della spinta ad adeguare i sistemi formativi a questi rapporti di produzione: non si tratta solo di «compensare il peso attribuito alle discipline tecnico-scientifiche riscoprendo il valore degli insegnamenti umanistici» (p. 135), o di chiedersi se le imprese possano farsi carico dei costi del lifelong learning. È necessario mettere in discussione il sistema formativo dalle fondamenta, in termini pratici e teorici, considerandolo oggi più che mai specchio e pietra angolare del sistema produttivo.
Un’ultima osservazione riguarda quelle che ho definito “indicazioni per muoversi”. Nel saggio Il senso della coalizione, Bologna sostiene che il web è «uno dei pochi terreni sui quali la condizione isolata, individualizzata della lavoratrice e del lavoratore nel postfordismo raggiunge una dimensione collettiva, un’espressione corale» (p. 11). Questo è senz’altro vero, ma mi pare si debba sottolineare la distinzione tra “espressione corale” e “dimensione collettiva”. Un conto è lo sfogo, la denuncia, la testimonianza, un conto è la consapevolezza che la propria condizione possa essere migliorata solo attraverso pratiche condivise, che mettano in difficoltà la controparte. Purtroppo siamo ben lontani da questo, anche nelle realtà di lavoratori precari che si dotano di una forma più o meno organizzata per raggiungere obiettivi sindacali. In questi ambiti, la comunicazione via internet è in genere uno strumento utile per confrontarsi su temi di analisi o programmi di intervento, e uno spazio per dar voce ai singoli precari. Spesso isolati nei loro stessi ambiti di lavoro, quasi sempre isolati nell’uso di internet, questi singoli trovano nel blog o nel sito di riferimento la possibilità di condividere le proprie opinioni, sensazioni, frustrazioni, persino quella di formulare proposte dettate dall’elaborazione personale di stimoli e notizie. Non è poco, ma il problema arriva quando si tratta di passare all’azione, di darsi una dimensione pubblica. È a questo punto che le reti fatte di individui, che non abbiano alle spalle e sotto i piedi una dimensione collettiva, rivelano la loro debolezza. Si potranno promuovere appelli, lettere aperte, class actions. Si potrà organizzare qualche bella manifestazione-evento, o tentare operazioni di lobbying. Ma è lo stesso Bologna ad avvertirci, ad esempio a proposito dei movimenti contro il CPE in Francia, che «mille siti non avrebbero potuto sortire gli effetti di una grande manifestazione nel centro di Parigi» e che «l’uso del web quindi non può sostituire la dimensione pubblica, visibile, della protesta […] ma la dimensione pubblica […] deve avere essa stessa certe caratteristiche, in primo luogo quella della continuità» (p. 21). La divaricazione tra queste considerazioni e quelle secondo cui sarebbe inutile «intestardirsi a voler innescare dinamiche di coalizione secondo i vecchi schemi e modelli del fordismo» (p. 15) mi sembra difficilmente sanabile.
Gli esempi di lotte di lavoratori precari e persino di autonomi di seconda generazione tuttavia non mancano. Bisogna tener conto anche del fatto che i lavoratori non sono sempre isolati: il call center è una linea produttiva a tutti gli effetti (e anche, certamente, un panopticon dotato di strumenti di controllo ben superiori a quelli dei vecchi capireparto) dove decine o centinaia di lavoratori svolgono le stesse mansioni; l’università e i luoghi dell’impiego pubblico vedono una concentrazione sempre maggiore di lavoratori “a contratto” o “a progetto”. Si può obiettare che gli autonomi, i freelance dell’industria dello spettacolo, le Partite IVA ecc. vivono una condizione diversa, più frammentaria: bene, al tempo stesso si può osservare, e Bologna l’ha fatto, che forme visibili di organizzazione e di lotta – anche grazie al web – questi lavoratori le hanno praticate con successo. I picchetti (pratica di lotta tradizionalmente operaia) degli sceneggiatori di Hollywood saranno stati tutt’altro che virtuali: per organizzarli, nemmeno un’assemblea?
Il problema fondamentale è quello del conflitto, e resta sostanzialmente aperto. La rete può aiutare, ma non basta; i sistemi formativi sono programmati in senso opposto. Come ho cercato di dimostrare, le pratiche di narrazione e le libertà individuali sono certamente necessarie, ma non sufficienti.
Uno dei nodi su cui ancora riflettere, a questo proposito, è quello della compresenza di fordismo e postfordismo sia in Occidente, con la sopravvivenza di «ampi segmenti di forza lavoro “garantita”» (p. 16), sia nei “Paesi terzi”, destinatari di delocalizzazioni e mittenti di forza lavoro ricattabile, anch’essa funzionale alla programmata «rottura dell’unità di classe» (ibidem). La costruzione di un’identità autonoma delle forme di lavoro postfordiste non può, a mio parare, prescindere da queste considerazioni.

Paradossalmente – ma non troppo – ho trovato l’indicazione politica più innovativa nella parte del libro dedicata alla storia dell’operaismo. Va detto che questa sezione, intitolata Operaismo e dintorni, si può anche leggere come una lunga postfazione in itinere al discorso sul lavoro oggi – come dire che la storia offre a chi li cerchi strumenti per leggere il presente, e immaginare un futuro. Qui, Bologna ci ricorda che «il problema del conflitto è in realtà il problema della “politica” tout court» (p. 242) e che chi sceglie di agire in questo campo, oggi come quaranta anni fa, è costretto a «produrre pensiero politico» oppure a produrre «ricerca come base di un pensiero politico» (ibidem). Pensare e agire oggi in termini di coalizione significa innanzitutto recuperare la funzione intellettuale, non come prerogativa di gruppi specializzati ma come «mente politica» (p. 236), collettiva e individuale, in ogni ambito di competenza. Di questi tempi, non è davvero poco.

 

*Precaria della ricerca all’Università di Siena. Collabora col Centro Studi Franco Fortini e fa parte del Gruppo Intrecci, che da tre anni produce ricerca e dibattito sul nesso capitale/lavoro/formazione. 


1. S. Bologna et al., Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia. Feltrinelli, Milano 1997.
2. Per una panoramica della discussione sul libro rimando alle recensioni di L. Cigarini, C. Marazzi, Klaus Neudlinger e altri, raccolte in un dossier in corso di pubblicazione per DeriveApprodi, e scaricabile alla pagina internet www.deriveapprodi.org.
3. Cfr. Documenti ufficiali dell’Unione Europea: http://ec.europa.eu/education/sitemap_it.html.

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