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Saluto agli amici riuniti a Poggibonsi

Sergio Bologna

Cari amici, sembra proprio una beffa che un’ora prima della partenza abbia saputo che m’ero beccato un malanno a seguito di questa dannata influenza che circola quest’anno. Mi dispiace e chiedo scusa a tutti voi, soprattutto agli amici che hanno voluto dimostrare tanta attenzione per i miei scritti. In particolare a Paolo Ferrero al quale volevo dire quanto volte ho pensato a lui mentre mandavo maledizioni a questo governo Prodi, che altro segno non ha lasciato nella storia che quello di averci riportato in tavola Berlusconi dopo che con le elezioni dell’aprile 2006 eravamo riusciti a rimandarlo in cucina. Ho pensato a te, Paolo, in questi termini: “O dei dell’Olimpo, fulminateli tutti questi Ministri, ma risparmiate Ferrero, inceneritemi soprattutto Padoa Schioppa – e pensare che ha frequentato a Trieste il mio stesso liceo! – Visco e… (qui vi risparmio la lista)”.
La presentazione di un libro può essere a volte un’occasione per creare un evento con esiti imprevisti, per mettere in moto dinamiche latenti. Completamente ignorata dai media – diversamente dal libro sul lavoro autonomo di seconda generazione cui questo si ricollega – la raccolta di saggi “Ceti medi senza futuro?” ha stimolato ambienti e pezzi di società che nel futuro avranno molto da dire sul fronte del lavoro. L’editore ha preparato una breve raccolta di interventi scritti in occasione delle presentazioni, un libretto da 2€ (due euro) che doveva essere qui stasera ma i tempi purtroppo sono slittati. Si apriva con un bellissimo testo di Lia Cigarini che comincia con queste lusinghiere parole (scusate l’immodestia della citazione ma è solo per tirarmi su di morale in un momento di depressione). Scrive dunque Lia: Quello che scrive del lavoro Sergio Bologna è quanto di più nuovo io abbia letto in questi anni”. E da qui inizia un discorso sulla cosiddetta “femminilizzazione del mercato del lavoro”. Non è una questione di numeri, secondo una visione riduttiva cui non si sottrae buona parte della sociologia. Cambia “il senso” del lavoro ed il modo in cui il lavoro parla, comunica con i suoi regolatori. E’ un bel salto di qualità.
Viene rimproverato, non solo ai circoli organizzati di donne ma a molti soggetti che se ne sono fatti promotori, che il metodo dell’ascolto sarebbe un escamotage per evitare il problema dell’insufficiente rappresentanza di ampi strati del lavoro oggi. In realtà il metodo dell’ascolto è una protesta contro l’inutile proliferare  di “osservatorii” e contro la dilagante abitudine a pensare che il discorso sul lavoro e dunque la sua regolazione sarebbero compito esclusivo e riservato di giuslavoristi, economisti e sociologi del lavoro, considerati gli unici in grado di sussurrare buoni consigli all’orecchio distratto dei politici, con i quali condividono la responsabilità dei miseri risultati delle politiche attive del lavoro che insieme hanno architettato.
Si parla di un “sistema Italia” che avrebbe realizzato il miracolo di aumentare l’occupazione malgrado un’economia in ristagno. Ma credo che solo nelle poche pagine del mio libro si pone il problema di “dove” è aumentata l’occupazione, non come ramo d’attività (anche le pentole sanno che è soprattutto in edilizia) ma in quale tipo di imprese – grandi, medie, piccole, micro, individuali – è avvenuta questa crescita. Di questo aumento dell’occupazione (sebbene ridimensionato rispetto agli entusiasmi iniziali) dobbiamo ringraziare i signori Profumo, Montezemolo, Tronchetti, Colaninno o il fornitore del fornitore del fornitore del signor Brambilla?  Diversi indicatori ci dicono che da un lato sono le microimprese, quelle al di sotto dei 9 dipendenti, che assorbono occupati con forme di lavoro salariato sia a termine che a tempo indeterminato, dall’altra le cosiddette ditte individuali e i liberi professionisti con Partita IVA, che assumono dei collaboratori. E quando si parla di queste categorie i giochi delle tre tavolette si sprecano. Ultimo esempio la ricerca della Banca d’Italia sui redditi delle famiglie, pubblicata nel “Supplemento” al Bollettino Statistico del 28.1.08 e subito strombazzata dai giornali con titoli del tipo: “lavoro dipendente al palo, gli autonomi crescono del 14%” (Corriere della Sera) oppure “Stipendi fermi da sei anni, autonomi in controtendenza con un aumento del 14%” (Il Sole-24Ore”). Dice questo la ricerca della Banca d’Italia? Manco per sogno. Dice testualmente
“La categoria degli indipendenti è eterogenea. Se in media il reddito delle famiglie con capofamiglia indipendente è rimasto stabile tra il 2004 e il 2006, all’interno della categoria le famiglie con capofamiglia lavoratore autonomo/artigiano o titolare di un’impresa familiare o imprenditore hanno visto il reddito crescere dell’11,2% in termini reali, mentre l’andamento è stato negativo per le restanti tipologie (liberi professionisti, lavoratori atipici e soci-gestori di società)”, p. 12.

Non vorrei quindi che sulla base di queste falsificazioni nascesse un fronte (che comprende Confindustria, sindacati, Pd e Sinistra multicolore) costruito sui seguenti enunciati: Enunciato n. 1 “i salari dei dipendenti sono fermi da anni, i redditi degli autonomi crescono a razzo” , enunciato n. 2 “i dipendenti pagano le tasse, gli autonomi le evadono”, enunciato n. 3 “per trovare le risorse necessarie ad aumentare i salari ai dipendenti, aumentiamo il carico fiscale degli autonomi”. Oltre che aberrante è ridicolo. Quale la sequenza giusta? Enunciato n. 1 “dagli accordi del luglio
1993 in poi tutto è stato fatto per introdurre la moderazione salariale nelle imprese rappresentate da Confindustria”, enunciato n. 2 “le imprese hanno incassato, aumentando i profitti a record storici, diminuendo l’occupazione in assoluto, privilegiando l’occupazione atipica, delocalizzando all’estero e ponendo le premesse per un’evasione fiscale legale”, enunciato n. 3 “adesso che si sono ingrassate, possono mettere mano alla borsa, rispettare le scadenze contrattuali e aumentare i salari”. Invece la distorsione del buon senso è tale per cui sembra che gli unici a non dover tirar fuori i soldi siano i padroni. I soldi per i salari dovrebbe tirarli fuori lo stato, sotto forma di agevolazioni, sussidi, crediti d’imposta e quant’altro o i lavoratori autonomi. Si ripeterebbe sotto altre forme quanto è avvenuto con il Protocollo sul welfare: abbassare l’età pensionabile per alcune ristrette categorie di lavori usuranti, lasciare il resto come prima, incassare il più possibile i soldi del Tfr e dimenticarsi completamente che milioni di giovani (o meno giovani) di oggi, sottoposti al regime contributivo, non avranno mai una pensione decente.
Dunque le presentazioni di questo libro avvenute nei mesi scorsi si sono svolte in un clima che andava sempre più deteriorandosi rispetto alle già non rosee previsioni contenute nel primo saggio  (ed ultimo in ordine cronologico) intitolato “Il senso della coalizione”. Il libro riprende temi dimenticati da dieci anni, i vari discussant avevano non poca difficoltà a colmare un vuoto così grande, portando inevitabilmente la discussione su problemi “irrisolti” del pensiero economico, sociologico, giuridico e su aporie della politica.
Ma i momenti più ricchi e interessanti, le volte in cui dici “beh, è valsa la pena pubblicarlo”, sono stati quando il pubblico si è impadronito della discussione. E’ accaduto all’Università di Roma e all’Università di Bologna, di fronte ad aule piene di studenti, è accaduto all’Università di Padova, dove prima della presentazione si è proiettato un video su una lotta in corso di soci-lavoratori di una cooperativa della logistica, è accaduto ai Magazzini del Sale di Venezia dove i giovani che hanno occupato e ora gestiscono quella struttura hanno posto il problema dell’uso dei media nella creazione d’identità della “classe creativa”, è accaduto a Milano nel corso di un incontro faccia a faccia con il gruppo che ha dato vita alla May Day Parade, e si è ripetuto in altre forme alla Libreria Claudiana di Milano dove è stata presentata, tra le altre, la relazione di Dario Banfi che potrete leggere nell’opuscolo di cui ho parlato all’inizio. Vi invito a leggerla nel suo blog (www.dariobanfi.it) perché rappresenta per me il confronto finora più stimolante, in quanto avviene con una persona che, per ragioni generazionali e soggettive, non si porta dietro il pesante retaggio rappresentato da correnti d’idee collegate alla mia storia politica e intellettuale. Un giovane trentacinquenne che è già riuscito a riflettere autonomamente sulla condizione del lavoro intermittente oggi, sul lavoro di conoscenza, sui suoi problemi di mercato, ed a condividere con quelli della sua generazione queste riflessioni proponendo anche strategie di autotutela e di sopravvivenza. Caso raro nel panorama di oggi, dove abbondano semmai i reportages, le confessioni oppure la caterva di pubblicazioni il cui autore parla sempre del lavoro degli altri e mai del suo. E’ la generazione dei Dario Banfi che avrà molto da dire nel futuro del lavoro. Giustamente Banfi ricorda che, nelle more del processo di formazione di organismi di rappresentanza e di tutela collettiva, resta drammatico il problema di chi è in mezzo al guado e non può tornare indietro, mentre la corrente si fa sempre più forte. A quelli devi dare un appiglio, devi gettare una “cima”, devi cioè fornirgli dei manuali di sopravvivenza, degli strumenti per cavarsela e per difendersi dalla banda di parassiti che campano sulle loro difficoltà, strumenti sofisticati, in buona parte digitali appunto. E glieli devi fornire nella “confezione individuale”, dando per scontato che il processo di sharing, di condivisione con altri delle difficoltà personali, di ingresso in un network, non è affatto un processo scontato e spesso incontra ostacoli oggettivi, strutturali a una determinata condizione lavorativa.
   Concludendo, resto convinto che dobbiamo smetterla di parlare di “precariato”, questo termine che non vuol dire più niente, ormai inglobato nelle parole-chiave degli uffici di comunicazione dei candidati premier. Voi più giovani, non chiamatevi più “precari” e il Santo mandatelo in soffitta! Chiamatevi lavoratori, semplicemente, lavoratrici e lavoratori del postfordismo. Non fatevi prendere in giro da “stabilizzazioni”, “contratti unici” e altre formule sostitutive delle leggi Biagi o Treu. Accettate di ragionare solo di retribuzioni e di orari. Se vi chiedono se siete autonomi al 10 o al 30 o al 60 o al 90% coi vostri contratti di collaborazione, mandateli al diavolo. Dite soltanto quanto prendete per quante ore di lavoro. Anche voi freelance, indipendenti! Voi che lavorate una settimana sì e due settimane no, però quando lavorate vi fanno sgobbare anche 80 ore alla settimana. Alzate la testa, vi hanno insultati e presi in giro abbastanza. Coalizzatevi, difendetevi! Seguite l’esempio dei vostri colleghi americani (www.freelancersunion.org).  E voi genitori di questi giovani, dove siete? Uscite dagli slow food e scendete in piazza! La libertà delle vostre figlie, dei vostri figli, la loro stessa possibilità di sopravvivenza vengono consumate, erose, divorate da questa logica di mercato perversa. Solo allora la politica presterà orecchio e cercherà di elaborare misure efficaci. Allora avremo forse partiti migliori, ma quando la società civile si sveglia. Se dorme, non usciremo più dal vicolo cieco!

7 marzo 2008

 

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