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A proposito di
Intellettuali
e vittime.
Alessandra Reccia
Riformulare la questione del ruolo e della funzione intellettuale
è decisamente un’urgenza teorica e pratica. In
questa direzione va certamente il contributo di Roberto Talamo, che
propone una discussione sull’argomento da
un’angolazione specifica e ricchissima di implicazioni,
ovvero dal punto di vista del rapporto tra intellettuali e vittime. A
partire dalla rappresentazione schematica che nella
contemporaneità si dà delle vittime,
l’articolo pone il problema dello sguardo consapevole sul
presente. Ripoliticizzare le vittime è, allora, la nuova
sfida dell’intellettuale, il quale proiettando il dubbio
sulla verità falsata dall’immagine, innesca un
moto di indignazione, visto come la base del processo critico. Il
rapporto prospettato tra vittima ed intellettuale, tra vecchie e nuove
funzioni e ruoli è di tipo figurale. Per cui ripoliticizzare
significa essenzialmente storicizzare, al fine di liberarsi dal
sentimento di vergogna che non possiamo, in quanto occidentali, non
provare di fronte «alla bassezza e alla
volgarità» del mondo nel quale viviamo.
Alle due funzioni classiche dell’intellettuale, quella che
parla “in nome” delle vittime e quella che parla
“in favore” di esse, se ne sostituisce dunque una
terza e attuale: «prendere parola davanti alle
vittime».
Di questa interessante lettura ci preme portare
all’attenzione il problema della responsabilità
dell’intellettuale di fronte al presente, che è
proposto da Talamo a partire dalla riflessione di Deleuze e Guattari.
Questi però giungono alla loro conclusione sulla base di
quella che sembra, paradossalmente e nonostante forse le intenzioni,
una de-responsabilizzazione: «noi non siamo responsabili
delle vittime, ma di fronte alle vittime»1.
Quanta parte questa de-responsabilizzazione abbia avuto, e abbia ancora
oggi, nel nostro modo di guardare al presente, di considerare il mondo
e in esso il rapporto tra vittime e carnefici, è la domanda
che ci spinge ad intervenire. Tanto più se è vero
che, come sottolinea Talamo, guardare la vittima significa –
nel senso di “dovrebbe significare”
– riconoscerne i persecutori.
Se ci sono delle vittime, infatti, devono esserci dei carnefici e, pur
rifiutandosi di dividere il mondo in due parti, sembra lecito pensare
che se gli intellettuali si distinguono dalle vittime e si pongono il
problema del rapporto con esse, allora bisogna chiedersi anche quale
sia il tipo di rapporto che di fatto, cioè economicamente e
politicamente, essi intrattengono con i carnefici e quale invece, se un
invece esiste, vorrebbero intrattenere. Tutto questo, ovviamente,
considerando la difficoltà attuale a delineare i profili
stessi di vittima e carnefice.
Nell’ambito della riflessione marxista la questione
intellettuale è stata per tutto il Novecento, e non solo in
Occidente, un problema politico. Esso concerneva direttamente la
questione della prassi, ovvero il problema della rivoluzione, e
presupponeva una valutazione e una considerazione specifica dei
rapporti di classe o di proprietà.
L’intellettuale, che si riteneva appartenere “per
schiatta” alla classe borghese, decideva di staccarsene per
mettersi al servizio del proletariato. Nella sola Europa, le
conclusioni a cui tali premesse giunsero si articolarono diversamente a
seconda delle condizioni storiche contingenti e del livello della
discussione teorica marxista nelle differenti aree geografiche e
geopolitiche del vecchio continente. Tuttavia può essere
individuata una cesura significativa tra i diversi modi di articolare
la questione nel cambiamento lento, ma progressivo, del ruolo che
l’Unione Sovietica ebbe nell’ambito del progetto
socialista internazionale, a partire, cioè, dal 1953, anno
della morte di Stalin. I due livelli di questa cesura potrebbero, in
effetti, essere rappresentati dalle due differenti posizioni di Brecht
e Fortini, purché si tenga conto che negli anni Sessanta,
dovendo riconsiderare il ruolo e la funzione intellettuale, mentre
esplodeva con il boom economico l’industria culturale,
Fortini torna a Brecht tanto per individuare una distanza, ovvero
«l’errore» di un’intera
generazione comunista, quanto per riproporre la figura e
l’esempio intellettuale del drammaturgo tedesco come punto di
partenza. «La difficile profezia» era infatti
consegnata alla modernità proprio da Brecht e racchiusa
nell’imperativo rivolto nel 1934 al Congresso degli Scrittori
Antifascisti: «Parliamo dei rapporti di
proprietà»2.
Nemmeno oggi, volendo ripoliticizzare il ruolo intellettuale, si
può fare a meno di tornare alla questione originaria dei
rapporti sociali e di produzione. Questa è certamente una
pesante eredità che ci arriva da tutta la tradizione
marxista, della quale però dovremmo urgentemente farci
carico. Innanzitutto perché parlare di vittime
può diventare tanto ambiguo quanto lo è la loro
rappresentazione operata dai media. In questo senso, già la
riduzione del proletariato a vittima fa parte di quella strategia che
giustamente Talamo definisce «umanitaria» e che
riporta il discorso marxista ad una condizione pre-marxiana, e potremmo
dire, pre-moderna.
In secondo luogo perchè dire intellettuale non significa
più riferirsi ad un gruppo sociale riconoscibile.
L’ampio uso che l’attuale sistema di produzione fa
di personale altamente specializzato, le modalità attraverso
cui avviene lo sfruttamento da parte del capitale di questo tipo di
forza lavoro, cambiano certamente il modo di intendere la questione
intellettuale. Chi sono gli intellettuali oggi? Che ruolo economico
hanno e cosa e se hanno a che fare con i cosiddetti lavoratori della
conoscenza? E ancora, potremmo strutturare la questione considerando
che il proletariato non è scomparso ma semplicemente si sta
ristrutturando, sia nella sua composizione sociale che nel tipo di
rapporti economici che intrattiene con il capitale (di questo il
precariato sarebbe una spia visibile); e inoltre chiederci come
valutare il fatto che tale gruppo non sia in grado attualmente, se non
in forme ancora troppo disorganizzate e primitive, di costituire se non
un soggetto, almeno un nucleo di soggettività3.
Sia permesso affiancare agli interessanti suggerimenti bibliografici di
Talamo uno degli ultimi libri di Susan Sontag. Davanti al dolore degli
altri è un libro sulla fotografia di guerra e sul problema
del realismo delle immagini, che ha inoltre, rispetto
all’argomento che si tratta qui, il merito di proporre
elementi per la domanda che ci pone Talamo: «siamo certi di
quello che vediamo quando guardiamo una vittima?».
Dobbiamo certamente rifiutarci di sacralizzare le vittime, come
invitava del resto a fare Fortini, ad esempio rispetto agli ebrei e
anche nei confronti dei palestinesi, quando scriveva: «i
palestinesi dell’Intifada non sono vittime. Sono gente che si
ribella ad una condizione che è stata loro fatta e che paga
per la loro ribellione. Non sono vittime almeno fino a quando si
ribellano. Debbono essere conside¬rate come i combattenti dei
ghetti»4.
Tuttavia, non possiamo negare che l’immagine della vittima
è una realtà, nel senso che essa è
all’osservatore immediatamente riconoscibile come immagine
del dolore e della sofferenza. Vale la pena riportare la constatazione
che la rappresentazione della sofferenza altrui non tocca
l’anima dello spettatore occidentale, se non a tratti e senza
che ciò abbia una qualche conseguenza nel suo agire pratico.
La causa di questa indifferenza è però
generalmente indicata nel fatto che l’enorme
quantità di immagini di violenza di cui i media ci
sommergono condurrebbe all’assuefazione e dunque
all’accettazione apatica della violenza. In realtà
la tipizzazione delle vittime, che già Adorno e Horkheimer
avevano individuato come un procedimento dell’industria
culturale, porta ad una generalizzazione della vittima che diventa,
come anche indicato da Talamo, “pura”. Il processo
che sottostà a questa universalizzazione è di
tipo simbolico, in quanto la particolarità di ogni vittima
consiste nel fatto che essa è individuata come tale proprio
in base a ciò che la fa vittima in generale. Quello che
dunque rende le vittime tutte uguali fra loro è anche
ciò che le allontana da noi. Ma ad allontanarci da ogni
vittima, a sostenere la nostra indifferente partecipazione al triste
destino altrui è l’illusione di essere innocenti,
prima che impotenti. Ogni spettatore, di fronte alle immagini di fame e
di guerra propinate dalla televisione all’ora di cena,
può tranquillamente continuare a mangiare solo se arriva
alla conclusione che «noi non siamo responsabili delle
vittime».
Recentemente un film Michael Haneke ha posto questo problema. Nella
Parigi sull’orlo delle tensioni sociali poco prima delle
rivolte delle banlieue, l’indifferenza ipocrita del borghese
bianco rispetto al destino del suo vicino algerino coincide con il
rifiuto di sentirsi responsabili del dolore provocato, per
sopraffazione o indifferenza, agli altri.
«Sarebbe meglio», scrive la Sontag chiudendo il suo
libro, «mettere da parte la compassione che accordiamo alle
vittime della guerra e di politiche criminali per riflettere su come i
nostri privilegi si collocano sulla carta geografica delle loro
sofferenze»5 e, aggiungiamo, delle nostre.
Eluderemmo, semplicemente, il problema della vergogna se non ne
considerassimo l’origine e anche il fatto che essa non
è il problema, ma appena una sua spia, il riflesso nella
nostra esistenza, di individui e di appartenenti a conformazioni
sociali e politiche, dell’ingiustizia, che molto
genericamente liquidiamo come un problema umanitario o, nel migliore
dei casi, speriamo di affrontare come fosse una problema di
ri-distribuzione delle risorse, affidandolo esclusivamente al consumo
critico, che, in ultima analisi, pone la questione della
riformabilità del capitalismo ovvero
dell’aspirazione ad un capitalismo dal volto umano.
Proiettiamo così all’esterno e lontano da noi il
nostro disagio nei confronti del mondo. La vergogna allora è
il segno di quel disagio solo nella misura in cui indica la speranza
che lo si possa allontanare, magari con un semplice gesto scaramantico.
Così, sia anche nostro malgrado, non solo finiamo per
confermare lo status quo, ma ci rendiamo incapaci di guardare oltre noi
o in altre parti di noi stessi e del mondo, in certe zone sociali dove
si sperimentano altre risposte politiche e soluzioni.
Ognuno di noi partecipa, anche suo malgrado, della violenza prodotta ed
espressa dal sistema di produzione nel quale viviamo. Non si tratta
ovviamente di riproporre in qualche modo il tema della ubris. Se non
significa nulla nascere nero o nascere donna, non può
significare nulla nemmeno essere nati bianchi. Ma, più
semplicemente, di capire che l’acquisizione delle
eredità comporta spesso l’ingrato compito di
assumersi anche la responsabilità dei debiti. In rapporto
alla storia il dato biologico acquista valore politico,
l’unico che possa dare un senso al fatto di essere nero o
essere donna. Parlare di fronte alle vittime si può, certo,
ma a patto di riconoscersi dentro quel complesso meccanismo culturale,
e quindi economico e sociale, che storicamente ha organizzato e
organizza nel mondo i diversi gradi di rapporto tra vittime e
carnefici. Naturalmente, nemmeno questo garantirà
l’innocenza, ma sembra un passaggio indispensabile verso il
riconoscimento delle nostre ed altrui ipocrisie.
note
1. Questa e le precedenti due citazioni sono riprese da Deleuze e Guattari, Che cos’è la filosofia, Torino, Einaudi,1991, p. 101, riporate da Talamo. Cfr nota 11. (Corsivo mio)
2.7 F. Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, in Verifica dei poter Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 131-186.
3. Sulle questioni relative ai lavoratori della conoscenza cfr. gli scritti di Sergio Bologna, in particolare Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano 1997 e Ceti medi senza futuro?, DeriveApprodi, 2007. Quest’ultimo libro è stato inoltre recensito da Maria Vittoria Tirinato per il nostro sito, il quale accoglie altri interventi dell’autore.
4. F. Fortini, Un luogo sacro, in Extrema Ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano, 1990, p. 56.
5.
S. Sontag, Davanti al dolore degli altri,
Mondadori, Milano, 2003, p.89.
[25
gennaio
2011]
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