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Michele Ranchetti,
Poesie ultime e prime.
Di Ilia Pedrina
«Caro Michele, il tuo Poesie ultime e prime è un discorso
continuo, in
basso, al di sotto del cielo e della sua luce, terra terra, dalla terra
alla terra, basso continuo nel VERBO che raccoglie la tua incarnazione
e ti rappresenta, in una raccolta, in vita, che dura anche post mortem.
Le classificazioni di te non ti fissano ad un supporto pungendoti ed
incollandoti per sempre, affidato agli sguardi di lettori senza
dispositivi: i tuoi versi esigono un passare le tue parole da mente che
non mente a cuore che con esse si lascia condurre altrove e palpita. Un
poco, ancora per un poco: quel per un poco che post mortem dura
come il
per sempre, se tu lo vuoi. Ben diversamente dall’allegoria kafkiana, mi
sento come una delle contadine tedesche medioevali, quelle essenziali,
segnate solo da quei tuoi pochi tratti esili e decisi a punta di matita
arancione, scheletrici: la porta dei tuoi versi è aperta e tu come
guardiano di una legge superiore che ben conosci e rispetti, mi
affronti, consapevole delle tue e delle mie debolezze, mi lasci
entrare, senza silenzi e senza malattia. Questo mi piace di te: la
generosa accoglienza nelle dimore della tua creatività d’esperienza,
ancor che triste e carica d’affanni. Tu sei un erede sincero di quel
testamento spirituale che ci è passato attraverso la lingua latina, fin
da bambini, nel sangue e al quale hai risposto con serietà nel corso di
tutta la tua vita, quella vita che ti è stata data e che ti ha immesso
nella legge del nostro tempo, tra libertà e volontaria ricerca della
verità. Grazie. Ilia».
Simili modo voglio entrare in Poesie ultime e prime,
operando un
esercizio geometrico scarno che mostra quanto sia possibile e
liberatorio di enigmi lavorare con le parole di Michele Ranchetti
poeta, così come le sistema, nel loro ordine dato e oltre. Prendiamo la
prima della raccolta, in Ultime:
Il tempo fra l’incontro e il fatto è sempre
più breve e attonito. Ti perde e tu sei
la caduta sull’altro come unico
destino e su di lui precipiti
unica morte salvifica, ma è breve
anche questa caduta di salvezza.
Ho tracciato una linea di congiunzione tra la prima parola «tempo» e
l’ultima «salvezza», così ho pure fatto con l’ultima del primo verso
«sempre» e la prima dell’ultimo verso «anche»: i due segmenti si
incrociano su e tra due termini «l’altro» e «lui». A questo punto un
segmento particolare verticale attraversa questo chiasma e va da
«incontro» fino a «caduta»: allora l’incrocio è nel «lui», l’«altro»
che è fuori di te ma non fuori del tuo tempo. Essere, perdere,
perdersi, precipitare: verbi stretti in una morsa che è quella angusta
ed ignota del destino, che sembra apparentemente senza densità né
alternative, «unico». L’«altro» resta il fatto certo, il polo
d’attrazione dell’incontro con te stesso. Il “precipitato” è per le
sostanze chimiche la parte appunto più densa, più a corpo, questa è la
nostra condanna, una prigione che via via si liofilizza. Incontro e
caduta sono sullo stesso asse verticale ma simmetrici e la forza di
attrazione è biunivoca. Tu sciogli nell’altro le tue opacità alla
ricerca di una trasparenza e l’altro è per te stesso simile cosa, per
questo il poeta parla di «caduta», dopo che l’«incontro» è stato dato
dall’incrocio di sguardi, affinché, almeno al fondo, sul suolo, nel
contatto con la terra, ci sia “contatto” là dove il tempo si fa «il
tempo….di salvezza», definito come l’ha individuato l’Immolato per gli
altri, per i suoi amici, la sua, quella di Gesù, è l’unica morte che
porta il tempo di salvezza, caduta che apre “sempre” e “anche”
nuovamente all’incontro, non breve ma reso tale a causa della nostra
fragilità.
Nel leggere i versi del poeta bisogna prestare attenzione al ritmo
interno che si intercetta tra le parole, come note che si differenziano
pur nella ripetizione: «…grano a grano…/ …alla luce/ …alla luce/…di
te/….di te…/di te…»
È il pensare profondo della mente quando incontra l’angoscia e se ne
appropria come di uno stato a lenta conduzione di freddezza, rilasciata
anche se c’è il sole, anche se è giorno pieno. Solo così si fa strada
un percorso di vuoto che accompagna il freddo dentro:
Quel genitivo del pronome di seconda persona singolare è soggettivo ed
oggettivo insieme in uno specchio di carne che il poeta vorrebbe non
freddo né vuoto. In un tempo, quello dell’istante che è ben
disegnato con altri versi:
È questa la contrazione del tempo vista da dentro e da fuori: il
presente ha la sua ombra nel farsi e nel darsi come passato, dietro a
ciò che sarà futuro, ma qui in vero è come se si fosse frantumata per
sempre quella solida “ripetitività” naturale che ci conferma la luce
del giorno dopo le tenebre della notte, la primavera ed il suo tepore
dopo il rigore dell’inverno. Non così per quest’anima intatta che
riesce a contrarre il tempo disperdendo ogni suo scorrere.
Nella poesia successiva si può applicare quell’investigazione
geometrica a segmenti di cui abbiamo parlato: la tematica del tempo
contratto viene approfondita e spiegata con un canto serrato senza
consolazione e soluzione di sorta. L’essere al mondo ha i suoi tempi in
carne ed ossa e Amore e Morte sono le sue generalità:
Nel disegno che si viene a formare attraverso il modulo che abbiamo
intuito interno al suo scrivere, anche se non consapevole o
intenzionale, viene dilatato ancor più il senso di ciò che il poeta
vuol dire. Il riferimento è al chiasma di incrocio nel rapporto tra
Dio, la creazione, Adamo e gli altri esseri umani che con lui sono per
sempre fuori dall’Eden: un credere che dipende dal corpo, una morte che
è all’indietro, in una colpa che non hai commesso tu, ma della quale
sei portatore perenne, per te e per i tuoi discendenti, una morte
fuori, appunto, fuori dal tempo del mondo, fuori e dentro il tempo del
corpo. E il tempo è la misura dell’andare a passi, ambivalenza
dissonante. Al centro la luce, quella fredda della mente, che rinnova
nella morte il peccato di Adamo e lo mantiene nudo senza quella
espiazione che unica dà grazia.
Nella poesia successiva ci troviamo di fronte ad una sintesi
originaria, generativa:
È qui dove ogni sostantivo si fa verbo e azione piena, movimento di
emozioni nel delirio e nella totale luminosità viva di ciò che siamo
noi in vita, dal di fuori, quando siamo dentro lo sguardo dell’altro,
che è e ci dà il vero nostro presente, l’unico tempo, tutto che ci è
dato di vivere.
Una volta morti, qualcuno ti chiude gli occhi, perché, dal di dentro tu
non puoi muovere nulla, non puoi vedere, mentre gli altri ti osservano,
pietrificato: se gli occhi ormai fermi fossero tenuti aperti, lo
sguardo che non si muove più ti farebbe toccare l’abisso, riducendo in
cenere la vita che hai dentro.
A questa poesia segue un intenso autoritratto della propria
soggettività rispetto a se stesso, rispetto agli altri, rispetto alla
vita, l’impossibilità di essere se stesso e l’Altro in uno, per
condividere l’essere solo in due, che pesa la metà! Ciò non ci è dato e
la condizione se ne appropria, senza appoggi. «Per essere solo di solo
acceso amore per la luce»: sono questi alcuni aspetti mistici di un
cammino che intensamente cerca di sciogliere legami e vincoli e
presenze, perché l’abbandono sia vissuto in pienezza e sia fatta,
avvenga la Luce dell’Altro che incontra ciascuno di noi in tutto il suo
umano rispecchiamento.
Michele Ranchetti poeta ha la capacità di restare dentro le cose
lasciando che esse siano così come sono, ma portando su di esse e sulle
relazioni che determinano uno sguardo che trapassa ogni apparenza,
proprio perché non ci sia fraintendimento e la consolazione non arrivi
a mascherare un vuoto di senso alto che egli non vuole, non sceglie,
non approva.
Questa garanzia di essere e di restare autentico, sollevando quel velo
numinoso posto sulla realtà ed osservando con lucidità il dis-inganno,
gli dà la forza di affrontare la verità come dis-agio, affinché la
sicurezza tolga ogni ormeggio dai suoi obiettivi interiori e «il vuoto
della vita» possa arrivare a questo porto: «il vuoto ricompone ogni
disegno».
Questo fanno le sue parole. Questo fa la sua poesia: dare fondo a
qualsiasi sentimento positivo solo in apparenza, perché il compito
della sua poesia è richiedere al lettore di compiere un percorso non
facile, in quanto è stato attraversato dalla morte sacra che forse, per
lui, risorgerà solo quando gli esseri umani proveranno davvero cosa
vuol dire «amare gli amici» e morire per loro. Poi, la resurrezione, è
solo piatto convincimento per non sudare sangue in quell’orto degli
ulivi che è la vita stessa: ecco perché per lui, «solo la morte
interviene a conoscere».
«Al buio del credere entro i novissima verba». Doppio il senso: «entro»
come avverbio, «tra», «in mezzo a» e contemporaneamente come voce del
verbo «entrare» «i novissima verba». Se avverbio è moto di volontà e
libertà in ricerca, perché è il credere il verbo qui più sicuro; se
verbo, l’intenzione è quella di non fare del verbo un intransitivo che
regge un complemento di luogo ma un transitivo, che ti permette
direttamente di reggere l’accusativo, cioè il complemento oggetto, il
«chi» e il «che cosa», e il territorio rimane quello del credere.
È questa una patente da titano che diamo al Ranchetti, perché si erge a
sfidare il sentimento ed il senso superficiale delle parole e delle
loro relazioni di stesura: vuole come titano sfidare il buio perché con
parole-azioni appena nate, nuovissime si muova e prenda vita un mondo
altro, nel quale il credere sia vissuto in luce.
Nei fatti intransitivo è quel verbo che non si può appoggiare con
sicurezza su un oggetto, uno scopo, una motivazione, non può “reggere”,
non ce la fa a “sostenere” il puntare il dito direttamente,
l’accusativo, il complemento oggetto. La grammatica, proprio quella
classica, quella del latino è tanto dentro nel cuore della lingua del
poeta che la mente vi deve poi tenere molto conto, come se dalla Legge
che interviene nella analisi logica delle cose giuste da dire ci fosse
il rispetto di un “ordine superiore”, quasi “ordinanza regale” alla
quale sottometterci senza discutere. Fosse così! I tempi del vivere
invece scardinano quella logica e l’analisi diventa spietata, senza
sconti…(cfr. pag. 33).
Qui non si tratta di inquietudine perché nella ricerca di un senso da
dare a se stesso, alla vita alla memoria degli eventi c’è tensione,
aspettativa, qualche debole fondo di sicurezza sul quale poggiare come
quello che ti è dato quando l’altro ti ama, e questa è come una
piattaforma di riferimento, c’è onestà di cronista, quale è la
sincerità del poeta che deve segnalare dove quella ricerca approda,
dopo aver scavato e portato alla luce la verità, anche se è quella
delle ombre, anche se poi la luce che illumina le cose si dilegua via
via, lasciando proprio le loro ombre. È il fare poesia dentro le parole
che il Ranchetti predilige e in questa avventura-ricerca è serio e dice
la verità, oggettivandola ed appartenendovi…
E continua nei versi successivi il lavoro di scavo, archeologia alla
luce del sole sulle stratificazioni che ci ritroviamo dentro e che quel
sole, appieno, non lo vedranno mai nella loro essenzialità ma solo
attraverso un mascheramento. Quando mai si è fuori, per sé e per gli
altri, tutto ciò che si è e si ha dentro, in se stessi? È in questa
di-frazione che si presenta la linea che seca, divide, separa il
numeratore dal denominatore, di solito l’elemento fondante sul quale
contare per poter “dividere” il numeratore in parti ed arrivare al
risultato. In ogni caso l’uno non si trova mai, a meno che numeratore e
denominatore non coincidano e questo è il dato di Dio. La ricerca è un
fare, senza mai stasi e la condizione l’accompagna, non l’assolve né la
risolve.
Talora il Ranchetti sperimenta il ruolo “altro” di entrare in una
lingua non sua che comunica comando, mentre contemporaneamente chiami
te stesso al silenzio, ossatura scheletrica che pure invita, come tanti
suoi disegni, essenziali: è come se egli avesse la capacità di
osservare l’impalcatura delle cose, anche quando essa è perfettamente
compiuta nella sua architettura, forse perché non si dimentichi mai chi
è l’Architetto né quanto noi ne siamo lontani.
È lo stato della tensione di ricerca al suo puro darsi, nel momento in
cui via via vengono tolti i riferimenti formali che si usano per dirsi
in canoni e farsi fare prigionieri. Il «desiderio a vivere» è ciò che
abita il silenzio, è il risultato di quella divisione del numeratore
per il denominatore, un filo fisso che non dà segni di ondulazione, non
produce vibrazione né riesce ad accoglierla, è la fissità essenziale,
lo ripetiamo, del tratto di tanti suoi disegni a matita, ma che la
punta sia sottilissima, acuta, affilata, pur di togliere da ogni lato
ciò che non serve, pur di semplificare una traccia che viaggia
instancabile verso un cielo che ogni tratto sembra allontanare ed
avvicinare insieme.
Tempo vero, tempo contratto sempre, quando sopra tutto la mente ritorna
alla parola, al grembo della vita, alla madre. Nella sofferenza c’è un
canto da dedicare alla grazia del corpo e del vivere, del provenire dal
corpo, come origine stessa del silenzio, quel corpo che è avvio del
grido quando quel grido, che è il primo, è lo spazio che si prende la
vita tra due silenzi: la poesia a pagine 37 della raccolta è canto di
amore e morte per la donna, che è madre della sua vita e per la donna
che è vita della sua bocca, del suo corpo, del suo cuore, per quella
donna che, a sua volta madre, sarà resa tale grazie a lui, grazie al
suo corpo, grazie a quella madre che è stata matrice del suo essere in
vita:
È preghiera pura, canto d’amore come preghiera, preghiera che si apre
all’altro, colui, colei che tramite te è fonte del tuo vivere, oltre.
Posso sostenere che nelle
poesie Michele Ranchetti traduce, proprio nel senso etimologico del
“trasportare”, del “trasferire”, del “portare attraverso”, tutta la sua
esperienza di vita, fatta anche di incontri appassionati con i testi.
Fabio Milana ha fatto bene ad avvicinare nel primo volume del testo
Scritti Diversi - L’etica del testo - (Roma 1999) i suoi lavori Rabbi
Taubes e Walter Benjamin, prima della fine perché entrambi,
all’interno
della Filosofia della Storia pongono interrogativi severi per coloro
che riflettono sul pensare a termine, sull’escatologia: per entrambi -
ma ciò si rileva anche nelle Poesie del nostro Autore - il tempo a
scadenza raddoppia la sua forza come in uno specchio e brucia più in
fretta: è doppia la forza della scadenza, che si sente urgente e
sommamente presente ed è doppia la forza del tempo che ognuno
sperimenta sulla propria pelle, che si prova addosso, in un “adesso”
che comprime ed opprime.
Citiamo testualmente per il primo:
«Ora al posto di “escatologia” Taubes scrive “storia”. Così alla fine
della sua difficile vita Taubes si riconnette al suo libro iniziale. La
filosofia della storia ha raggiunto un punto non più reversibile: il
significato di tempo. Nelle parole di Taubes: “cristianamente non si ha
tempo, poiché il regno di Dio è prossimo. Nella frase “il regno di Dio
è prossimo” non è importante per me, cosa sia il regno di Dio, ma la
plausibilità del suo essere prossimo. Chi crede al pensare
cristianamente senza il senso del termine (della scadenza) è debole di
mente”»(pag 236). Vicino alla firma di Taubes, qui sotto, Ranchetti
potrebbe metterci anche la sua! Per questo ne ha fatto citazione!
Citiamo testualmente per il secondo, circa il lavoro di Benjamin sul
concetto di storia:
«Le tesi e proprio la conoscenza dei materiali ne dà conferma, non
possono ridursi ad una motivazione improvvisa, un evento scatenante,
fosse pure…il patto germano-sovietico. Questi elementi, anzi queste
ragioni ci sono ma hanno il compito di sollecitare una stesura di una
serie di osservazioni sul significato della storia già presenti, e
soprattutto di comporre da esse una sorta di promemoria teoretico, di
carattere riassuntivo, capace di ordinare i molti scritti di vario
genere composti in diversi anni secondo un’unica prospettiva, quella
che ora poteva apparirgli come la ratio della sua attività di
scrittore: il confronto con la storia..» ( pag 237).
Michele Ranchetti si è confrontato sempre con la storia: si potrebbe
dire che il ruolo che egli ha dato alle sue poesie è stato proprio
quello di promemoria non segreti che tracciano nel corso di tutta la
vita segni del cuore, della mente, delle emozioni rispetto alla
esperienza tutta, nei verbi e nelle parole, in una selezione che poi
senza alcuna ambizione le farà entrare nella storia, nel Verbarium
appunto. In esse si è riservato il proprio spazio meditativo che ci
trasmette emozioni e risposte severe anche rispetto alla libertà, alla
volontà, alla capacità di scelta, alla fede. E su tutto questo una
coscienza civica colma di impegno, come si rileva nelle 25 tesi
sulla
pace, soprattutto dalla 21 alla 25, che qui riportiamo in
sintesi:
«21… è tutto il nostro “universo” che è minacciato di distruzione e non
ha particolare importanza prevedere un castigo di responsabili.
22. Inoltre questa guerra distrugge migliaia e migliaia di vite
umane…opera una cesura radicale con un passato e un presente, distrugge
risorse economiche enormi. Il costo della guerra è superiore ad ogni
investimento civile..Questa guerra distrugge anche altri progetti
politici non basati o affidati alla distruzione e si pone come
alternativa alle ragioni della pace, della convivenza, della cultura,
della storia…Di fronte a tutto questo non vedo nessuna vittoria
possibile, nessuna ragione superiore.
23. Occorre costruire giorno per giorno e passo dopo passo,
analogamente alla costruzione della guerra, un progetto diverso.
24. Io vedo la necessità immanente di una prospettiva etica, non
religiosa, che non rinvii ad un futuro di salvezza metastorica».
( pag. 362 - composto nel Gennaio del 1991 in occasione della
guerra del ‘Golfo’-)
Allora, nel segreto del suo essere e dimorare con se stesso, possiamo
capire meglio la portata incidente provocata in lui e in noi dalla
poesia che segue:
È come se ci si trovasse adesso, in quell’adesso che comprime ed
opprime, in una delle case nei territori occupati di Gaza, del Libano e
di tutte le altre parti del mondo dove c’è la guerra: il riscontro che
la guerra tra esseri umani dà, anche a distanza, è sempre e comunque
distruttivo, lesivo di ogni libertà e di ogni volontà di agire e di
reagire. È come un chiudersi volontario alla interpretazione
trasparente, affinché ci siano cupe nebbie anche in chi legge in una
costringente ambiguità che vuole negarsi alla presa e trasmettere solo
tensione e brividi, perché ci debba essere guerra, anche dentro di noi.
Ranchetti vuole questo dalla sua scrittura politica, che coinvolge
tutto, nel suo darsi chiaro, anche se incarna l’umana fragilità che
soccombe, coraggioso, imperativo, prima per se stesso che per gli
altri, chiunque essi siano, capi del popolo o popolo sottomesso,
affinché in nome della pace ci sia tensione di pace tra questi
due poli, di ogni storia e di ogni nazione. Alla poesia e alla sua
scrittura egli regala l’ombra, quella che di solito manca a
mezzogiorno, quella che avvolge il tuo corpo e l’altro da te come
nemico, due corpi diversi in conflitto, in un tentativo di unità mai
raggiunto, perché l’Uno è il primo attributo di Dio e di Lui solo!
Le parole di Rabbi Taubes, che abbiamo citato «chi crede di pensare
cristianamente senza il senso del termine (della scadenza) è debole di
mente» sono state sottoscritte pienamente dal Ranchetti, perché
esperite in prima persona, così in poesia egli affronta la temporalità
dell’adesso che comprime ed opprime in versi pregranti:
La nuova misura del vivere è data comunque sempre da un tempo “altro”,
quel tempo che intercorre tra il non vivo e il non ancora morto,
quell’adesso che comprime ed opprime e che ho definito in senso
contratto lo «Jetzt da». Di quanti giorni e di quali tempi possiamo
dire essere «non vivi», perché carichi di morte, morte del senso
come della memoria; di quanti giorni e di quanti tempi anche nostri
possiamo dire essere “non ancora morti”, con quel modo di vita che c’è
dentro quando la morte non arriva e la vita non è vita! Nel pensare a
termine vi è la ricerca di un’essenza radicale, radice che è in grado
di sostenere l’anteriore che non è ancora futuro e c’è coraggio
nell’interrogarsi quando ti pervade la certezza che nessuno tra i tuoi
simili è in grado di rispondere!
«Vita interrotta»: questo è il tempo lungo che si snoda interno
all’esistere e questa interruzione dura tanto quanto l’iniziare a
vivere e il finire di morire, intercambiabili. L’interruzione dura
tanto quanto l’iniziazione liturgica rituale, come rituale è il
ravvisare l’arco vitale che l’albero ancora compie, in movimento vero,
nel proprio schianto e come rituale è il rapporto reale «fra il suono e
l’ombra della pausa» (cfr Poesia a pag. 41). È come se, nel
pensare a termine e nel sentirci impreparati, lo Spirito Santo qui tra
noi non avesse il suo tempo per agire e per fare di se stesso un fuori,
per fare di se stesso storia.
Oltre al latino, di cui ancora diremo, anche il tedesco è lingua “di
natura” per Michele Ranchetti: ne ha colto tutta l’interna musicalità,
per questo il suo compito di “traduttore” nel senso inteso da Benjamin
lo ha visto lavorare con sicura adesione ai testi di autori centrali
della cultura germanica
come Freud, Wittgenstein, Benjamin e Celan. È competenza piena che gli
deriva da un “prima” rappresentato dal farsi storia e senso dell’altro,
per capirne i tratti ed i passi di esperienza e quando il testo che
devi “tradurre” te lo trasporti addosso e ti diventa esperienza, allora
così nel tempo quella lingua ti entra dentro, ti lavora le
emozioni e ti offre un canto, che è origine, originale.
Ecco quel denominatore comune delle molte frazioni che sono gli esseri
umani, frazioni tutte diverse tra loro, irriducibili perchè tutti
numeri primi! C’è verità nella matematica e la grammatica della lingua,
che le appartiene come equilibrio ed armonia, porta verbi, nomi, segni,
semplificazioni impossibili rese possibili perchè in viaggio verso
l’uguaglianza tra numeratore e denominatore, che dà sempre risultato
l’uno, perchè in viaggio verso l’unicità, perchè in viaggio verso la
salvezza.
Si scandisce quella iniziazione di cui parlavo, quel darsi
dell’individuo a regole non ancora note ma necessarie ed interrogabili
perchè possa avere inizio il rito tutto dentro alla forza di dare
nome alle cose, riconoscendole ed appropriandosene, e di ricevere,
allora, il proprio nome per sentirsi riconosciuti ed appropriati, come
in un pellegrinaggio di identificazione, se “dall’alto” o “dal basso”,
qui, non ha senso il chiederlo. Quando il rito di iniziazione alla vita
si è dato e ti ha trovato presente al passaggio della soglia, la tua
posizione è computata, resiste in una stabilità precaria e si fa
“figura”, Gestalt su sfondi senza vita. Basta la morte di Cristo a
giustificare questo disagio, quando la Resurrezione stenta a farsi
memoria, lasciandosi appropriare solo dalle membra. Ranchetti, con
interrogativi esclamativi mette al muro ogni nuda riserva di
certezze: questa è come un’operazione catartica vissuta su se stessi
attraverso un appropriarsi della vita di mondi “altri”, del cane o
dell’albero fa lo stesso. E la condizione dell’esilio è il darsi di sé
senza patria, terra, domicilio e domus, senza quel «Domine!» invocato
che vorresti talora facesse «te dignum» di ben altra iniziazione, quella
che una volta uscito da se può farsi «hospes» non «hostis»!
Infatti egli sostiene:
E questi sono i due aspetti ritmati di quella iniziazione rituale della
quale il poeta nutre in profondità l’esigenza, anche correndo il
rischio di fare a meno degli idola, degli idoli che configurano
il
divino e vogliono ridurne la portata all’icona. Ma tale esigenza è
contemporaneamente labile, fragile, soggettiva, singolare ed universale
insieme, multiforme, sfuggente, complessa, per questo può affrontare
«l’oscura presenza invisibile» e non sprofondare nell’abisso che il
divino, sfidandoti, ti mette di fronte. La scrittura poetica gliene dà
atto e fatto, le forme fisse ne sono fuori perché non rimandano se non
a prigione, là dove il niente, «l’oscura presenza invisibile», il
“sacro invisibile oscuro niente” può essere messo in catene, dopo
essere stato “catturato”, capito, ma inutilmente, questo è sforzo vano:
ciò che è vacuo si fa luce, presenza, aria e torna alla mente il trono
vuoto nella preparazione del trono, in San Paolo fuori le mura a
Roma e che Giorgio Agamben, suo caro amico e collaboratore, ha scelto
per orientare il suo percorso investigativo. Il regno e la gloria
–Homo
sacer II, (Neri Pozza, Vicenza, 2007). Così accade che da vivo il
poeta
vuole fare un viaggio iniziatico nella morte e nei suoi tempi storici,
individuali e sociali per sperimentare certo una tensione diversa da
quella provata dai “grandi” come, Omero, Virgilio, Dante quando
vogliono afferrare la vita delle anime che essi amano, rifiutando però
la sicurezza del regno corrispondente e dei suoi solidi confini: la
tensione in lui è quella che si trascina dentro come lesione e fistola
viva dopo l’evento storico di Hiroshima e Nagasaki, non più
cicatrizzabile!
Allora si impone l’esigenza di tenere in vita il respiro, per dire
contro, per dare ancora storia:
Anche questo è un passaggio forte verso una richiesta di Gestalt, un
delineare ciò che si ha dentro e che si può vedere, affinché possa
essere pensato: tante le forme alle quali Ranchetti chiede presenza,
nel pensare e nel fare poesia, scegliendo lo stato di veglia, e perché
in questo tipo di lucidità, definita solo perché ricercata non perché
rinchiusa e fissa, possa trovare un po’ di sosta la sua ricerca, un po’
di requie la sua memoria.
Allora, se lo seguiamo davvero, l’iniziazione che egli richiede sonda
il terreno del tuo essere e mette alla prova, vaglia la tua «virtù» e
controlla «s’ella è possente» prima che «all’alto passo» si possa
ottenere la fiducia di accedere. Egli vuole però prima da sé e per sé
un tale controllo, ne riceve liceità perché dentro il suo canto è
riuscito a mantenere il filo di comunicazione che va dalla terra alla
terra, dalla terra al cielo della mente, terra-terra, in orizzontale,
in quell’orizzonte che è la datità.
È dato in questo stile secco il polo che detta l’iniziazione, Cristo,
l’Altro da te per se stesso, fattosi carne per te stesso da sé, in
quanto Dio. Ecco reso manifesto il polo della vita, quella vita, forse
l’unica che è stata inizio ed iniziazione e vita dopo la morte che era
vita, prima. Che esclamazione, quasi di stanchezza, eleva il poeta, per
proteggere da stanchezza chi invece ne è fuori, e la sublima in se
stesso, in una comunicazione diretta con Colui che non è mai stanco di
aspettare. Di aspettarti con il tuo corpo fatto parola, reso Suo dalla
sua Parola.
È uno stato quello del poeta che priva di scorie ed incrostazioni ogni
contatto, proprio per quel tipo di iniziazione che ha chiesto e
richiesto per sé:
Il centro di tutto è in questo non riuscire ad abbandonarsi in chi è
altro da te e ti richiede di esserti al fianco e di appartenergli, da
prossimo tuo, non te. Come fanno i vuoti a coesistere insieme senza
collimare? Solo i pieni si scontrano, in attrito, spostandosi in un
moto a scatto, altrimenti vi è sovrapposizione, penetrazione, mai
identità o uguaglianza e la simmetria stessa si allontana. Il vuoto
come assenza è senza confini, lo si può cogliere solo nella
solitudine e in immagini, figure e forme, perché ivi la morte non può
abitare. Così è dato fermare istanti di disorientamento quando
Estraneità arriva anche dentro, ti guarda e ti riguarda, in quella
veglia nella quale non ritrovi né radici né rimandi ad esse, pur di
sostenerti un poco. Allora è vero che entra subdola l’Incertezza e la
luce del giorno non conferma il tuo presente, lasciandoti preda del tuo
stesso interrogarti in un ciclo continuo che forse, anche nella notte,
darà il suo tormento fisso. Facevano bene gli antichi saggi
investigatori del mito a dare nome alle condizioni dell’esistenza, nomi
propri di persone con la lettera maiuscola all’inizio, personificazioni
di enti, divinità senza tempio fuori le mura del tuo essere, perché,
anziché dentro di te, tu le possa identificare nel loro “altrove”
rispetto a te, così poi potrai dare loro templi, nel tempo. Pur di
sostenerti un poco! Michele Ranchetti poeta, nei suoi silenzi, tra le
parole rifiuta questo facile, felice abbandono, condensatosi in
millenni di storia dei popoli, per assumere sulle sue spalle, da uomo
del suo tempo, ogni forma della responsabilità che lo riguarda.
Allora la seconda parte della raccolta, quella tutta in lingua latina
va proprio a spiegare questa difficile scelta, seria, severa, naturale:
il latino è lingua madre, è la lingua della madre, che crede così
fermamente e dimora così assiduamente con il figlio anche se
piccolissimo, nel contesto del sacro, nella Chiesa Cattolica che ha
fatto del latino la sua veste comunicativa diretta. È questo il latino
di chi, da bambino lo ha ricevuto dentro, come esperienza di morte, di
vino e di pane, di liturgie anche incomprensibili. Solo così, in questo
passaggio la lingua madre, la lingua della madre diventa madre-lingua:
quel bambino cresce, impara, capisce e la morte, dentro, gli rimane
incomprensibile ancora, se posta fuori della speranza.
Queste poesie vanno lette a maggior ragione a voce alta, anche per chi
il latino non lo conosce, perché sono musica pura ed hanno dentro un
ritmo interno che ripristina gli antichi valori del suono, cuore stesso
della parola che la traduzione, se superficiale, va solo a privare di
vita vera. Questo è ciò che una lingua morta vuole per sé,
rimanere intraducibile dentro. Vivibile ancora senza interferenze:
È come Agostino di Ippona in lotta con se stesso perchè sempre e
comunque altro ed altrove rispetto a Dio: l’amor dei intellectualis
si
fa «amor mentis … intra limen rerum», in solitudine, in ricerca, con
una forza al fianco che ti viene da molto lontano ed ha la sacralità
del respiro cristiano antico, modulato in verba.
Chi cresce dentro, come poeta, sa cosa perde, costantemente, ma non può
illudersi, pena la chiusura del canto, pena il sigillare per sempre in
atrofia il lavoro di Dio dentro di te, che invece si mantiene in vita,
ti mantiene in vita, per quella Sua carità che tu vorresti in grado di
rapirti per sempre dalla morte e ciò non è dato. È questo come un
testamento spirituale di chi si lascia attraversare dal tempo del sacro
e sente che tutto ciò che è mortale è come debole, fragile, spinge al
dubbio che è quasi infedeltà, ma ciò che è tenue nella carne è già
tutto, è la potenza possibile, è la potenza unica di quell’Atto puro,
nel canto di poesia, è l’Uno.