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Lo stato delle cose
Lo stato delle cose
Pier Paolo Poggio
Sullo sfondo abbiamo le guerre: dall’Iraq
all’Afghanistan, e ancor prima la Palestina, la Cecenia, le guerre
dimenticate dell’Africa e dell’Asia, le guerre che stanno preparando.
Tutte quante fallimentari, una sequela di inutili massacri, caos e
confusione, di menzogne inestricabili in cui affondano leader politici,
giornalisti, opinionisti, presunte guide spirituali. Con ipocrisia,
tracotanza, disperazione, confidano nella violenza: continuano a
pensare che la guerra sia lo strumento ultimo a cui affidare la
soluzione dei problemi politici del nostro tempo.
Nonostante il ripetersi sistematico dei fallimenti, rivelatori della
loro inadeguatezza, occupano tutta la scena, perseguendo i loro
mediocri e superati fini particolari. Essi rappresentano il principale
ostacolo alla comprensione della novità che è maturata nei fatti, e non
solo, come in passato, nelle parole di qualche spirito illuminato :
l’umanità è definitivamente unificata. Se l’universalismo in passato
era frutto di una scelta ideale oggi si dispiega nella concretezza del
processo storico. Ed è proprio la sua effettualità a suscitare ogni
sorta di ripulse e paure, a cui è necessario e vitale sottrarsi e
contrapporsi perché se prevarranno non ci sarà una prospettiva di
futuro.
Il processo di convergenza dei popoli e dei singoli ha superato una
soglia di non ritorno, anticipata in negativo dalla Bomba, e poi
scavalcata definitivamente nei decenni successivi per effetto della
tecno- scienza e del suo impatto sull’ambiente. Così come la guerra con
l’ecosistema, l’unico che abbiamo a disposizione, è palesemente
insensata, altrettanto la guerra dell’umanità con se stessa non
può essere che autodistruttiva, oltre che unicamente regressiva e
totalmente inutile, come lo sono le finalità che si propongono i
fautori dell’una e dell’altra guerra.
Il fatto che nondimeno le guerre continuino incessanti, senza suscitare
un rifiuto generalizzato, deriva dal dominio che vecchie
rappresentazioni, idee, credenze, sia pure in disfacimento, continuano
ad esercitare in alto e in basso, nella mente di uomini e donne
sottoposti all’incessante lavorio dei mezzi di comunicazione.
Attraverso di essi il nulla viene propinato con grande sfoggio di
seduzione, si atrofizza così la facoltà di pensare e di agire, mentre
il sentimento viene sviato verso oggetti futili, alimentando il ciclo
del consumo per il consumo.
Sarà possibile uscire dall’incubo, svegliarsi dal sonno, porre fine
all’incantamento ? Non possiamo saperlo, non abbiamo garanzie: non
possiamo riporre speranze in una natura umana buona che in ultimo
prevarrà o al contrario abbandonarci alla disperazione perché gli
uomini sono cattivi. Ci limitiamo a sottolineare una novità storica e
le potenzialità positive di una discontinuità che altri considerano
funesta. E’ una scommessa controcorrente e apparentemente inattuale,
visto il paesaggio che ci circonda, ma siamo persuasi che si tratti
della strada da percorrere se non altro perché non ci sono alternative.
In primo piano, nella quotidianità della vita, abbiamo un’umanità che
fa ogni sforzo per sottrarsi al proprio tempo, alla sfida della realtà,
scegliendo di vivere in un eterno presente privo di senso. E sono
proprio coloro che non debbono lottare per i bisogni essenziali che
maggiormente si abbandonano alla pura e piatta ripetitività della
sopravvivenza. Non meno ampia è la platea di coloro che per la paura e
il risentimento di fronte al dispiegarsi concreto dell’unificazione del
mondo si rifugiano in ogni sorta di tribù immaginarie, che in paesi
come l’Italia, dove il processo di dissoluzione è andato più in
profondità, possono assumere valenze politiche, non meno dei vari
fondamentalismi in cui degradano le religioni universalistiche.
Esse proclamano la loro verità assoluta di fronte all’effettività,
seppure aurorale e precaria, di un’unica civiltà universale. In tal
modo, o riescono a superare la loro particolarità, oppure alimentano,
direttamente o indirettamente, l’immaginario bellico che, con
l’esaurirsi dello scontro mondiale tra il capitalismo e il comunismo,
ripropone una nuova guerra globale (o almeno la minaccia di scatenarla)
in nome dell’ostilità assoluta tra l’Occidente e l’Islam.
Si tratta, ancora una volta, di una guerra impossibile, se non nella
forma del puro annientamento, e però tutt’altro che priva di
conseguenze pratiche, non solo nei teatri dove tale guerra si sta
combattendo, con i massacri che fanno da scenario sanguinoso alla
nostra vita, ma anche nel tessuto dei rapporti umani, sfregiati
dall’ostilità che serpeggia, od esplode, nelle società incompiutamente
multiculturali dove viviamo. Società in preda alla paura e alla
regressione e quindi governate da forze politiche che rispecchiano tali
sentimenti.
Con il che non si intende tracciare un quadro unicamente e
unilateralmente fosco e negativo. Sappiamo bene che lo stato di degrado
a cui è giunta l’Italia -sempre alla ricerca di qualche primato-
non è universale. E anche in Italia non mancano forze molteplici,
seppure frantumate, divise o avverse tra di loro, che da tempo e
tenacemente perseguono, con più o meno consapevolezza, l’obiettivo di
dare sostanza ad una fratellanza universale, basata sul rispetto della
dignità di ogni singolo, oltre che dell’ambiente globalmente inteso in
cui alla specie umana è toccato in destino di vivere.
Nondimeno pensiero e azione debbono guardare in faccia e fare i conti
con la realtà, anche quando è spaventosa, e la nostra lo è seppure in
modo diverso dal passato, per trascenderla.
Cosa fare? Se quanto è stato detto sinora ha qualche fondamento, pur
nella consapevolezza dei limiti di ciò che riusciamo a pensare e a
fare, allora non è difficile indicare alcune cose che sono alla nostra
portata.
In primo luogo è possibile operare nella quotidianità in coerenza con i
principi professati, intervenendo nelle situazioni di prossimità,
laddove si manifestano le necessità: il bisogno materiale, il disagio
spirituale, il desiderio di conoscere per agire consapevolmente. In
tale modo fungiamo da tasselli anonimi di quel tessuto connettivo che
tiene in vita il legame sociale e impedisce lo sfascio completo della
società, per effetto dell’assurda guerra di tutti contro tutti che si è
insediata nell’economia e nella politica.
E’ una scelta nobile e utile, seppure del tutto misconosciuta, compiuta
da una quantità rilevante di persone e associazioni che compongono nel
loro insieme la minoranza virtuosa che ha sinora impedito il crollo
definitivo di questo paese. Bisogna però anche vedere i limiti di tale
modus operandi: esso risulta privo di rilevanza politica e certamente
non in grado di invertire la marcia inerziale verso il baratro.
Riteniamo perciò indispensabili altre due forme di attività. La prima
possiamo considerarla d’ordine sociale ed economico, ed è volta ad
incidere su una scenario anch’esso a portata di mano e che non può più
essere abbandonato all’insipienza dei politici di professione e
all’azione devastante degli uomini-macchina dediti alla religione del
profitto. La saldatura dei primi con i secondi e la loro
intercambiabilità vige su scala generale, ma nella dimensione del
territorio, della comunità locale, progetti operativi e alternativi
alla distruzione dell’ambiente, del patrimonio storico materiale e
immateriale, sono possibili, necessari, praticabili.
Il passaggio dalla testimonianza e dalla lotta alla realizzazione è
difficile e non privo di rischi, però è anche più che maturo. In questo
campo, come in ogni altro, non ci si deve muovere con schemi manichei:
è possibile, oltre che auspicabile, che singoli politici e imprenditori
vogliano mettersi in gioco e abbandonare vecchi e ripetitivi rituali.
Tutto ciò non va però disgiunto dall’azione sul piano intellettuale,
senza paura di essere tacciati di astrattismo e utopismo. E’ quindi
necessario argomentare e ribadire l’avvenuta unificazione del mondo,
vale dire della specie umana, e presentare questo passaggio d’epoca
straordinario come una grande opportunità, traendone tutte le
conseguenze pratiche: in primo luogo fine della guerra e cittadinanza
universale.
Siamo nel pieno di una transizione inarrestabile che suscita paure e
alimenta reazioni di ogni genere: se prevarranno non ci sarà futuro.
Dobbiamo scommettere sul contrario e ridare speranza alle giovani
generazioni. E’ possibile se l’azione dal basso si salda con la visione
del nuovo che sta nascendo: un parto difficile ma non impossibile.
Una proposta operativa. Provare a tradurre in pratiche precise dei
principi generali, o la stessa volontà di fare, può essere azzardato ma
è indispensabile. Pur nella consapevolezza che il passaggio necessita
dell’apporto di più persone ed esperienze, proviamo ad indicare un paio
di obiettivi che possono trasformarsi in progetti rispetto a cui
cercare le risorse umane ed economiche per la loro attuazione.
Oggi ogni territorio e le popolazioni che lo abitano debbono tornare a
fare i conti con i bisogni fondamentali: cibo, acqua, energia, salute,
istruzione. Non nel senso che debbano ricominciare da zero, come pure
certi pensano e come talvolta sarebbe auspicabile. Si tratta piuttosto
di fare ciò che è realisticamente possibile e urgente per dare nuove
basi al benessere del corpo e dello spirito, tenendo conto del punto a
cui siamo arrivati nella conoscenza e nella tecnologia, e però anche
nella distruzione dell’ambiente e della società.
A tal fine crediamo nella praticabilità e utilità di laboratori
sperimentali che affrontino, all’interno di un determinato territorio,
le questioni cruciali dell’agricoltura e dell’industria, mettendo
assieme i saperi locali e quelli degli immigrati, le potenzialità della
tecnologia e quelle della creatività individuale. I laboratori,
costruiti dal basso, ma senza escludere rapporti e apporti
istituzionali a vari livelli, debbono diventare luoghi di
sperimentazione di tecnologie appropriate, vale a dire confacenti alle
esigenze della società, in primo luogo al bisogno di lavoro dei
giovani, nonché rispettose il più possibile dell’ecosistema e atte a
mantenere e rivitalizzare il patrimonio storico. I laboratori dovranno
connettersi alle scuole e alle imprese che vorranno condividere i
progetti e la loro filosofia.
Obiettivo dei laboratori sarà la produzione di prototipi, pratiche,
metodologie, vale a dire sia di hardware che di software. E ciò non
solo in senso metaforico perché sono da riconoscere le potenzialità
delle tecnologie informatiche, opportunamente utilizzate, senza
esaltazioni o demonizzazioni. Il passaggio dalla fase sperimentale a
quella industriale è sia auspicabile che rischioso: gli esiti dipendono
interamente dal contesto sociale e culturale.
In tal senso, pur senza porre obiettivi politici troppo ambiziosi, è
importante che i laboratori sperimentali siano affiancati da centri di
interpretazione con il compito di raccogliere e far interagire il
meglio della cultura locale, inclusi i saperi professionali, con la
cultura i saperi degli immigrati, specie dei cosiddetti
extra-comunitari. Non solo luoghi di socializzazione ma di
ricostruzione del rapporto tra passato e presente, per fare della
comunità locale una patria culturale.
Nei centri di interpretazione, puntando decisamente all’utilizzo delle
tecnologie informatiche e multimediali, la dimensione verticale,
storica, potrà incontrarsi con l’apertura sul mondo, coniugando
universalismo e comunità locale, in totale controtendenza con quel che
oggi avviene, ma in piena rispondenza con ciò che necessita per essere
all’altezza del momento storico in cui ci troviamo
Oltre il Novecento. Quella che stiamo vivendo è una vera e propria
apocalisse culturale che ha la sua manifestazione più evidente
nel collasso del linguaggio, nella perdita inarrestabile della memoria
e di senso della storia. Ad un tale esito ha concorso la duplice e
simmetrica banalizzazione e demonizzazione del Novecento, posto
interamente sotto il segno delle catastrofi e dei crolli. Un racconto
unilaterale e insostenibile volto a cancellare, a rendere inutili, non
solo le indubbie realizzazioni che si sono avute nei campi più diversi,
dalle arti alla scienza, ma il significato della vita delle persone
anonime che hanno affrontato con coraggio e abnegazione provi
difficili, quali la povertà e le dittature, le guerre, l’oppressione
coloniale e razziale. Rispetto a ciò ogni atteggiamento liquidatorio è
inaccettabile e controproducente, alimentando sfiducia e nichilismo.
D’altro canto come non vedere che le culture politiche che hanno
egemonizzato la scena novecentesca sono definitivamente tramontate,
senza che siano state superate da nuove concezioni all’altezza dei
tempi. In tal senso bisogna sicuramente andare oltre il Novecento, pena
la regressione sopra evocata e che un po’ tutti constatano, anche se
poi ognuno ne dà una spiegazione diversa, oppure nessuna spiegazione
pensando che sia ineluttabile e insuperabile, derivando dalla natura
stessa degli uomini: un’ acquiescenza imparentata con la servitù
volontaria.
Nella politica del Novecento ha dominato il paradigma della guerra,
comunque coniugata: tra gli Stati, al loro interno, come guerra di
razze e di fedi, nonché guerra e illusorio predominio della tecnica
sulla natura.
Tutto ciò rappresenta un retaggio ingombrante e paralizzante che, come
detto, dobbiamo superare per aprire la strada a nuove azioni ed
esperienze. Un passaggio necessario verso il futuro che non può
avvenire senza conoscere il Novecento e l’Altronovecento, la natura
ambivalente della modernità e dei suoi esiti.
[1 dicembre 2010]
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