home>interventi/interviste> Discesa agli inferi e crepuscolo della speranza. Sul pensiero critico-dialettico-negativo.
Discesa agli inferi
e crepuscolo della speranza.
Sul pensiero critico-dialettico-negativo.
Tito Perlini
Rievocando il momento in cui, nel 1956,
si accostò all’Università di
Francoforte, provenendo dall’ambiente, diversissimo, di Bonn,
Habermas ha di recente richiamato la nostra attenzione su una
circostanza decisiva che ci rende in profondità il senso di
cos’ha rappresentato la ripresa di attività
dell’Institut für Sozialforschung per la nuova
Germania. Gli studiosi più giovani, che lo riscoprivano,
avevano perso la memoria di ciò che era stata la Germania di
Weimar e se ne sentivano divisi come da un abisso. Per i maestri di
Francoforte non era così: il tempo non aveva subito una
simile innaturale dilatazione. Si trattava di esperienze talmente
recenti da sembrare di far parte del presente in atto. I pensatori del
rinato Istituto potevano riallacciarsi mantenendo una
continuità con fatti, opere, persone e gruppi su cui la
catastrofe tedesca riusciva a farsi valere come la messa in scena di
una sorta di fine del mondo.
Horkheimer non spese molto tempo per
rientrare nella Germania devastata e pose le basi per una ripresa che
si voleva prontamente incisiva e che lo fu. Non ebbe esitazioni, in un
decennio in cui fu, tra l’altro, rettore
dell’Università, a cedere lo scettro
dell’impresa ad Adorno. “Durante gli anni cinquanta
non c’era probabilmente in tutta la repubblica federale
tedesca un altro luogo in cui fosse così ovvia la presenza
intellettuale degli anni venti” così si esprime
Habermas. Se Marcuse, Löwenthal, Fromm, Neumann e Kirchheimer
erano rimasti in America, nella Francoforte post-bellica circolavano i
nomi delle deità culturali di Weimar, che facevano parte di
un panorama che fino a pochi anni addietro era stato la
normalità d’ogni giorno. Per chi entrava allora
nel clima, per certi aspetti, favoloso di questo ambiente,
sopravvissuto alla persecuzione razziale e allo sterminio, consumatisi
in un giro d’anni incredibilmente breve,
l’impressione era quella di essersi addentrati in un nuovo
universo.
In tale clima, in cui le vittime
potenziali del nazismo ripresero il sopravvento, emarginando i loro
aguzzini, si seppe ridar vita a quelli che erano potuti sembrare, a
molti, fantasmi di un passato irrimediabilmente perduto.
L’unione produttiva di sociologia e filosofia
consentì di sfrondare il dibattito su Marx degli anni venti
di quanto di meramente storico conteneva e lo rese attuale. Ma
l’aspetto veramente originale del periodo in cui Adorno resse
l’Istituto – come ricorda uno studioso della terza
generazione, Axel Honneth – fu la fiducia che Adorno, in un
contesto mutilato, con prontezza accordò alla forza
analitica di un pensiero negativo che ben presto si rivelò
come l’aspetto determinante del suo insegnamento e della sua
figura.
Si mirò senza indugi ad
imprimere una svolta che fosse in grado di provocare effetti
percepibili nella mentalità corrente. La serie di lezioni
organizzate in occasione del centenario della nascita di Freud da
Alexander Mitscherlich e da Horkheimer, oltre ad essere un atto di
doverosa riparazione, si rivelò una delle iniziative
più efficaci e incise sul lavoro teorico
dell’istituto in maniera rilevante.
In che consiste l’idea
dominante, alla quale Adorno s’è costantemente
attenuto, nella prima fase di direzione del suo Istituto, accompagnata
e sorretta da una produzione teorica, progettata fin
dall’inizio ed elaborata gradualmente con tenacia lungo il
corso degli anni? Si può dire: nell’idea di una
patologia sociale della ragione, di cui è spia il
comportamento mimetico, che, reagendo ad una ragione deformata, segnala
che qualcosa non sta andando bene. La critica dell’ideologia,
che Adorno ha ripreso dal Lukács del saggio sulla
reificazione, secondo l’esigenza di un’ermeneutica
materialistica della storia naturale indicatagli da Walter Benjamin e
mai abbandonata, investe la sfera corporea rivelandoci che ci si trova
davanti ad una forma di vita mancata.
Nonostante i dubbi che nutriva sulla
possibilità di un riconoscimento collettivo della
realtà capitalistica, Adorno è rimasto ancorato
alla convinzione che ogni offuscamento, dovuto alla limitazione delle
facoltà razionali che consenta il perpetuarsi di forme di
vita mancate, sia accompagnato da sensazioni negative, le quali, sia
pur solo preriflessivamente, finiscono per infondere il senso di una
perdita. Freud ci persuase di come sia altamente significativo che,
grazie a tali sensazioni, venga in qualche modo avvertito il deformarsi
del nostro potere razionale, che può venir colto come tale
dalla presenza, a livello somatico, della sofferenza,
che ci accerta
dell’inibizione che colpisce la nostra
razionalità, la quale, sul piano delle giustificazioni di
sé, rimane inspiegata quindi incomprensibile. Questo
significa che le condizioni di vita capitalistiche indicano che la
sofferenza non dovrebbe esserci. Adorno fa sua la convinzione di Freud
per cui la sofferenza è motivata dal “bisogno di
guarire”, cioè dal desiderio che le cose vadano
diversamente.
Va tenuto presente un altro pensiero in
Adorno, che si impone come uno dei motivi ricorrenti di continuo nelle
sue riflessioni: quello che fa cader l’accento
sull’infanzia. Se è vero che la
ragione umana, nel
suo formarsi, molto deve alla mimesi,
all’affidarsi fiducioso
alla prospettiva dell’altro,
cioè un adulto cui
è legato affettivamente, che il bambino riceve, di
decentrare il proprio punto di vista verso una valutazione ponderata,
quindi razionale, delle circostanze di fatto su cui esprimere un
giudizio, può ben essere comprensibile come, nonostante
l’accecamento completo cui tende a risolversi
l’obbedienza ad una forma di vita immersa nel falso,
ciò di cui si fa esperienza riesca a sopravvivere e a
mantenere un legame con pensieri formatisi tramite l’amore.
E’ per questo che Adorno – e ce lo dimostrano a
iosa i Minima moralia, che al pensiero
dell’infanzia
concedono largo spazio – ha conservato la fiducia che gli
uomini potessero resistere alla reificazione e a ciò che
viene loro imposto dal pensiero dominante, mantenendo sveglio il
desiderio di sottrarsi ai vincoli che li subordinerebbero totalmente ad
una forma di vita come quella capitalistica, di cui egli ambisce a
darci una fisionomia.
La passione originaria da cui Adorno si
sentì investito in età giovanile fu la musica,
che è rimasta, del resto, sempre al centro dei suoi
interessi, grazie anche ai rapporti da lui coltivati con i
più importanti compositori, musicisti e musicologi della
prima parte del secolo ricchissimo intellettualmente e terribile
politicamente che fu il suo. Egli stesso mai rinunciò al suo
sentirsi un compositore. Risultò per molti aspetti decisivo
per la sua formazione il periodo trascorso a Vienna alla
metà degli anni ’20, dove si legò
strettamente ad Alban Berg, in cui riconobbe il proprio maestro.
Partecipò ad una serie di dibattiti tra i più
rilevanti che accompagnarono lungo i decenni la parabola e le
principali vicende della neue Musik e
attribuì a
Schönberg il ruolo di protagonista , di musicista dialettico
per eccellenza, di rappresentante esemplare del modernismo estetico. Ma
non va mai dimenticato – come ebbe modo di sottolineare a
Thomas Mann che lo volle come consigliere per la parte teorica del
Doktor Faustus – che, tra sociologia e
musica, Adorno si
ritrasse sempre dall’operare una scelta definitiva. Il suo
sforzo fu, all’opposto, quello di compenetrare e di portare
ad un alto grado di convergenza due campi che non voleva separare,
muovendosi così in ambiti in cui il suo pensiero ritenne di
doversi allo stesso tempo cimentare. Pur riconoscendo il peso sempre
più schiacciante della divisione intellettuale del lavoro,
non fece mai propria alcuna di quelle ideologie che insistevano sulla
inevitabilità o addirittura sulla doverosità di
una sempre più circoscritta e rigida specializzazione.
Composizione, teoria musicale e riflessione teorica di carattere
generale confluirono quindi in un alveo comune, anche se,
progressivamente, nel trascorrere degli anni, la teoria finì
per prevalere sul mero aspetto professionale, cosa di cui egli, in
qualche modo, si dolse. In un primo momento l’aspetto
musicologico si volse in prevalenza nella direzione di una critica
dell’ideologia, che lo indusse a privilegiare un approccio
sociologico, a proposito del quale scelse, nel momento del suo contatto
con la società di massa americana, come campo in cui
cimentarsi teoricamente, quello della musica leggera (vedansi a
proposito le ricerche e gli studi come collaboratore di Lazarsfeld
negli Sati Uniti).
Il cerchio, invece di restringersi, s’allarga: Adorno
avvicina la musica alle altre arti, in particolare alla pittura, e le
pone a confronto. Dalla musicologia in senso stretto si passa ad
affrontare i compiti sempre più ardui spettanti
all’arte nella presente civiltà, e il tipo di
riflessione che su di essa viene esercitata mira a sottolineare una
sociologia critica decisa ad esaminare i problemi di fondo, non
sottraendosi ad una curvatura di tipo filosofico che non può
trascurare interessi orientati in senso sempre più
marcatamente estetico fino a delineare un pensiero capace di reggersi
su basi estetico-filosofiche, facendo rientrare nel novero dei propri
interessi, oltre alla critica musicale, quella letteraria.
Adorno, ben presto, fa propria la
consapevolezza che i suoi sforzi devono dirigersi verso una Teoria
estetica, che si riveli capace di un ripensamento radicale
delle
esperienze novecentesche. L’arte è minacciata
mortalmente dal processo di una modernità che non sa
piegarsi criticamente su se stessa e si induce a privilegiare la
ragione puramente formale e strumentale. Le opere d’arte, per
scongiurare l’evenienza di venir fagocitate, come prodotti,
dalla prevalente ragione strumentale, devono attaccarsi al proprio
monadico isolamento come forma che rispecchia in
modo alterato e
insieme nega la realtà presente del mondo.
L’accento cade pertanto sulla contraddizione. Si impone
all’arte di guardare in faccia il proprio destino di morte e
di giocare d’astuzia per evitarne il compiersi (simile alle
lepri che, dandosi per morte, ingannano il cacciatore in un celebre
aforisma dei Minima moralia).
Adorno
considera fallito il compito di rivoluzione totale, adirittura di
liberazione cosmica, che le avanguardie artistiche novecentesche
s’erano proposte. Le sue aspettative non vengono riposte in
movimenti che vogliono essere di segno eversivo e che perseguono
pertanto fini estetici e insieme politici. Egli guarda a grandi figure
d’artisti controcorrente, da Mahler a Kafka a Beckett, da
Schönberg ad Alban Berg a Webern.
Significativo, a tale riguardo, il passo
in cui, nel libro adorniano su Mahler, si dice che la musica di Mahler
gli ricorda il “lungo sguardo di struggimento della Recherche
proustiana”, in cui riconosce che “una gioia e una
malinconia senza limiti pongono il loro enigma, che trova il suo ultimo
asilo nella proibizione di immagini di speranza”.
Nell’ulteriore fatica di Adorno verso una filosofia della
nuova musica s’impongono modifiche nei giudizi espressi su
Wagner, Richard Strauss e Stravinskij (vedansi gli scritti
dell’ultimo decennio).
Un lavoro non meno intenso è
stato svolto da Adorno in campo letterario, come testimoniato, ma non
esclusivamente, dalle raccolte intitolate Prismi
(1955) e Note per la
letteratura (1958). Assumono un forte risalto alcune figure,
fra cui
spiccano quelle di Kafka e Beckett. Nel saggio Appunti su
Kafka il
mimetismo adorniano ne Il processo costringe il
potere a farsi
riconoscere per quel che è, a svelarsi come mitologia e
avverte per sé il pericolo mortale di dissolversi. In Kafka
c’è una sorta di teologia inversa: il sottrarsi al
contesto della natura viene promesso unicamente a una vita
materialmente rovesciata. Si prende l’avvio, pertanto, dal
basso. Nella modernità degradata riemerge così la
preistoria.
Nel saggio su Finale di partita
si mette
in evidenza come un atteggiamento di ascesi radicale conduca alla
soppressione di ogni esternazione diretta del positivo. In Beckett
l’assurdità, che colpisce anche la sfera emotiva,
viene corredata di immagini e ci si lascia andare ad essa senza secondi
fini. Senza protesta esplicita è la realtà
stessa, abbandonata a se medesima, a ubbidire alla regressione. Sul
mondo è calata una luce cruda che significa solo
l’esilio del senso.
La riflessione sulla lirica odierna
conduce Adorno a cimentarsi con una delle vette della poesia tedesca.
Ciò che Hölderlin vuol far parlare è il
linguaggio stesso: la paratassi elude la gerarchia logica della
sintassi subordinante. Negli ultimi grandi inni hölderliniani
la soggettività non è né
l’assoluto né l’elemento ultimo.
Hölderlin si pone contro il mito
dell’auto-affermazione. Egli si allontana, così,
dall’idealismo come filosofia
dell’identità, mettendosi, al contrario, dalla
parte del non-identico.
La ribellione dell’arte si
esplica in primo luogo contro la riconduzione di sé a
qualsivoglia schema prefissato. La poesia, da Baudelaire in poi, deve
indursi anche a disarticolare il linguaggio e ad introdurre caos
nell’ordine.
II
Le ricerche condotte
all’Insituto negli anni ’20, nella fase che
possiamo definire preistorica, si erano orientate verso problematiche
marxiste. Carl Grünberg, nominato direttore, si era
pronunciato per una forma aperta di marxismo, che affrontasse questioni
gravitanti intorno alla crisi dell’economia capitalistica.
Numerosi collaboratorierano convinti che il socialismo e il comunismo
fossero modelli di un ordine sociale più giusto che
storicamente si sarebbe imposto rispetto al capitalismo. Inizialmente
tra l’Istituto e il movimento operaio in genere i confini non
erano ben tracciati.
E’ il 1931 l’anno di nascita effettivo
dell’Istituto, che vede in Horkheimer, divenuto il nuovo
direttore, il rifondatore dell’Istituto stesso, destinato a
restare in sella durante l’ultimo periodo della repubblica di
Weimar, l’esilio, il reinserimento della Germania sconfitta
nella vita normale delle relazioni internazionali e il ritorno a
Francoforte degli studiosi emigrati negli USA. Due sono le
caratteristiche che assume le direzione horkheimeriana:
l’elaborazione di una teoria materialistica e una relazione
tra la filosofia e le singole scienze che avrebbe dovuto condurre ad
una compenetrazione di ricerca empirico-fattuale e di riflessione
filosofica. Veniva assecondato un programma interdisciplinare che la
rivista dell’Istituto sostenne fino all’immediato
secondo dopoguerra. Leo Löwenthal, Herbert Marcuse e Friedrich
Pollock furono i nuovi acquisti del quadro teorico
dell’Istituto. Horkheimer definì la teoria critica
in contrapposizione alla teoria tradizionale. Adorno, per quanto
considerato dalla maggior parte dei suoi colleghi uno studioso
promettente, era allora ben lungi dall’essersi affermato come
una figura dominante dal punto di vista teorico. Bisogna attendere il
lavoro comune della Dialettica del’illluminismo,
che vede la
collaborazione tra Horkheimer e Adorno farsi sempre più
stretta, per percepire un salto di qualità tale da rendere
meno operante la distinzione stessa tra teoria tradizionale
e teoria
critica. Lo spostarsi del centro dell’attenzione
sulla
nozione di industria culturale muta sensibilmente i
connotati
principali della riflessione filosofica, recando con sé
anche una revisione del rapporto tra filosofia e sociologia.
E’ a questo punto che Adorno diventa il teorico di
Francoforte per eccellenza, pur restando, per sua stessa
volontà, infatti, l’autorità morale e
il prestigio di fondatore saldamente nelle mani di Horkheimer.
All’incirca vent’anni dura il periodo in cui Adorno
esercita la propria egemonia. Non si può, però,
affermare che questa circostanza abbia fatto sì che la
figura di Adorno sia stata in genere molto amata. Le preferenze degli
intellettuali di sinistra, in più di un paese, e
particolarmente in Italia negli ultimi anni della cosiddetta prima
Repubblica, sono andate al periodo della teoria critica che
s’è mossa in senso horkheimeriano. Il marxismo,
ancora in auge da noi in questo giro d’anni, ha giudicato che
la produzione teorica degli anni ’30 e dei primi anni
’40, quando si parlava di stato autoritario
e se ne
teorizzava in un senso che sembrava più aderente al marxismo
stesso, fosse più facilmente accordabile con le tradizioni
che avevano preso l’avvio dall’italo-marxismo,
mentre al francofortismo del dopoguerra venivano attribuiti connotati
ambigui, il che autorizzava l’accusa di indulgere ad un
aristocraticismo di fondo difficilmente conciliabile con le convinzioni
di cui tale sinistra si nutriva. Mal digerita fu la decisione di cui
Adorno diede prova nelle sue critiche alla produzione di massa, mentre
i fraintendimenti alimentati dal termine Aufklärung,
nonostante tutte le dichiarazioni di fedeltà a Kant, a Hegel
e a Marx, autorizzarono spesso i nostri critici a parlare di
irrazionalismo a proposito dei francofortesi.
Non devono stupire i rapporti tormentati
che i francofortesi si siano trovati ad intrattenere con tradizioni di
marxismo originate da questa o quella forma. I francofortesi non si
riallacciavano né ad un riformismo di stampo
socialdemocratico né all’ortodossia comunista con
le conseguenze staliniste.
Adorno ha giocato in questo secondo dopoguerra un ruolo singolarissimo:
quello di chi si carica sulle spalle un fardello dal peso soverchiante,
di cui, prima o poi, non poteva non restarne vittima. Egli non ha mai
voluto sul serio rinunciare alle molte promesse (mancate o tradite) di
un passato travolto da uno scacco matto. E’ rimasto dalla
parte del soccombente. Per un periodo che è durato
più di quanto si potesse ragionevolmente prevedere, egli ha
rappresentato quanto di meglio la Germania fosse ancora in grado di
esprimere al cospetto di una morte già consumata.
In Italia la nuova fase della teoria critica ha suscitato un vivace
interesse, ma è stata accolta in modi fortemente
contrastanti e con valutazioni fra di loro di segno opposto. Per una
minoranza di studiosi i Minima moralia, tradotti da
Renato Solmi per
Einaudi con l’aggiunta di una memorabile introduzione, hanno
rappresentato un evento di insolita importanza, tale da imprimersi
nella memoria come un’esperienza destinata a lasciare un
segno indelebile. Tuttavia prevalse un atteggiamento di diffidenza,
soprattutto da parte di quella sinistra che era impegnata ad imporre
per sé un modello gramsciano di stampo togliattiano. Da un
lato questo modello si richiamava ad uno storicismo in chiave crociana,
che avvertiva come radicalmente estraneo a sé ogni tipo di
marxismo cui s’era rifatto l’Istituto di
Francoforte nel suo passato; dall’altro nei Minima
moralia
colpiva l’atteggiamento, avvertito come scandaloso, nei
confronti dell’URSS, che veniva respinto come posizione
avversa al socialismo. Perché ci si potesse collocare a
sinistra era necessaria un’accettazione della fase del mondo
sovietico che era passata attraverso le vicende degli anni
‘20 e ’30.
Nonostante questo, la teoria critica ha esercitato in Italia una forte
attrazione dovuta – credo in gran parte – alle
difficoltà della modernizzazione italiana
Il gruppo francofortese, che in origine aveva guardato alla
società russa uscita dalla presa del potere da parte
bolscevica con esitazioni e tormentose oscillazioni, senza sapersi
decidere per una presa di posizione inequivoca, era uscito
dall’incertezza alla fine degli anni ’20, quando
Pollock si pronunciò, nei confronti del socialismo di stampo
sovietico, contro ogni obbedienza verso l’URSS da celebrare
come patria del socialismo sul piano mondiale, spezzando, sulla base di
analisi di stampo economico e sociale, i vincoli residui che poteveno
condurre ad un inserimento della Germania nel blocco sovietico quando,
al termine del secondo conflitto mondiale, ci si impegolò
nel giro di pochi anni nella guerra fredda. Nel giudizio di coloro che
si trovavano a militare nel blocco sovietico l’istituto
francofortese fu considerato come un gruppo che aveva rotto
con il socialismo, se non addirittura come un gruppo borghese
che fingeva di appellarsi a posizioni che non erano più le
sue, se mai lo erano state. La divisione della Germania in due stati
peggiorò le cose. Per la DDR ogni legittimazione della
Scuola di Francoforte, persino come gruppo borghese cui allearsi anche
solo temporaneamente in vista di obiettivi ben circoscritti, in nome
dell’antifascismo e nella prospettiva di una lotta da
condurre contro l’imperialismo americano, fu, in definitiva,
esclusa. La stessa intransigenza si produsse dall’altra
parte. Solo in occasione del ’68 la situazione
sembrò ammorbidirsi, ma non senza il manifestarsi di vistose
contraddizioni che impedirono un effettivo mutarsi dei termini
fondamentali di una situazione su cui in precedenza avevano agito
fattori non operanti sul piano internazionale (disgelo, conflitto
russo-cinese, dissenso nei paesi cosiddetti a “socialismo
reale”, ecc.). Questo spiega la prudenza politica di
Horkheimer e Adorno, cui fu negata a lungo ogni qualifica in
senso socialista. La convergenza di questi due personaggi, soprattutto
quando la posizione fondamentale del gruppo sembrò definirsi
nella Dialettica dell’Illuminismo spinse
molti ad attribuire
a quest’opera “maledetta” le stimmate di
uno spirito reazionario, che investì anche i Minima
moralia,
successivi di qualche anno. Solo molto più tardi, con il
prevalere del post-moderno, si è assistito ad una parziale
sdemonizzazione di quest’opera, messa al bando e ora
rivalutata limitatamente ad alcuni aspetti da parte di alcuni
interpreti che della liquidazione del marxismo e di ogni progressismo
si erano fatti paladini, e che ad essa erano soliti rifarsi per fornire
un’immagine che non si discosta, nell’essenziale,
da quella su cui s’era insistito in precedenza, se non per il
segno complessivo da darne, rovesciandone in definitiva le intenzioni.
Le accuse di aristocraticismo e di moralismo esacerbato, di spirito
anti-democratico, fondamentalmente rimangono, anche se in un quadro
profondamente mutato, in cui i “nemici” non sono
più gli stessi, anche se i vizi inficianti
l’insieme hanno assunto altre caratteristiche. Tenacemente i
modelli in senso positivo continuano ad avallare le vecchie condanne.
Si mira a celebrare, ora, uno sposalizio tra la posizione filosofica di
Adorno e quella di Heiddeger, che fino a poco fa avrebbe fatto
inorridire i due, che, come ben noto, si sono a lungo detestati in
vita, il secondo chiudendosi in un corrucciato silenzio venato di
disprezzo, mentre il primo, riconoscendo in lui l’avversario
irriducibile da liquidare nell’immediato dopoguerra. Non
suscita più alcuna disapprovazione il giudizio espresso dai
pensatori di Francoforte su Nietzsche: è data, come
è giusto che venisse data, per pacifica
l’ammissione del peso avuto dal contributo recato da questo
autore, sopprattutto dalla Genealogia della morale,
al discorso della
Dialettica dell’illuminismo. Non trova,
inoltre, obiezioni
rilevanti la ripresa dell’importanza di Schopenhauer nel
giudizio dell’ultimo Horkheimer. Anche se è da
aggiungere che su questo Adorno è stato più cauto
e freddo nel giudizio.
Circa la messa a punto di ciò che si deve intendere per
illuminismo, nozione la cui delicatezza per la
tradizione culturale
tedesca, cioè per un paese in cui il Sonderweg
ha costituito
costantemente un ruolo rilevante nel concepire la modernità,
e il percorso da imboccare per accedervi. Non è da
dimenticare che maggiore attenzione dovrebbe essere concessa al
significato delle parole. Dialettica
dell’illuminismo non
è la migliore traduzione di Dialektik der
Aufklärung, così come suona il titolo
originale
tedesco. Sarebbe stato meglio ricorrere per illuminismo al termine
rischiaramento, proposto, del resto, da Benedetto
Croce in altre
occasioni. Ci si sarebbe sottratti, nel caso di tale concetto, a
fastidiosi malintesi, intendendolo esclusivamente come quel ben
circoscrivibile movimento di idee del XVIII secolo, sorto
prevelentemente in Francia, che, col termine Aufklärung
ha una
precisa parentela (“filosofia dei lumi”,
“epoca dei lumi”, ecc.), ma non ne esaurisce il
significato. Si sarebbe evitato, in tal modo, di incorrere in equivoci
in cui sono incappati, da noi, Galvano Della Volpe e Colletti.
Il senso dell’opera del ’47 si offusca se si perde
di vista che per Aufklärung si deve
intendere il momento in
cui s’accende la ragione e in cui questa agisce nel senso di
una demitizzazione che è, in primo
luogo, una
demagicizzazione. Discostandosi da qualsiasi
discorso che ingenuamente
tenda ad esaltare il processo che conduce alla modernità
come un processo ininterrotto di emancipazione, i
due autori sostengono
che il progresso non è una tendenza irresistibile, destinata
sempre e comunque a trionfare, ma che esso può anche
alimentare il proprio contrario, rendersi problematico, promuovere
ciò che lo smentisce, tradursi nella propria negazione, dar
luogo a regressioni. L’Aufklärung,
come moto verso
la liberazione, è contraddittoriamente spinto a rovesciarsi,
diventa, esso stesso, una forma di oppressione. I controlli di cui il
progresso ha bisogno per attuarsi contengono in sé vistosi
pericoli, che portano all’attuarsi di un rafforzamento della
logica del dominio che assoggetta a sé la natura, sia quella
esterna sia quella interna all’uomo, al punto che la
prevalenza dell’asservimento si produce proprio là
dove dovrebbe aver la meglio l’impulso alla liberazione. Non
c’è una strada che porti immancabilmente al
migliore degli esiti. Di fronte ad un discorso tendente a mettere
così le cose, il marxismo corrente è rimasto
sempre sulla difensiva, senza saper rispondere con efficacia alle sfide
che gli venivano lanciate e, in questo modo, esso
s’è esposto a inconvenienti e a disavventure cui
non ha saputo porre rimedio. E la coppia Horkheimer-Adorno ha insistito
su questo tasto, appellandosi a Hegel e a Marx; al primo per
l’attaccamento strenuo alla contraddizione, per non tradire
la quale viene lasciata cadere ogni tendenza conciliativa, mentre di
Marx viene tenuta presente la categoria del lavoro sociale e il suo
concetto delle forme storiche della coscienza. Costante,
altresì, il riferimento al Freud de Il disagio
della
civilità, per il quale le aspirazioni alla
felicità degli individui devono essere sacrificate ad un
ordine sociale che si basa sulla costrizione al lavoro e sulla rinuncia
alle pulsioni che perpetua il dolore nella storia, seguendo le linee
direttive dello stesso discorso che Herbert Marcuse stava
concettualmente elaborando negli USA e che avrebbe trovato sbocco in
Eros e cività. Nella consapevolezza che
cultura e barbarie
si richiamavano a vicenda in un tempo stregato, in cui il soggetto
ormai sovrano esercita la sua tirannia, mirando a conservare se stesso
proprio in quel dominio, la liberazione dal quale pure era il compito
principale che gli s’era proposto. Gli episodi tratti
dall’Odissea, tra cui quello sulle sirene,
i richiami a Sade,
gli Elementi dell’antisemitismo avvolgono
la parabola del
soggetto sovrano e della tirannia che questo rafforza proprio quando
dovrebbe porre le condizioni per la sua soppressione, esasperando il
nucleo del discorso, conferendogli un carattere oltranzistico.
La parte dedicata all’industria culturale è quella
che senz’altro ha suscitato le reazioni più
decise, e le ben note accuse mosse da quella parte di un pubblico colto
che voleva distinguersi nettamente da posizioni considerate
“passatiste”. E’ certamente la parte, per
i progressisti ad oltranza, che più facilmente si prestava a
venir messa alla berlina, quasi fosse l’espressione di un
Kulturpessimismus anacronistico venato di un
aristocraticismo
nostalgico e tendenzialmente reazionario. In essa quelle che venivano
respinte come “esagerazioni”, soprattutto nel
fornire una cupa visione degli orientamenti destinati –
secondo siffatto giudizio – a trionfare in un presente di
decadenza, risultavano più visibili.
Oggi il processo d’appiattimento è giunto ad un
punto tale da non consentire più le tensioni che avevano
animato Horkheimer e Adorno alla fine della seconda guerra mondiale,
quando le speranze messianiche erano affidate ad un marxismo capace di
ritrovare, al di là di tutte le deformazioni cui
s’era esposto nel corso della sua tormentata storia, i propri
impulsi originari, la propria spinta verso la liberazione. Le
esagerazioni hanno perso la carica che le rendevano simili a choc
salutari. Le previsioni che venivano giudicate azzardate si sono
avverate e quest’opera, che era una sorta di S.O.S., ha perso
gran parte della sua capacità d’impatto. Il senso
comune non ha alcuna difficoltà oggi ad ammettere come vere
posizioni prima avvertite come estremistiche e, come tali, rifuggite,
spingendosi addirittura a darne una valutazione di segno positivo. I
teorici del postmoderno hanno rovesciato la frittata. Là
dove gli autori della Dialettica dell’illuminismo
avvertivano
la presenza di una falsa emancipazione, i teorici attuali scorgono una
liberazione che si attua in un orizzonte privo di punti di riferimento.
Ed è proprio la preoccupazione di una neutralizzazione della
teoria critica ad aver spinto Adorno ad insistere sempre di
più sull’intensificazione di quel dolore che,
nella dialettica, si induce ad elevarsi a concetto.
Il misoneismo rimproverato ai due autori ha condotto coloro che se ne
ritraevano, sconcertati, talvolta a parlare di misantropia ed
è sembrato più volte sottolineare il tono di una
disapprovazione che veniva avvertita dallo zelo dei “buoni
democratici” come un dovere morale. La reazione è
stata così forte e tanto ha guadagnato in estensione da
diventare un luogo comune. Dispiace che persino Habermas, al seguito di
una rilettura di quest’opera definita
“nera” e dei messaggi in bottiglia in essa
contenuti, si sia indotto a prendere le distanze dallo spirito che la
anima e che è frutto di un accordo formatosi in quasi un
decennio tra i due massimi rappresentanti della teoria critica.
Oggi lo scandalo che avvolgeva queste pagine mostra di essersi
sgonfiato. Si dà per acquisito ciò da cui i suoi
due autori volevano metterci in guardia.
III
Il Congresso dei sociologi che si tenne a Heidelberg nel 1964, in cui
fu celebrato il centenario della nascita di Max Weber, vide imputati
insieme non solo i due autori della Dialettica
dell’illuminismo, ma ruotò attorno alla
relazione
di Marcuse, Industrializzazione e capitalismo
nell’opera di
Max Weber, il successo del quale riscosso presso i sociologi
tedeschi
fu incrinato dalle critiche demolitorie che, in sede di discussione,
gli furono rivolte soprattutto da due specialisti weberiani come
Benedix e Nelson.
Ma gli anni ’60, che pure portano a conclusione con successo
il programma che Adorno s’era prefissato per
l’istituto, sono animati da una discussione che investe lo
scontro tra le diverse metodologie della ricerca sociale. Ne deriva la
disputa tra Popper e lui, nota come Poitivismusstreit.
Il confronto che
include e coinvolge nel suo corso diversi studiosi non è
privo di note aspre e di durezze. Non si può nascondere che
a riportare una vittoria ai punti, furono indubbiamente Popper e i suoi
seguaci. I socialdemocratici tedeschi, Helmut Schmidt in testa, cui si
accodarono esponenti politici di altri paesi (tra cui
l’Italia) si pronunciarono chiaramente a favore di Popper e
gli attribuirono addirittura una legittimazione sul piano politico,
invitando i socialisti a far propria l’epistemologia del
razionalismo critico. Da noi, autorevoli esponenti del PCI non furono
da meno. Il clima culturale ne fu scosso e mutò
sensibilmente.
Dopo essere stata innumerevoli volte accusata di esserlo stata troppo
poco, o nulla affatto, alla teoria critica fu imputato, al contrario,
di essere subordinata al marxismo e perciò inclusa nella sua
crisi. Questo fu l’estremo paradosso con cui si
cercò di provocare la fine del pensiero
critico-dialettico-negativo.
Il movimento sudentesco che, nella sua fase iniziale aveva tratto
ispirazione dalla teoria critica, s’è rivoltato
contro di essa quando s’è accorta che i docenti
dell’istituto non intendevano concedere alcuna legittimazione
alla volgarità semplificatrice dell’Aktionismus.
Vengono così a porsi le premesse per un ridimensionamento
dei motivi-chiave con cui s’era espressa
un’avanguardia intellettuale tendente all’egemonia.
Le si contrappongono correnti, prevalentemente di stampo anglosassone,
che non solo pongono l’esigenza di un mutato orizzonte
filosofico e culturale, ma appaiono decise ad operare in tal senso
mediante revisioni e nuovi quadri concettuali. Si riafferma un
razionalismo che mira a disfarsi della dialettica e a sostituire il
marxismo con un neo-liberalismo dalle molte facce, che si sbarazza di
ogni tematica di impostazione anti-capitalistica.
La teoria critica, investita da più parti, scossa e
barcollante, non poteva restare quel che era prima. Per evitare di
alzare semplicemente bandiera bianca, doveva non cambiar pelle, o
almeno darsi nuove sembianze. La seconda teoria critica, frutto della
cosiddetta svolta linguistica di Habermas e Apel, ha rappresentato una
forma di sopravvivenza con tutta l’ambiguità del
termine. Essa, da un lato non poteva non darsi una mossa,
dall’altro si può parlare di un cedimento, se non
proprio di un’abdicazione. L’intenzione era di
duplice natura: Habermas può essere considerato sia come un
apostata ansioso di liberarsi di un’eredità
divenuta troppo pesante sia come un intelligente innovatore che si
è prodigato a rimettere una teoria invecchiata al passo con
i tempi, mantenendo, però, una sua fedeltà alla
storia dell’Istituto, ricostruito in modo originale nelle sue
linee fondamentali.
Rispetto a Horkheimer e ad Adorno, Habermas comunque è
un’altra cosa, sia pur degna di considerazione (come
indubbiamente lo è il recente discorso sulla
contrapposizione tra la diffusione di rappresentazioni naturalistiche
del mondo e il crescente influsso politico esercitato dalle ortodossie
religiose).
Intendiamoci: il pensiero di Habermas è, se lo si colloca
nel quadro scombussolato delle filosofie che oggi in Europa si dividono
il campo, qualcosa di altamente decoroso, ma – lo ripeto
– non è ciò che si era inteso per
pensiero critico-dialettico-negativo.
La teoria critica è stata ad un certo punto sopraffatta
perché richiedeva troppo sforzo e una tensione che era
destinata a risultare innaturale. Era necessario – e questo
va detto ad onore di Habermas – fare un passo indietro e
rassegnarsi ad un ripiegamento (non si sa se temporaneo o no) e ad
un’attenuazione dei motivi-chiave. Pochi sono stati gli
indirizzi di pensiero che, come quello che stiamo esaminando, abbiano
mirato a sciogliere nodi teorici così ardui e a
corrispondere allo spirito dei tempi in modo così radicale
al di fuori di ogni concessione e di ogni compromesso. Per certi versi,
questa forma di pensiero non ha rappresentato solamente il Novecento,
è stata essa stessa il Novecento,
assumendone tutto il peso,
artisticamente e politicamente. La voce dei suoi esponenti è
stata soffocata, ma qualcosa è rimasto, sia pur affidato ad
un’estrema minoranza. In un momento in cui il domani altro
dall’oggi mostrava di avere la meglio su qualsiasi
prospettazione del futuro come mero prolungamento di un presente sempre
più insopportabile nella sua sicumera, è il
passato a balzare prepotentemente in primo piano, vale a dire quel
Novecento, secolo di orrori che hanno mostrato di saper convivere con
straordinarie scoperte, con slanci di genialità e una
volontà di rinnovamento ai quali non ho esitazione a
ribadire la mia fedeltà. Il pensiero critico non guarda ad
un futuro che sta mancando a se stesso, ma ad un passato che
è ancora in grado di alimentare le speranze più
ardite. E’ un congedo che si traduce in un appello alla
nobiltà della memoria, di una memoria che non rinuncia a
serbare in sé la possibilità di un futuro diverso
dall’oggi.
[17 febbraio 2011]
home>interventi/interviste > Discesa agli inferi e crepuscolo della speranza. Sul pensiero critico-dialettico-negativo.