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Discesa agli inferi e crepuscolo della speranza.
Sul pensiero critico-dialettico-negativo. 

Tito Perlini




    Rievocando il momento in cui, nel 1956, si accostò all’Università di Francoforte, provenendo dall’ambiente, diversissimo, di Bonn, Habermas ha di recente richiamato la nostra attenzione su una circostanza decisiva che ci rende in profondità il senso di cos’ha rappresentato la ripresa di attività dell’Institut für Sozialforschung per la nuova Germania. Gli studiosi più giovani, che lo riscoprivano, avevano perso la memoria di ciò che era stata la Germania di Weimar e se ne sentivano divisi come da un abisso. Per i maestri di Francoforte non era così: il tempo non aveva subito una simile innaturale dilatazione. Si trattava di esperienze talmente recenti da sembrare di far parte del presente in atto. I pensatori del rinato Istituto potevano riallacciarsi mantenendo una continuità con fatti, opere, persone e gruppi su cui la catastrofe tedesca riusciva a farsi valere come la messa in scena di una sorta di fine del mondo.
    Horkheimer non spese molto tempo per rientrare nella Germania devastata e pose le basi per una ripresa che si voleva prontamente incisiva e che lo fu. Non ebbe esitazioni, in un decennio in cui fu, tra l’altro, rettore dell’Università, a cedere lo scettro dell’impresa ad Adorno. “Durante gli anni cinquanta non c’era probabilmente in tutta la repubblica federale tedesca un altro luogo in cui fosse così ovvia la presenza intellettuale degli anni venti” così si esprime Habermas. Se Marcuse, Löwenthal, Fromm, Neumann e Kirchheimer erano rimasti in America, nella Francoforte post-bellica circolavano i nomi delle deità culturali di Weimar, che facevano parte di un panorama che fino a pochi anni addietro era stato la normalità d’ogni giorno. Per chi entrava allora nel clima, per certi aspetti, favoloso di questo ambiente, sopravvissuto alla persecuzione razziale e allo sterminio, consumatisi in un giro d’anni incredibilmente breve, l’impressione era quella di essersi addentrati in un nuovo universo.
    In tale clima, in cui le vittime potenziali del nazismo ripresero il sopravvento, emarginando i loro aguzzini, si seppe ridar vita a quelli che erano potuti sembrare, a molti, fantasmi di un passato irrimediabilmente perduto. L’unione produttiva di sociologia e filosofia consentì di sfrondare il dibattito su Marx degli anni venti di quanto di meramente storico conteneva e lo rese attuale. Ma l’aspetto veramente originale del periodo in cui Adorno resse l’Istituto – come ricorda uno studioso della terza generazione, Axel Honneth – fu la fiducia che Adorno, in un contesto mutilato, con prontezza accordò alla forza analitica di un pensiero negativo che ben presto si rivelò come l’aspetto determinante del suo insegnamento e della sua figura.
    Si mirò senza indugi ad imprimere una svolta che fosse in grado di provocare effetti percepibili nella mentalità corrente. La serie di lezioni organizzate in occasione del centenario della nascita di Freud da Alexander Mitscherlich e da Horkheimer, oltre ad essere un atto di doverosa riparazione, si rivelò una delle iniziative più efficaci e incise sul lavoro teorico dell’istituto in maniera rilevante.
    In che consiste l’idea dominante, alla quale Adorno s’è costantemente attenuto, nella prima fase di direzione del suo Istituto, accompagnata e sorretta da una produzione teorica, progettata fin dall’inizio ed elaborata gradualmente con tenacia lungo il corso degli anni? Si può dire: nell’idea di una patologia sociale della ragione, di cui è spia il comportamento mimetico, che, reagendo ad una ragione deformata, segnala che qualcosa non sta andando bene. La critica dell’ideologia, che Adorno ha ripreso dal Lukács del saggio sulla reificazione, secondo l’esigenza di un’ermeneutica materialistica della storia naturale indicatagli da Walter Benjamin e mai abbandonata, investe la sfera corporea rivelandoci che ci si trova davanti ad una forma di vita mancata.
    Nonostante i dubbi che nutriva sulla possibilità di un riconoscimento collettivo della realtà capitalistica, Adorno è rimasto ancorato alla convinzione che ogni offuscamento, dovuto alla limitazione delle facoltà razionali che consenta il perpetuarsi di forme di vita mancate, sia accompagnato da sensazioni negative, le quali, sia pur solo preriflessivamente, finiscono per infondere il senso di una perdita. Freud ci persuase di come sia altamente significativo che, grazie a tali sensazioni, venga in qualche modo avvertito il deformarsi del nostro potere razionale, che può venir colto come tale dalla presenza, a livello somatico, della sofferenza, che ci accerta dell’inibizione che colpisce la nostra razionalità, la quale, sul piano delle giustificazioni di sé, rimane inspiegata quindi incomprensibile. Questo significa che le condizioni di vita capitalistiche indicano che la sofferenza non dovrebbe esserci. Adorno fa sua la convinzione di Freud per cui la sofferenza è motivata dal “bisogno di guarire”, cioè dal desiderio che le cose vadano diversamente.
    Va tenuto presente un altro pensiero in Adorno, che si impone come uno dei motivi ricorrenti di continuo nelle sue riflessioni: quello che fa cader l’accento sull’infanzia. Se è vero che la ragione umana, nel suo formarsi, molto deve alla mimesi, all’affidarsi fiducioso alla prospettiva dell’altro, cioè un adulto cui è legato affettivamente, che il bambino riceve, di decentrare il proprio punto di vista verso una valutazione ponderata, quindi razionale, delle circostanze di fatto su cui esprimere un giudizio, può ben essere comprensibile come, nonostante l’accecamento completo cui tende a risolversi l’obbedienza ad una forma di vita immersa nel falso, ciò di cui si fa esperienza riesca a sopravvivere e a mantenere un legame con pensieri formatisi tramite l’amore. E’ per questo che Adorno – e ce lo dimostrano a iosa i Minima moralia, che al pensiero dell’infanzia concedono largo spazio – ha conservato la fiducia che gli uomini potessero resistere alla reificazione e a ciò che viene loro imposto dal pensiero dominante, mantenendo sveglio il desiderio di sottrarsi ai vincoli che li subordinerebbero totalmente ad una forma di vita come quella capitalistica, di cui egli ambisce a darci una fisionomia.
    La passione originaria da cui Adorno si sentì investito in età giovanile fu la musica, che è rimasta, del resto, sempre al centro dei suoi interessi, grazie anche ai rapporti da lui coltivati con i più importanti compositori, musicisti e musicologi della prima parte del secolo ricchissimo intellettualmente e terribile politicamente che fu il suo. Egli stesso mai rinunciò al suo sentirsi un compositore. Risultò per molti aspetti decisivo per la sua formazione il periodo trascorso a Vienna alla metà degli anni ’20, dove si legò strettamente ad Alban Berg, in cui riconobbe il proprio maestro. Partecipò ad una serie di dibattiti tra i più rilevanti che accompagnarono lungo i decenni la parabola e le principali vicende della neue Musik e attribuì a Schönberg il ruolo di protagonista , di musicista dialettico per eccellenza, di rappresentante esemplare del modernismo estetico. Ma non va mai dimenticato – come ebbe modo di sottolineare a Thomas Mann che lo volle come consigliere per la parte teorica del Doktor Faustus – che, tra sociologia e musica, Adorno si ritrasse sempre dall’operare una scelta definitiva. Il suo sforzo fu, all’opposto, quello di compenetrare e di portare ad un alto grado di convergenza due campi che non voleva separare, muovendosi così in ambiti in cui il suo pensiero ritenne di doversi allo stesso tempo cimentare. Pur riconoscendo il peso sempre più schiacciante della divisione intellettuale del lavoro, non fece mai propria alcuna di quelle ideologie che insistevano sulla inevitabilità o addirittura sulla doverosità di una sempre più circoscritta e rigida specializzazione. Composizione, teoria musicale e riflessione teorica di carattere generale confluirono quindi in un alveo comune, anche se, progressivamente, nel trascorrere degli anni, la teoria finì per prevalere sul mero aspetto professionale, cosa di cui egli, in qualche modo, si dolse. In un primo momento l’aspetto musicologico si volse in prevalenza nella direzione di una critica dell’ideologia, che lo indusse a privilegiare un approccio sociologico, a proposito del quale scelse, nel momento del suo contatto con la società di massa americana, come campo in cui cimentarsi teoricamente, quello della musica leggera (vedansi a proposito le ricerche e gli studi come collaboratore di Lazarsfeld negli Sati Uniti).
Il cerchio, invece di restringersi, s’allarga: Adorno avvicina la musica alle altre arti, in particolare alla pittura, e le pone a confronto. Dalla musicologia in senso stretto si passa ad affrontare i compiti sempre più ardui spettanti all’arte nella presente civiltà, e il tipo di riflessione che su di essa viene esercitata mira a sottolineare una sociologia critica decisa ad esaminare i problemi di fondo, non sottraendosi ad una curvatura di tipo filosofico che non può trascurare interessi orientati in senso sempre più marcatamente estetico fino a delineare un pensiero capace di reggersi su basi estetico-filosofiche, facendo rientrare nel novero dei propri interessi, oltre alla critica musicale, quella letteraria.
    Adorno, ben presto, fa propria la consapevolezza che i suoi sforzi devono dirigersi verso una Teoria estetica, che si riveli capace di un ripensamento radicale delle esperienze novecentesche. L’arte è minacciata mortalmente dal processo di una modernità che non sa piegarsi criticamente su se stessa e si induce a privilegiare la ragione puramente formale e strumentale. Le opere d’arte, per scongiurare l’evenienza di venir fagocitate, come prodotti, dalla prevalente ragione strumentale, devono attaccarsi al proprio monadico isolamento come forma che rispecchia in modo alterato e insieme nega la realtà presente del mondo. L’accento cade pertanto sulla contraddizione. Si impone all’arte di guardare in faccia il proprio destino di morte e di giocare d’astuzia per evitarne il compiersi (simile alle lepri che, dandosi per morte, ingannano il cacciatore in un celebre aforisma dei Minima moralia).
        Adorno considera fallito il compito di rivoluzione totale, adirittura di liberazione cosmica, che le avanguardie artistiche novecentesche s’erano proposte. Le sue aspettative non vengono riposte in movimenti che vogliono essere di segno eversivo e che perseguono pertanto fini estetici e insieme politici. Egli guarda a grandi figure d’artisti controcorrente, da Mahler a Kafka a Beckett, da Schönberg ad Alban Berg a Webern.
    Significativo, a tale riguardo, il passo in cui, nel libro adorniano su Mahler, si dice che la musica di Mahler gli ricorda il “lungo sguardo di struggimento della Recherche proustiana”, in cui riconosce che “una gioia e una malinconia senza limiti pongono il loro enigma, che trova il suo ultimo asilo nella proibizione di immagini di speranza”. Nell’ulteriore fatica di Adorno verso una filosofia della nuova musica s’impongono modifiche nei giudizi espressi su Wagner, Richard Strauss e Stravinskij (vedansi gli scritti dell’ultimo decennio).
    Un lavoro non meno intenso è stato svolto da Adorno in campo letterario, come testimoniato, ma non esclusivamente, dalle raccolte intitolate Prismi (1955) e Note per la letteratura (1958). Assumono un forte risalto alcune figure, fra cui spiccano quelle di Kafka e Beckett. Nel saggio Appunti su Kafka il mimetismo adorniano ne Il processo costringe il potere a farsi riconoscere per quel che è, a svelarsi come mitologia e avverte per sé il pericolo mortale di dissolversi. In Kafka c’è una sorta di teologia inversa: il sottrarsi al contesto della natura viene promesso unicamente a una vita materialmente rovesciata. Si prende l’avvio, pertanto, dal basso. Nella modernità degradata riemerge così la preistoria.
    Nel saggio su Finale di partita si mette in evidenza come un atteggiamento di ascesi radicale conduca alla soppressione di ogni esternazione diretta del positivo. In Beckett l’assurdità, che colpisce anche la sfera emotiva, viene corredata di immagini e ci si lascia andare ad essa senza secondi fini. Senza protesta esplicita è la realtà stessa, abbandonata a se medesima, a ubbidire alla regressione. Sul mondo è calata una luce cruda che significa solo l’esilio del senso.
    La riflessione sulla lirica odierna conduce Adorno a cimentarsi con una delle vette della poesia tedesca. Ciò che Hölderlin vuol far parlare è il linguaggio stesso: la paratassi elude la gerarchia logica della sintassi subordinante. Negli ultimi grandi inni hölderliniani la soggettività non è né l’assoluto né l’elemento ultimo. Hölderlin si pone contro il mito dell’auto-affermazione. Egli si allontana, così, dall’idealismo come filosofia dell’identità, mettendosi, al contrario, dalla parte del non-identico.
    La ribellione dell’arte si esplica in primo luogo contro la riconduzione di sé a qualsivoglia schema prefissato. La poesia, da Baudelaire in poi, deve indursi anche a disarticolare il linguaggio e ad introdurre caos nell’ordine.

II
    Le ricerche condotte all’Insituto negli anni ’20, nella fase che possiamo definire preistorica, si erano orientate verso problematiche marxiste. Carl Grünberg, nominato direttore, si era pronunciato per una forma aperta di marxismo, che affrontasse questioni gravitanti intorno alla crisi dell’economia capitalistica. Numerosi collaboratorierano convinti che il socialismo e il comunismo fossero modelli di un ordine sociale più giusto che storicamente si sarebbe imposto rispetto al capitalismo. Inizialmente tra l’Istituto e il movimento operaio in genere i confini non erano ben tracciati.
E’ il 1931 l’anno di nascita effettivo dell’Istituto, che vede in Horkheimer, divenuto il nuovo direttore, il rifondatore dell’Istituto stesso, destinato a restare in sella durante l’ultimo periodo della repubblica di Weimar, l’esilio, il reinserimento della Germania sconfitta nella vita normale delle relazioni internazionali e il ritorno a Francoforte degli studiosi emigrati negli USA. Due sono le caratteristiche che assume le direzione horkheimeriana: l’elaborazione di una teoria materialistica e una relazione tra la filosofia e le singole scienze che avrebbe dovuto condurre ad una compenetrazione di ricerca empirico-fattuale e di riflessione filosofica. Veniva assecondato un programma interdisciplinare che la rivista dell’Istituto sostenne fino all’immediato secondo dopoguerra. Leo Löwenthal, Herbert Marcuse e Friedrich Pollock furono i nuovi acquisti del quadro teorico dell’Istituto. Horkheimer definì la teoria critica in contrapposizione alla teoria tradizionale. Adorno, per quanto considerato dalla maggior parte dei suoi colleghi uno studioso promettente, era allora ben lungi dall’essersi affermato come una figura dominante dal punto di vista teorico. Bisogna attendere il lavoro comune della Dialettica del’illluminismo, che vede la collaborazione tra Horkheimer e Adorno farsi sempre più stretta, per percepire un salto di qualità tale da rendere meno operante la distinzione stessa tra teoria tradizionale e teoria critica. Lo spostarsi del centro dell’attenzione sulla nozione di industria culturale muta sensibilmente i connotati principali della riflessione filosofica, recando con sé anche una revisione del rapporto tra filosofia e sociologia.
E’ a questo punto che Adorno diventa il teorico di Francoforte per eccellenza, pur restando, per sua stessa volontà, infatti, l’autorità morale e il prestigio di fondatore saldamente nelle mani di Horkheimer. All’incirca vent’anni dura il periodo in cui Adorno esercita la propria egemonia. Non si può, però, affermare che questa circostanza abbia fatto sì che la figura di Adorno sia stata in genere molto amata. Le preferenze degli intellettuali di sinistra, in più di un paese, e particolarmente in Italia negli ultimi anni della cosiddetta prima Repubblica, sono andate al periodo della teoria critica che s’è mossa in senso horkheimeriano. Il marxismo, ancora in auge da noi in questo giro d’anni, ha giudicato che la produzione teorica degli anni ’30 e dei primi anni ’40, quando si parlava di stato autoritario e se ne teorizzava in un senso che sembrava più aderente al marxismo stesso, fosse più facilmente accordabile con le tradizioni che avevano preso l’avvio dall’italo-marxismo, mentre al francofortismo del dopoguerra venivano attribuiti connotati ambigui, il che autorizzava l’accusa di indulgere ad un aristocraticismo di fondo difficilmente conciliabile con le convinzioni di cui tale sinistra si nutriva. Mal digerita fu la decisione di cui Adorno diede prova nelle sue critiche alla produzione di massa, mentre i fraintendimenti alimentati dal termine Aufklärung, nonostante tutte le dichiarazioni di fedeltà a Kant, a Hegel e a Marx, autorizzarono spesso i nostri critici a parlare di irrazionalismo a proposito dei francofortesi.
    Non devono stupire i rapporti tormentati che i francofortesi si siano trovati ad intrattenere con tradizioni di marxismo originate da questa o quella forma. I francofortesi non si riallacciavano né ad un riformismo di stampo socialdemocratico né all’ortodossia comunista con le conseguenze staliniste.
Adorno ha giocato in questo secondo dopoguerra un ruolo singolarissimo: quello di chi si carica sulle spalle un fardello dal peso soverchiante, di cui, prima o poi, non poteva non restarne vittima. Egli non ha mai voluto sul serio rinunciare alle molte promesse (mancate o tradite) di un passato travolto da uno scacco matto. E’ rimasto dalla parte del soccombente. Per un periodo che è durato più di quanto si potesse ragionevolmente prevedere, egli ha rappresentato quanto di meglio la Germania fosse ancora in grado di esprimere al cospetto di una morte già consumata.
In Italia la nuova fase della teoria critica ha suscitato un vivace interesse, ma è stata accolta in modi fortemente contrastanti e con valutazioni fra di loro di segno opposto. Per una minoranza di studiosi i Minima moralia, tradotti da Renato Solmi per Einaudi con l’aggiunta di una memorabile introduzione, hanno rappresentato un evento di insolita importanza, tale da imprimersi nella memoria come un’esperienza destinata a lasciare un segno indelebile. Tuttavia prevalse un atteggiamento di diffidenza, soprattutto da parte di quella sinistra che era impegnata ad imporre per sé un modello gramsciano di stampo togliattiano. Da un lato questo modello si richiamava ad uno storicismo in chiave crociana, che avvertiva come radicalmente estraneo a sé ogni tipo di marxismo cui s’era rifatto l’Istituto di Francoforte nel suo passato; dall’altro nei Minima moralia colpiva l’atteggiamento, avvertito come scandaloso, nei confronti dell’URSS, che veniva respinto come posizione avversa al socialismo. Perché ci si potesse collocare a sinistra era necessaria un’accettazione della fase del mondo sovietico che era passata attraverso le vicende degli anni ‘20 e ’30.
Nonostante questo, la teoria critica ha esercitato in Italia una forte attrazione dovuta – credo in gran parte – alle difficoltà della modernizzazione italiana
Il gruppo francofortese, che in origine aveva guardato alla società russa uscita dalla presa del potere da parte bolscevica con esitazioni e tormentose oscillazioni, senza sapersi decidere per una presa di posizione inequivoca, era uscito dall’incertezza alla fine degli anni ’20, quando Pollock si pronunciò, nei confronti del socialismo di stampo sovietico, contro ogni obbedienza verso l’URSS da celebrare come patria del socialismo sul piano mondiale, spezzando, sulla base di analisi di stampo economico e sociale, i vincoli residui che poteveno condurre ad un inserimento della Germania nel blocco sovietico quando, al termine del secondo conflitto mondiale, ci si impegolò nel giro di pochi anni nella guerra fredda. Nel giudizio di coloro che si trovavano a militare nel blocco sovietico l’istituto francofortese  fu considerato come un gruppo che aveva rotto con il socialismo, se non addirittura  come un gruppo borghese che fingeva di appellarsi a posizioni che non erano più le sue, se mai lo erano state. La divisione della Germania in due stati peggiorò le cose. Per la DDR ogni legittimazione della Scuola di Francoforte, persino come gruppo borghese cui allearsi anche solo temporaneamente in vista di obiettivi ben circoscritti, in nome dell’antifascismo e nella prospettiva di una lotta da condurre contro l’imperialismo americano, fu, in definitiva, esclusa. La stessa intransigenza si produsse dall’altra parte. Solo in occasione del ’68 la situazione sembrò ammorbidirsi, ma non senza il manifestarsi di vistose contraddizioni che impedirono un effettivo mutarsi dei termini fondamentali di una situazione su cui in precedenza avevano agito fattori non operanti sul piano internazionale (disgelo, conflitto russo-cinese, dissenso nei paesi cosiddetti a “socialismo reale”, ecc.). Questo spiega la prudenza politica di Horkheimer  e Adorno, cui fu negata a lungo ogni qualifica in senso socialista. La convergenza di questi due personaggi, soprattutto quando la posizione fondamentale del gruppo sembrò definirsi nella Dialettica dell’Illuminismo spinse molti ad attribuire a quest’opera “maledetta” le stimmate di uno spirito reazionario, che investì anche i Minima moralia, successivi di qualche anno. Solo molto più tardi, con il prevalere del post-moderno, si è assistito ad una parziale sdemonizzazione di quest’opera, messa al bando e ora rivalutata limitatamente ad alcuni aspetti da parte di alcuni interpreti che della liquidazione del marxismo e di ogni progressismo si erano fatti paladini, e che ad essa erano soliti rifarsi per fornire un’immagine che non si discosta, nell’essenziale, da quella su cui s’era insistito in precedenza, se non per il segno complessivo da darne, rovesciandone in definitiva le intenzioni. Le accuse di aristocraticismo e di moralismo esacerbato, di spirito anti-democratico, fondamentalmente rimangono, anche se in un quadro profondamente mutato, in cui i “nemici” non sono più gli stessi, anche se i vizi inficianti l’insieme hanno assunto altre caratteristiche. Tenacemente i modelli in senso positivo continuano ad avallare le vecchie condanne. Si mira a celebrare, ora, uno sposalizio tra la posizione filosofica di Adorno e quella di Heiddeger, che fino a poco fa avrebbe fatto inorridire i due, che, come ben noto, si sono a lungo detestati in vita, il secondo chiudendosi in un corrucciato silenzio venato di disprezzo, mentre il primo, riconoscendo in lui l’avversario irriducibile da liquidare nell’immediato dopoguerra. Non suscita più alcuna disapprovazione il giudizio espresso dai pensatori di Francoforte su Nietzsche: è data, come è giusto che venisse data, per pacifica l’ammissione del peso avuto dal contributo recato da questo autore, sopprattutto dalla Genealogia della morale, al discorso della Dialettica dell’illuminismo. Non trova, inoltre, obiezioni rilevanti la ripresa dell’importanza di Schopenhauer nel giudizio dell’ultimo Horkheimer. Anche se è da aggiungere che su questo Adorno è stato più cauto e freddo nel giudizio.
Circa la messa a punto di ciò che si deve intendere per illuminismo, nozione la cui delicatezza per la tradizione culturale tedesca, cioè per un paese in cui il Sonderweg ha costituito costantemente un ruolo rilevante nel concepire la modernità, e il percorso da imboccare per accedervi. Non è da dimenticare che maggiore attenzione dovrebbe essere concessa al significato delle parole. Dialettica dell’illuminismo non è la migliore traduzione di Dialektik der Aufklärung, così come suona il titolo originale tedesco. Sarebbe stato meglio ricorrere per illuminismo al termine rischiaramento, proposto, del resto, da Benedetto Croce in altre occasioni. Ci si sarebbe sottratti, nel caso di tale concetto, a fastidiosi malintesi, intendendolo esclusivamente come quel ben circoscrivibile movimento di idee del XVIII secolo, sorto prevelentemente in Francia, che, col termine Aufklärung ha una precisa parentela (“filosofia dei lumi”, “epoca dei lumi”, ecc.), ma non ne esaurisce il significato. Si sarebbe evitato, in tal modo, di incorrere in equivoci in cui sono incappati, da noi, Galvano Della Volpe e Colletti.
Il senso dell’opera del ’47 si offusca se si perde di vista che per Aufklärung si deve intendere il momento in cui s’accende la ragione e in cui questa agisce nel senso di una demitizzazione che è, in primo luogo, una demagicizzazione. Discostandosi da qualsiasi discorso che ingenuamente tenda ad esaltare il processo che conduce alla modernità come un processo ininterrotto di emancipazione, i due autori sostengono che il progresso non è una tendenza irresistibile, destinata sempre e comunque a trionfare, ma che esso può anche alimentare il proprio contrario, rendersi problematico, promuovere ciò che lo smentisce, tradursi nella propria negazione, dar luogo a regressioni. L’Aufklärung, come moto verso la liberazione, è contraddittoriamente spinto a rovesciarsi, diventa, esso stesso, una forma di oppressione. I controlli di cui il progresso ha bisogno per attuarsi contengono in sé vistosi pericoli, che portano all’attuarsi di un rafforzamento della logica del dominio che assoggetta a sé la natura, sia quella esterna sia quella interna all’uomo, al punto che la prevalenza dell’asservimento si produce proprio là dove dovrebbe aver la meglio l’impulso alla liberazione. Non c’è una strada che porti immancabilmente al migliore degli esiti. Di fronte ad un discorso tendente a mettere così le cose, il marxismo corrente è rimasto sempre sulla difensiva, senza saper rispondere con efficacia alle sfide che gli venivano lanciate e, in questo modo, esso s’è esposto a inconvenienti e a disavventure cui non ha saputo porre rimedio. E la coppia Horkheimer-Adorno ha insistito su questo tasto, appellandosi a Hegel e a Marx; al primo per l’attaccamento strenuo alla contraddizione, per non tradire la quale viene lasciata cadere ogni tendenza conciliativa, mentre di Marx viene tenuta presente la categoria del lavoro sociale e il suo concetto delle forme storiche della coscienza. Costante, altresì, il riferimento al Freud de Il disagio della civilità, per il quale le aspirazioni alla felicità degli individui devono essere sacrificate ad un ordine sociale che si basa sulla costrizione al lavoro e sulla rinuncia alle pulsioni che perpetua il dolore nella storia, seguendo le linee direttive dello stesso discorso che Herbert Marcuse stava concettualmente elaborando negli USA e che avrebbe trovato sbocco in Eros e cività. Nella consapevolezza che cultura e barbarie si richiamavano a vicenda in un tempo stregato, in cui il soggetto ormai sovrano esercita la sua tirannia, mirando a conservare se stesso proprio in quel dominio, la liberazione dal quale pure era il compito principale che gli s’era proposto. Gli episodi tratti dall’Odissea, tra cui quello sulle sirene, i richiami a Sade, gli Elementi dell’antisemitismo avvolgono la parabola del soggetto sovrano e della tirannia che questo rafforza proprio quando dovrebbe porre le condizioni per la sua soppressione, esasperando il nucleo del discorso, conferendogli un carattere oltranzistico.
La parte dedicata all’industria culturale è quella che senz’altro ha suscitato le reazioni più decise, e le ben note accuse mosse da quella parte di un pubblico colto che voleva distinguersi nettamente da posizioni considerate “passatiste”. E’ certamente la parte, per i progressisti ad oltranza, che più facilmente si prestava a venir messa alla berlina, quasi fosse l’espressione di un Kulturpessimismus anacronistico venato di un aristocraticismo nostalgico e tendenzialmente reazionario. In essa quelle che venivano respinte come “esagerazioni”, soprattutto nel fornire una cupa visione degli orientamenti destinati – secondo siffatto giudizio – a trionfare in un presente di decadenza, risultavano più visibili.
Oggi il processo d’appiattimento è giunto ad un punto tale da non consentire più le tensioni che avevano animato Horkheimer e Adorno alla fine della seconda guerra mondiale, quando le speranze messianiche erano affidate ad un marxismo capace di ritrovare, al di là di tutte le deformazioni cui s’era esposto nel corso della sua tormentata storia, i propri impulsi originari, la propria spinta verso la liberazione. Le esagerazioni hanno perso la carica che le rendevano simili a choc salutari. Le previsioni che venivano giudicate azzardate si sono avverate e quest’opera, che era una sorta di S.O.S., ha perso gran parte della sua capacità d’impatto. Il senso comune non ha alcuna difficoltà oggi ad ammettere come vere posizioni prima avvertite come estremistiche e, come tali, rifuggite, spingendosi addirittura a darne una valutazione di segno positivo. I teorici del postmoderno hanno rovesciato la frittata. Là dove gli autori della Dialettica dell’illuminismo avvertivano la presenza di una falsa emancipazione, i teorici attuali scorgono una liberazione che si attua in un orizzonte privo di punti di riferimento. Ed è proprio la preoccupazione di una neutralizzazione della teoria critica ad aver spinto Adorno ad insistere sempre di più sull’intensificazione di quel dolore che, nella dialettica, si induce ad elevarsi a concetto.
Il misoneismo rimproverato ai due autori ha condotto coloro che se ne ritraevano, sconcertati, talvolta a parlare di misantropia ed è sembrato più volte sottolineare il tono di una disapprovazione che veniva avvertita dallo zelo dei “buoni democratici” come un dovere morale. La reazione è stata così forte e tanto ha guadagnato in estensione da diventare un luogo comune. Dispiace che persino Habermas, al seguito di una rilettura di quest’opera definita “nera” e dei messaggi in bottiglia in essa contenuti, si sia indotto a prendere le distanze dallo spirito che la anima e che è frutto di un accordo formatosi in quasi un decennio tra i due massimi rappresentanti della teoria critica.
Oggi lo scandalo che avvolgeva queste pagine mostra di essersi sgonfiato. Si dà per acquisito ciò da cui i suoi due autori volevano metterci in guardia.

III
Il Congresso dei sociologi che si tenne a Heidelberg nel 1964, in cui fu celebrato il centenario della nascita di Max Weber, vide imputati insieme non solo i due autori della Dialettica dell’illuminismo, ma ruotò attorno alla relazione di Marcuse, Industrializzazione e capitalismo nell’opera di Max Weber, il successo del quale riscosso presso i sociologi tedeschi fu incrinato dalle critiche demolitorie che, in sede di discussione, gli furono rivolte soprattutto da due specialisti weberiani come Benedix e Nelson.
Ma gli anni ’60, che pure portano a conclusione con successo il programma che Adorno s’era prefissato per l’istituto, sono animati da una discussione che investe lo scontro tra le diverse metodologie della ricerca sociale. Ne deriva la disputa tra Popper e lui, nota come Poitivismusstreit. Il confronto che include e coinvolge nel suo corso diversi studiosi non è privo di note aspre e di durezze. Non si può nascondere che a riportare una vittoria ai punti, furono indubbiamente Popper e i suoi seguaci. I socialdemocratici tedeschi, Helmut Schmidt in testa, cui si accodarono esponenti politici di altri paesi (tra cui l’Italia) si pronunciarono chiaramente a favore di Popper e gli attribuirono addirittura una legittimazione sul piano politico, invitando i socialisti a far propria l’epistemologia del razionalismo critico. Da noi, autorevoli esponenti del PCI non furono da meno. Il clima culturale ne fu scosso e mutò sensibilmente.
Dopo essere stata innumerevoli volte accusata di esserlo stata troppo poco, o nulla affatto, alla teoria critica fu imputato, al contrario, di essere subordinata al marxismo e perciò inclusa nella sua crisi. Questo fu l’estremo paradosso con cui si cercò di provocare la fine del pensiero critico-dialettico-negativo.
Il movimento sudentesco che, nella sua fase iniziale aveva tratto ispirazione dalla teoria critica, s’è rivoltato contro di essa quando s’è accorta che i docenti dell’istituto non intendevano concedere alcuna legittimazione alla volgarità semplificatrice dell’Aktionismus.
Vengono così a porsi le premesse per un ridimensionamento dei motivi-chiave con cui s’era espressa un’avanguardia intellettuale tendente all’egemonia. Le si contrappongono correnti, prevalentemente di stampo anglosassone, che non solo pongono l’esigenza di un mutato orizzonte filosofico e culturale, ma appaiono decise ad operare in tal senso mediante revisioni e nuovi quadri concettuali. Si riafferma un razionalismo che mira a disfarsi della dialettica e a sostituire il marxismo con un neo-liberalismo dalle molte facce, che si sbarazza di ogni tematica di impostazione anti-capitalistica.
La teoria critica, investita da più parti, scossa e barcollante, non poteva restare quel che era prima. Per evitare di alzare semplicemente bandiera bianca, doveva non cambiar pelle, o almeno darsi nuove sembianze. La seconda teoria critica, frutto della cosiddetta svolta linguistica di Habermas e Apel, ha rappresentato una forma di sopravvivenza con tutta l’ambiguità del termine. Essa, da un lato non poteva non darsi una mossa, dall’altro si può parlare di un cedimento, se non proprio di un’abdicazione. L’intenzione era di duplice natura: Habermas può essere considerato sia come un apostata ansioso di liberarsi di un’eredità divenuta troppo pesante sia come un intelligente innovatore che si è prodigato a rimettere una teoria invecchiata al passo con i tempi, mantenendo, però, una sua fedeltà alla storia dell’Istituto, ricostruito in modo originale nelle sue linee fondamentali.
Rispetto a Horkheimer e ad Adorno, Habermas comunque è un’altra cosa, sia pur degna di considerazione (come indubbiamente lo è il recente discorso sulla contrapposizione tra la diffusione di rappresentazioni naturalistiche del mondo e il crescente influsso politico esercitato dalle ortodossie religiose).
Intendiamoci: il pensiero di Habermas è, se lo si colloca nel quadro scombussolato delle filosofie che oggi in Europa si dividono il campo, qualcosa di altamente decoroso, ma – lo ripeto – non è ciò che si era inteso per pensiero critico-dialettico-negativo.
La teoria critica è stata ad un certo punto sopraffatta perché richiedeva troppo sforzo e una tensione che era destinata a risultare innaturale. Era necessario – e questo va detto ad onore di Habermas – fare un passo indietro e rassegnarsi ad un ripiegamento (non si sa se temporaneo o no) e ad un’attenuazione dei motivi-chiave. Pochi sono stati gli indirizzi di pensiero che, come quello che stiamo esaminando, abbiano mirato a sciogliere nodi teorici così ardui e a corrispondere allo spirito dei tempi in modo così radicale al di fuori di ogni concessione e di ogni compromesso. Per certi versi, questa forma di pensiero non ha rappresentato solamente il Novecento, è stata essa stessa il Novecento, assumendone tutto il peso, artisticamente e politicamente. La voce dei suoi esponenti è stata soffocata, ma qualcosa è rimasto, sia pur affidato ad un’estrema minoranza. In un momento in cui il domani altro dall’oggi mostrava di avere la meglio su qualsiasi prospettazione del futuro come mero prolungamento di un presente sempre più insopportabile nella sua sicumera, è il passato a balzare prepotentemente in primo piano, vale a dire quel Novecento, secolo di orrori che hanno mostrato di saper convivere con straordinarie scoperte, con slanci di genialità e una volontà di rinnovamento ai quali non ho esitazione a ribadire la mia fedeltà. Il pensiero critico non guarda ad un futuro che sta mancando a se stesso, ma ad un passato che è ancora in grado di alimentare le speranze più ardite. E’ un congedo che si traduce in un appello alla nobiltà della memoria, di una memoria che non rinuncia a serbare in sé la possibilità di un futuro diverso dall’oggi.




   
    [17 febbraio 2011]

home>interventi/interviste > Discesa agli inferi e crepuscolo della speranza. Sul pensiero critico-dialettico-negativo. 

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