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Riformisti alla rovescia. Il “neoriformismo” nell’analisi di Paolo Favilli
Toni Muzzioli
A un ventenne di oggi potremmo raccontarla
così.
Nella sinistra, un tempo, quando esistevano ancora i partiti socialisti
e comunisti, l’Urss e il movimento operaio organizzato, c’erano i
riformisti e i rivoluzionari, gli uni e gli altri
a loro volta divisi
in innumerevoli fazioni, scuole e correnti. Riformisti e rivoluzionari
si consideravano, ad ogni modo, due “tribù” diverse, talvolta anche
duramente contrapposte. La divisione grosso modo si giocava su modi e
forme della auspicata creazione di una futura società socialista: i
primi, infatti, pensavano che essa fosse conseguibile senz’altro
all’interno delle cornici elettorali e parlamentari, confidando nel
progressivo inevitabile scivolamento della società capitalistica verso
il suo superamento; i secondi pensavano necessaria la “rottura
rivoluzionaria”, la necessità cioè di giungere – presto o tardi e in
forme anche assai differenziate secondo le diverse teorie o
temperamenti – a un momento di scontro generale e definitivo. Gli uni e
gli altri, però, condividevano due cose: il fine, che era il
socialismo, e la critica della società vigente, quella capitalistica,
dalla quale appunto derivava l’impegno attivo (pur diversamente
concepito) per il suo superamento. Le accuse e controaccuse – e i
conseguenti comportamenti pratici – potevano spingersi fino ai livelli
più atroci, ma resta indiscutibile che l’impegno soggettivo per il
socialismo ha sempre accomunato riformisti e rivoluzionari, a tutte le
latitudini.
I riformisti, certo, erano abituati a subire le peggiori accuse dai
rivoluzionari (tradimento della classe operaia, svendita dei suoi
interessi, collusione col nemico, cedimento all’imperialismo ecc.),
accuse spesso fondate e altre volte un po’ meno, ma certamente si
consideravano impegnati in una battaglia per il miglioramento e il
consolidamento delle condizioni economiche e sociali delle classi
popolari (anche in questo caso qualche volta era vero, qualche volta un
po’ meno…). Le “riforme” questo erano: passi, o mattoni se si
preferisce, di un percorso (o di un edificio) che, rafforzando
progressivamente le posizioni della classe operaia, l’avrebbe portata
in definitiva non solo a un deciso miglioramento economico ma al
governo della società. Tanto è vero che, di fronte a leggi che
imponessero un deterioramento delle posizioni sociali del proletariato
o un restringimento della democrazia, essi erano soliti usare
l’espressione “controriforme”!
Così sono andate le cose all’incirca fino alla fine degli anni Ottanta
del XX secolo. La parola “riformista” aveva un significato ben
incastonato in questo quadro1.
Poi, il crollo dell’Urss e del blocco socialista cambiò tutto. In
realtà, all’indomani della dissoluzione del socialismo reale, ci fu
fatto credere che il riformismo, per l’appunto, avesse prevalso
sull’estremismo bolscevico, sulla “mentalità rivoluzionaria” (per dirla
con Michel Vovelle) e sui suoi effetti totalitari: del socialismo
avremmo conservato le giuste aspirazioni sociali (e la prassi
riformista), mentre avremmo dimenticato le tendenze totalitarie
(questo, perlomeno, dicevano le anime belle socialdemocratiche). Ma non
è andata esattamente così: il movimento comunista effettivamente si è
dissolto, ma si è portato dietro anche il riformismo socialdemocratico!
Con un’importante specificazione: è scomparsa la cosa; non il nome. Sì,
perché di riformismo si è continuato a parlare. Anzi, per la verità non
si parla d’altro.
Oggi, come ognuno può vedere facilmente aprendo qualsiasi giornale o
assistendo a qualunque talk show
politico, è avvenuto però un totale
cambiamento di significati. Mai come oggi, in effetti, si sente parlare
di riforme, della loro necessità ecc. Scomparsi i rivoluzionari, si
sono moltiplicati a dismisura i “riformisti”, ma le riforme che
propugnano non guardano più, ancorché in forma blanda e gradualista, a
una prospettiva socialista (o anche puramente “laburista”); bensì
all’adeguamento della società nel suo
complesso alla globalizzazione
capitalistica2; le loro riforme ora sono pro business, come dicono in
America. È rimasto il nome, appunto, ma la cosa è cambiata. Si parla,
infatti, di riforme, meglio se strutturali,
per “far ripartire il
Paese”, per migliorare la competitività, per “rassicurare i mercati”
(espressione particolarmente abusata di questi tempi), effettuare ogni
possibile privatizzazione, il tutto ovviamente sotto le denominazioni
eufemistiche di modernizzazione, efficienza, meritocrazia,
globalizzazione ecc. È ormai divenuto senso comune che “riformisti”
siano coloro che promuovono e sostengono queste politiche, come si può
vedere in un recente libro di Michele Salvati dedicato alla storia
d’Italia, in cui la debolezza di fondo del nostro paese è individuata,
a partire dagli anni Sessanta, nella «prevalenza nelle forze di
opposizione (e in buona parte della maggioranza) di culture politiche
non riformistiche, risalenti alle ideologie della prima e tragica parte
del Novecento, che ebbero un ruolo determinante nell’ostacolare la
formulazione e l’esecuzione di politiche economiche efficaci»3.
Si
può parlare del PSI e della sinistra DC degli anni Sessanta (glissiamo
pure sul PCI) come di culture politiche “non riformistiche”, senza
dichiarare guerra a intere biblioteche? Sì, si può, perché la parola
riformismo ha cambiato definitivamente segno e… tanto peggio per la
storia del pensiero politico4!
Com’è potuto accadere questo ribaltamento di significati di sapore
quasi orwelliano? Cerca ora di spiegarlo, con ampiezza di riferimenti
storici, economici e filosofici, e insieme con una forte dose di
passione politico-morale, l’importante saggio di Paolo Favilli Il
riformismo e il suo rovescio5, che pone al centro
della propria
attenzione appunto questo importante fenomeno.
Favilli, forte della sua profonda conoscenza della storia del pensiero
economico e del movimento operaio e socialista italiano6,
analizza da
storico (ma da storico che sa ricorrere utilmente anche a tante
altre
“cassette degli attrezzi”) origini e componenti del neoriformismo. E,
in primo luogo, fa parlare i documenti, così da mostrare il momento
esatto in cui avviene il salto dal vecchio al nuovo riformismo:
all’indomani del “crollo del Muro”, in effetti, anche i molti allora
giovani intellettuali (uno fra tutti, Michele Salvati) che nel corso
degli anni Ottanta si erano cimentati in un’opera di trasformazione
riformista (questa volta nel senso classico della parola…) del PCI,
senza tuttavia perdere il punto di riferimento degli interessi dei ceti
popolari, scivolano impercettibilmente (e in breve) nel
“neoriformismo”: non si tratta più, per loro, di sanare i lasciti
comunisti o leninisti del partito per traghettarlo verso una concezione
socialdemocratica “europea”, quanto piuttosto di abbandonare il
“vecchio” in blocco, con una furia cieca, mettendosi su un piano
inclinato in cui l’autoriforma del socialismo non sarà mai abbastanza.
Sono gli anni Ottanta, secondo Favilli, il luogo ideale per seguire la
trasformazione del tradizionale riformismo socialista (e in Italia
comunista) in “neoriformismo”. Sono, quelli, anni in cui, curiosamente,
il riformismo diventa egemone, e perfino sovrabbondante, nel discorso
pubblico della sinistra nel momento stesso in cui «esce
progressivamente dalle cose, dai processi in atto»7; mentre
nel
decennio Settanta si era assistito al fenomeno contrario: ci si voleva
tutti “rivoluzionari” (anzi “riformista” era poco meno che un insulto)
e si facevano le riforme (ma forse Rosa Luxemburg non se ne
stupirebbe). Un paradosso che ci può aiutare a capire la realtà del
neoriformismo. Sempre negli anni Ottanta furoreggia il “nuovo” PSI,
che, reso irriconoscibile dalla svolta craxiana, adotta per la prima
volta il termine riformismo per indicare non più la propria differenza
dalla tradizione terzinternazionalista rappresentata dal PCI, ma una
ormai conclamata (e boriosamente rivendicata) estraneità ai valori e
all’ethos del movimento
operaio. In tal senso – osserva Favilli –
«Bettino Craxi è davvero un innovatore profondo della tradizione
socialista ed il vero padre del neoriformismo italiano»8.
Craxi e il
suo partito sarebbero stati poi spazzati via da “Mani pulite” a inizio
anni Novanta; ma l’idea di un “socialismo” ridotto a parola vuota, pura
prassi tecnocratica e “modernizzatrice”, avrebbe avuto un grande
futuro, e il linguaggio e l’ideologia della (quasi) totalità della
sinistra italiana ne sarebbero risultati profondamene modificati.
Il paradigma del neoriformismo è fondato – dice Favilli citando da
Giuseppe Vacca9 – sul superamento dell’economia mista, del
vecchio
modello socialdemocratico, del vecchio compromesso sociale postbellico.
I suoi sostenitori ritengono così, liberati dai lacci dell’“ideologia”,
di poter finalmente dedicarsi al compimento di una mitica “rivoluzione
liberale” (ma meglio sarebbe dire liberista) vista ormai come panacea
capace di permettere la massima crescita economica e allo stesso tempo
di promuovere la più ampia uguaglianza delle opportunità (di più,
ovviamente, non ci si può arrischiare a chiedere, pena ricadere nelle
pericolose derive del totalitarismo comunista)10.
Favilli anatomizza il neoriformismo evidenziandone dapprima le
componenti essenziali sul piano ideologico.
1) La “fine
della storia”, una idea-forza che entra nel dibattito
pubblico grazie al libro di Francis Fukuyama La fine della storia e
l’ultimo uomo11. La tesi del saggio – ricordiamola in
breve – è che la
fine dei regimi dell’Est segna il raggiungimento di uno “stato
normale”, per così dire fisiologico, delle società occidentali, giunte
finalmente, dopo la deviazione
costituita dal socialismo burocratico,
all’assetto fondato su liberismo economico e democrazia rappresentativa
multipartitica, uno stato definitivo e stabile corrispondente alla
natura umana (laddove le forme di redistribuzione e egualitarismo
sociale vigenti nei paesi socialisti ne rappresentavano una
“violazione”, poiché erano sì finalizzate a soddisfare alcuni bisogni
materiali – alimentazione, casa, lavoro, sicurezza sociale – ma
negavano la spinta umana all’affermazione personale).
Anche per chi ignora il saggio di Fukuyama o si colloca ben lungi
dall’hegelismo (peraltro non poco semplificato) del filosofo americano,
comunque, quella che si afferma a livello di senso comune nel corso
degli anni Ottanta è l’idea che con il capitalismo avanzato l’umanità
giunge finalmente a unificarsi in un regime politico, sociale ed
economico in grado di garantire la massima felicità possibile, dunque
ad una sorta di stadio perfetto e “terminale”, nel quale mutamenti
strutturali radicali non sono più né possibili né desiderabili. È
questa, in definitiva, la posizione di Lyotard, il padre del
postmoderno, nel suo influentissimo saggio La condizione postmoderna,
che precede di oltre un decennio il libro di Fukuyama12.
Ebbene,
osserva Favilli che
«nella sostanza
l’orizzonte con cui si misurano i neoriformisti rimane
quello della fine della storia o almeno della sua sospensione
sine die.
(…) Muoversi all’interno di tale orizzonte ha portato i neoriformisti
ad essere una componente di quel vasto aggregato più o meno
culturalmente postmodernista che sta alla base dell’odierna “crisi
della storia”. Ne sono una componente tanto nel modo di rapportarsi
alla loro storia (in particolare i neoriformisti di origine comunista o
comunque interni alla storia del movimento operaio), quanto per il modo
di utilizzare pragmaticamente il sapere storico»13.
2) La concezione “parentetica” del
marxismo e del socialismo. Quella
che Favilli chiama «concezione parentetica» del marxismo indica l’idea
che il marxismo sia stato in fin dei conti una parentesi,
fortunatamente esauritasi, nella lunghissima storia dell’aspirazione
alla giustizia e alla libertà. Sicché oggi tale aspirazione potrebbe
trovare rinnovato spazio in un riformismo post-marxista, che si
presenta però del tutto privo di contenuto autonomo (e finisce così per
assumere quello del pensiero dominante): «…la prateria che si
apre davanti al “riformismo” assume spazi sconfinati. La si può
percorrere in tutte le direzioni»14; vi si possono portare
contenuti
decisamente estranei alla tradizione del movimento operaio, e
soprattutto opposti agli oggettivi interessi della classe. Favilli,
comunque, mette in discussione la legittimità storiografica di questa
concezione: «la storia del socialismo si è compenetrata con quella del
marxismo per quasi tutto il suo corso. Ne rimane fuori solo il periodo
delle origini. (…) Se dalle categorie eterne, aspirazione alla libertà
e alla giustizia, passiamo all’analisi di quel modo di declinarle nella
storia che si è chiamato socialismo, vediamo (…) che il marxismo, come
carrefour di itinerari, ne è
stato carne e sangue»15. La concezione
parentetica del marxismo, invece, consente alla sinistra liberale di
oggi di pensarsi come strumento principale di realizzazione delle
politiche liberiste e globaliste: il prezzo da pagare, per essa, è
liberarsi definitivamente – e l’interminabile impegno in questo senso
del PCI-PDS-DS-PD lo dimostra tristemente – da ogni pur vago residuo di
critica al capitalismo. Completato questo compito, la sinistra appare
particolarmente adatta alla gestione spregiudicata delle politiche
neoliberiste, proprio per la sua intrinseca propensione al “nuovo” e
alla “modernità” che – se non accompagnata da un saldo ancoraggio a
valori umanistico-socialisti e da una chiara collocazione classista –
finisce per condurre alla piena subordinazione al nuovo spirito del
capitalismo. Siamo giunti così a un’altra componente del neoriformismo:
la sua irresistibile propensione al “nuovo”.
3) La parola-chiave del “nuovo”
come stella polare della propria azione
politico-sociale, inevitabilmente causa di una deriva nichilista
(sostenere il nuovo come tale
è intrinsecamente nichilistico, perché
significa abdicare a un criterio di valore in favore della preferenza
per “ciò che viene dopo”). Il capitalismo contemporaneo ha fatto della
innovazione perenne la propria bandiera: è questa, di fatto, una
caratteristica delle sue industrie di punta, come l’informatica e la
microelettronica, ma anche del suo modo di riorganizzare costantemente
intorno ai propri imperativi la vita sociale (si pensi a come il
consumismo, peraltro non da oggi, consista appunto in una continua
proposizione di cose “nuove”, per quanto fasulle). Il neoriformismo si
fa portavoce entusiasta di questa ideologia del “nuovo”, che si
manifesta, tra l’altro, in quello che è stato definito schema
avanti/indietro: un rudimentale apparato interpretativo che
colloca nel
futuro ciò che è buono e desiderabile (ciò che è “avanti”, “avanzato”)
e nel passato ciò che è da rifiutare (ciò che è “sorpassato”,
“arretrato”, “indietro”). Secondo questo criterio, un modo infallibile
per giudicare un fenomeno, un prodotto, una tecnologia, una legge, una
forma di vita consiste nel valutare se è “avanzata” o “arretrata”: nel
primo caso andrà accolto con favore, nel secondo respinto. Questa
concezione in verità è legata alla cultura del capitalismo
contemporaneo in genere e alle sue specifiche forme di legittimazione,
ma si trova di norma in stretta alleanza col pensiero neoriformista, il
quale se ne serve ampiamente (e con successo)16: così i
neoriformisti
ci informano ogni giorno che liberalizzare l’economia è “avanti”,
mentre mantenerla pubblica (o ri-pubblicizzarla) è “indietro”; che la
flessibilità del mercato del lavoro è “avanti” mentre tutele e
stabilità sono il residuo di un mondo inefficiente e burocratico; che
opporsi alla TAV in Val di Susa, oltre che egoistico e nimby, è
decisamente conservatore, e così via. Un buon esempio di questo
dispositivo retorico si può vedere nella titolazione di un articolo
dedicato dal “Corriere della sera” al programma della Linke, il partito
della sinistra radicale tedesca: Il
futuro della Germania? Indietro e a
sinistra17.
Per illustrare il concetto di neoriformismo, che peraltro nel libro si
documenta ampiamente, può essere utile leggere una intervista a Tony
Blair apparsa sul “Corriere della sera” nel maggio 2010. Alla domanda
perché il Labour Party abbia perso le elezioni, Blair risponde così:
«Non avevamo un programma da New Labour ma da Old Labour, da vecchio
Labour. Il centrosinistra può vincere se smette di difendere lo status
quo e tiene saldo il filo con il futuro, se impara a cogliere le
tendenze di un mondo che cambia velocemente …». E poi spiega che la
sinistra è in difficoltà in tutta Europa «perché di fronte alle
incertezze del presente difende l’immobilismo. Il dovere della sinistra
è quello di sostenere i mutamenti, non rifiutarli e resistere»18.
Apertura al “nuovo”, sintonia con i “cambiamenti”, dinamismo: ecco le
parole d’ordine del neoriformismo19.
Per una versione particolarmente “calda” del neoriformismo,
liberal-laburista come a volte si dice, ecco come il segretario
nazionale del Partito democratico, Pier Luigi Bersani, sintetizza il
suo programma, che qui si carica perlomeno di una certa dose di
preoccupazioni sociali:
«Penso a quattro criteri-guida in grado di definire le riforme sociali
e liberali di cui l’Italia ha assoluto bisogno. Il primo: la
produttività e la competitività vanno incrementate a livello di
sistema. Lo sforzo non può essere chiesto solo all’operaio della catena
di montaggio, al piccolo imprenditore o al giovane che cerca di entrare
nel mondo del lavoro. Bisogna disturbarci un po’ tutti e deve
disturbarsi un po’ di più chi fino a oggi è stato al riparo. Il
secondo: stabilità e crescita devono darsi la mano. (…) Il terzo
criterio: bisogna continuamente promuovere politiche per ridurre le
diseguaglianze. (…) Il cuore della nostra proposta fiscale sta (…) in
una redistribuzione dei pesi tra rendita e lavoro: 20% per la prima
aliquota Irpef, 20% per i redditi da imprese e da lavoro autonomo e
professionale, 20% per le rendite finanziarie (…). Il quarto criterio:
la sussidiarietà tra Stato, privato sociale e mercato è un principio
fondamentale … »20.
Anche il linguaggio ufficiale dell’Unione europea utilizza la lingua
del neoriformismo contribuendo a rafforzarlo e a farlo diventare un
vero e proprio gergo ufficiale: si pensi ai “National Reform
Programmes”, che da alcuni anni tutti i paesi dell’UE sono tenuti a
presentare all’ECOFIN, per dimostrare di allinearsi alle indicazioni
della cosiddetta “Strategia di Lisbona”; o alla dichiarazione dei capi
di stato e di governo dell’area euro del 21 luglio 2011, che suona
così: «tutti i Paesi dell’euro riaffermano solennemente la loro
determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale
firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio
sostenibili e per le riforme strutturali [structural reforms]»21.
E il neoriformismo ha anche una precisa idea di coloro che non si
conformano alla sua costellazione di valori: questi sono i
“conservatori”, o i “reazionari”. Anche con queste due parole le cose
sono un po’ cambiate. Un tempo per conservatore si intendeva un signore
col loden che teneva molto che il figlio partecipasse ai pranzi
domenicali con la nonna, la figlia non si sposasse uno spiantato e cose
del genere; per reazionario un signore, sempre col loden, che auspicava
ad alta voce in tram severe punizioni per gli studenti che occupavano
l’università e un bel repulisti generale di scioperanti, contestatori e
puttane. Ora può accadere di sentirsi dare del reazionario dalla prima
pagina di un giornale economico-finanziario perché ci si batte per
difendere la propria pensione o per scongiurare la privatizzazione
dell’acqua! Slittamento semantico analogo a quello che ha interessato
la parola “riformismo”: termini cari alla tradizione socialista vengono
dotati di nuovo contenuto, mantenendo tuttavia il vecchio carattere
elogiativo o dispregiativo (e consentendo ai postcomunisti o
postsocialdemocratici di acquisire più agevolmente il nuovo gergo). È
esperienza quotidiana, sui mass-media, l’applicazione di questo e
simili appellativi a coloro che a vario titolo si oppongono anche solo
in parte alle politiche neoliberiste. Si veda, per esempio, dal
“Corriere della sera”, questo articolo di fondo di Angelo Panebianco,
scritto alla fine del 2010 nel momento più acuto delle lotte
studentesche contro la “riforma Gelmini”22:
«C’è qualcosa che accomuna l’opposizione della Fiom all’accordo
Fiat-sindacati su Mirafiori e quella del partito democratico alla
riforma Gelmini dell’università, appena varata dalla maggioranza di
governo. Sono le più recenti manifestazioni di quella strenua difesa
dello statu quo in qualunque ambito della vita sociale, politica,
istituzionale, che è ormai da tempo la più evidente caratteristica
della sinistra italiana, nella sua espressione sindacale come in quella
politico-parlamentare. Si tratti di scuola, di rapporti di lavoro, di
magistratura, di revisioni costituzionali o quant’altro, non c’è un
settore importante della vita associata in cui il conservatorimo della
sinistra non si manifesti con forza».
L’“Economist”, da parte sua, non esita a definire «nemici del
progresso» gli aderenti ai sindacati del settore pubblico delle nazioni
occidentali (in particolare gli insegnanti) proprio per la particolare
determinazione dimostrata nel resistere alle «riforme»
neoliberiste23.
Resta a questo punto da capire perché
larga parte del movimento
socialista e operaio si sia così pienamente adattato al nuovo
Zeitgeist, con l’adesione
unanime, tra l’altro, alla visione
neoriformista. Certo, la dissoluzione del comunismo storico è stato uno
shock determinante, avvenuto per giunta in un momento in cui
l’offensiva ideologica neoliberista era già particolarmente intensa; le
trasformazioni che, sempre nell’ultimo quarto del XX secolo, hanno
attraversato la sfera della produzione e la stessa organizzazione
mondiale del lavoro hanno contribuito nei paesi centrali del
sistema-mondo a indebolire oggettivamente la classe operaia diffondendo
una forte sfiducia nelle lotte collettive e nell’organizzazione
politica; la “narrazione” della globalizzazione felice, ammannitaci per
anni e solo di recente incrinatasi, ha fatto da ulteriore volano
all’egemonia culturale neoliberale sotto forma di un onnipervasivo
“pensiero unico”. Tutto vero, ma forse insufficiente. Evocare il
pensiero unico non serve a molto: chiama in gioco un fenomeno che,
ancora, va spiegato. Perché c’è il pensiero unico? O meglio, come ha
potuto il pensiero neoliberale diventare “pensiero unico”? Perché in
esso, e così nel neoriformismo che del pensiero unico è parte
costitutiva, buona parte della sinistra è ordinatamente (e talvolta
entusiasticamente) confluita?
Per parte mia, mi permetterei di suggerire una ragione (non l’unica,
certo), collocata sul terreno propriamente ideologico: l’economicismo e
il connesso fatalismo radicati nel pensiero socialista, sia riformista
che rivoluzionario, otto-novecentesco, secondo i quali il Fine della
Storia è segnato ed è il comunismo perché ad esso conduce fatalmente la
contraddizione tra illimitato sviluppo delle forze produttive e
ristrettezza dei rapporti sociali di produzione. In essi si manifestava
quella convinzione di «nuotare con la corrente» dello sviluppo
progressivo del tempo storico che Walter Benjamin aveva nelle sue Tesi
di filosofia della storia chiaramente denunciato24.
L’idea
dell’alleanza privilegiata col movimento della storia
(secolarizzazione, in fondo, di un’idea religiosa) guidò lungamente il
movimento operaio e socialista nella sua larghissima maggioranza. Di
essa si volle vedere per decenni conferma ora nella crescita dei
sindacati operai, ora nelle conquiste dell’URSS e nel suo inarrestabile
progresso, ora nelle crisi e nei fallimenti del capitalismo. La Storia
è dalla nostra parte! Avanti, compagni! “Avanti!” si chiamò il
quotidiano dei socialisti italiani, e non diversamente (“Vorwärts”)
l’“organo centrale della socialdemocrazia tedesca” fondato nel 1876 da
Wilhelm Liebknecht; così anche il quotidiano del Partito comunista
portoghese: “Avante”… e gli esempi potrebbero continuare.
Una visione semplicistica e ingenuamente “lineare”, questa, sulla quale
sarebbe fin troppo facile ironizzare oggi
con la sufficienza dei
posteri, trascurando quanto ad essa probabilmente si deve in termini di
fiducia che seppe infondere in milioni di singoli operai e militanti
nelle mille battaglie, nella miseria della condizione di sfruttati,
nelle immani repressioni, nell’inferno delle guerre mondiali. Anche un
critico durissimo di tale visione, Antonio Gramsci, lo riconosceva, nel
momento stesso in cui la contestava radicalmente:
«Si può osservare come l’elemento deterministico, fatalistico,
meccanicistico sia stato un «aroma» ideologico immediato della
filosofia della prassi, una forma di religione e di eccitante (ma al
modo degli stupefacenti), resa necessaria e giustificata storicamente
dal carattere «subalterno» di determinati strati sociali. Quando non si
ha l’iniziativa nella lotta e la lotta stessa finisce quindi con
l’identificarsi in una serie di sconfitte, il determinismo meccanico
diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di
perseveranza paziente e ostinata. «Io sono sconfitto momentaneamente,
ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare ecc.». La volontà
reale si traveste in un atto di fede, in una certa razionalità della
storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato che
appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza,
ecc., delle religioni confessionali»25.
Ebbene, tale concezione, se è stata capace di motivare infinite schiere
di militanti negli anni di ferro del “secolo breve”, si presta
benissimo, nell’epoca attuale, a favorire il mimetismo ideologico di
massa cui assistiamo da oltre vent’anni. Allorché le cose sembrano
andare “al contrario” e l’alleanza tra movimento e storia sembra essere
spezzata dagli eventi esterni, non resta infatti che l’abbandono delle
precedenti convinzioni in favore di una opposta “tavola di valori”; la
stipula di una nuova alleanza con la storia, per così dire. La Storia
ora ci indica un nuovo “sol dell’avvenire”: non più il socialismo ma,
per esempio, la… globalizzazione! Il “meccanismo” ideologico resta il
medesimo anche se i contenuti cambiano. Tanto nella precedente
coscienza quanto in questa gli elementi dominanti sono il conformismo
storicistico, il nichilismo di fondo insito in ogni storicismo per cui
è la Storia a indicare i valori per i quali battersi (e dunque i valori
possono benissimo rovesciarsi)26, il terrore di essere
“fuori dalla
storia”, “superati”, attardati, di perdere il passo col
“progresso”27.
Diventa allora comprensibile l’approdo di milioni di persone che erano
state socialiste e comuniste alla nuova vulgata neoliberale. Uno
slittamento generalmente letto, da chi vi si è opposto e vi si oppone,
come opportunistico allineamento alla ortodossia dei vincitori, dunque
secondo uno schema moralistico (il tradimento ecc.). Si tratta però di
una chiave di lettura troppo “stretta” per dare conto pienamente di un
“movimento” così ampio, e che ha riguardato milioni di uomini e donne
in perfetta buona fede (insieme, certo, a schiere di opportunisti e
traditori).
Ora, se le cose stanno così, siamo in presenza di un vero e proprio
blocco del pensiero sociale critico che, insieme all’azione complessiva
dell’egemonia culturale, rende quasi impossibile oggi ricreare uno
spazio nel dibattito pubblico alla critica del modo di produrre
capitalistico. Prova ne sia – come osserva opportunamente Favilli nel
libro, pubblicato un anno dopo l’esplosione della crisi del 2008 – la
debolezza della risposta del pensiero economico di fronte alla gravità
della crisi, la sua totale incapacità ad autoriformarsi, ad uscire dai
rigidissimi “binari” teorici nei quali si è a suo tempo inserito.
Rimuovere questo blocco è allora un compito non secondario per chi è
impegnato, a vario titolo, nella rifondazione di una prospettiva
anticapitalistica. Come? Anche – credo – riscoprendo e promuovendo
l’autonomia del pensiero critico contro il conformismo e superando la
paura che in modo terroristico la cultura dominante mira a instillare
in coloro che osano pensare (o perfino agire) in modo “deviante”, con
le già citate accuse prêt-à-porter
di conservatorismo, di paura del
nuovo ecc.
A Favilli non sfugge il punto: egli afferma con chiarezza che
l’opposizione a quel “nuovo” che oggi il capitalismo ci vorrebbe
imporre come ricetta salvifica deve diventare una prerogativa della
sinistra. Senza dimenticare che non sarebbe neanche la prima volta, dal
momento che, alle sue origini, il movimento operaio si costituì proprio
grazie alla resistenza a un “nuovo” che comportava l’affermazione dello
sfruttamento e la distruzione delle forme di vita tradizionali:
«In tempi di nuovismo esasperato la politica della sinistra deve
necessariamente ricominciare a porsi il problema del carattere che può
avere un’azione di resistenza nei confronti del “nuovo” che, però, ha
sostanza regressiva.
È
vecchia la resistenza al
nuovo?
Dovremmo riflettere sul fatto che tra quella che finirà per definirsi
“classe operaia” la prospettiva di “cambiare il mondo” nasce proprio da
una lunga fase di lotta per “conservare il mondo”. Conservare un mondo
dove gli artisans erano sostanzialmente
padroni dei tempi e dei modi
del loro lavoro, e quindi parzialmente padroni del proprio corpo e
degli elementi essenziali della propria vita. (…)
Resistenza contro il nuovo mondo disumanizzante,
opposizione culturale
all’insieme teorico che quel mondo rispecchiava e giustificava. Questo
e non altro era il contesto da cui necessariamente sarebbe nata
l’esigenza di un “mondo diverso”, e dunque l’esigenza di “cambiare il
mondo”»28.
“Cambiare il mondo”, se vuole restare una parola d’ordine sensata, e
possibilmente distinguibile dalla pubblicità dell’ultimo ammennicolo
tecnologico della Apple, deve significare cambiare per migliorarlo. E
allora deve accompagnarsi alla volontà di conservarlo nei suoi aspetti
che a vario titolo consideriamo buoni o comunque migliori rispetto ad
eventuali modifiche che vengano proposte (o imposte): se il “mondo che
c’è”, per esempio, contempla un efficiente sistema pensionistico
pubblico (magari conquistato in decenni di durissime lotte operaie),
non si vede perché non si debba mantenerlo e difenderlo da chi lo
vorrebbe smantellare sotto le insegne di una supposta “innovazione”.
Saremo accusati di conservatorismo? Tanto meglio! E che dire degli
ambienti naturali e umani, minacciati da uno sfruttamento scriteriato i
cui effetti rovinosi in questo autunno 2011 l’Italia sta sperimentando
con orrore? Continueremo a stravolgerli e a violentarli «per
migliorarli», come disse una volta quello straordinario (involontario)
interprete del capitalismo avanzato che è Silvio Berlusconi?
Contro l’ideologia del neoriformismo, che esercita come abbiamo visto
una forte seduzione fondata sul vuoto risuonare di antiche parole, a
noi non resta che richiamare l’attenzione sui contenuti, così delle
innovazioni come delle “conservazioni”. Avendo la capacità di essere,
secondo i contesti, conservatori
(in riferimento alle grandi conquiste
del movimento operaio, ma anche all’equilibrio ecologico oggi a
rischio)29, riformisti
(nel senso che oltre la difesa di quanto resta
dello stato sociale, aspiriamo ad una sua estensione e adeguamento),
rivoluzionari, perché la
prospettiva in cui inseriamo il nostro agire
concreto resta la trasformazione radicale del presente modo di vivere e
produrre.
Milano, 7 novembre 2011
note
1.
Questa è una narrazione volutamente iper-semplificata della questione,
finalizzata ad evidenziare il passaggio dal vecchio al nuovo
riformismo. Se il ventenne di cui sopra volesse approfondire
l’argomento, potrebbe cominciare dalla breve ma completa voce (dovuta a
Bruno Bongiovanni)
Riforme e rivoluzione,
democrazia e socialismo, in
Enciclopedia della
sinistra europea nel XX secolo,
diretta da Aldo Agosti, con la collaborazione di Luciano Marrocu,
Claudio Natoli, Leonardo Rapone, Roma, Editori Riuniti, 2000, p.
819-828.
2. Giuseppe Berta ha
visto bene come questo programma sia stato il cuore del
New Labour
in Gran Bretagna, costituendo una frattura netta con la tradizione
precedente anche nelle sue versioni più moderate: «Per il New Labour la
questione consiste nell’adattare la società al sistema economico,
giudicato immodificabile. … il laburismo abdica nella sostanza al
rapporto dialettico con il capitalismo che ha caratterizzato i momenti
migliori della sua storia lungo il Novecento. Da un lato, infatti, nel
passato esso ha cercato di cogliere i lati fondamentali dell’evoluzione
capitalistica, mentre, dall’altro, ha cercato di correggerli,
infondendo nelle sue tendenze di fondo elementi ispirati a una logica
diversa…» (Giuseppe Berta,
Eclisse della
socialdemocrazia,
Bologna, Il Mulino, 2009, p. 22-23).
3. Michele Salvati,
Tre pezzi facili
sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi, Bologna, Il Mulino, 2011,
p. 74.
4.
Salvati del resto sottolinea che si riferisce a «un riformismo
coerente, di impianto liberale», a «un moderno riformismo» (ivi, p. 71
e 72), per l’appunto quello che Favilli denomina neoriformismo.
5. Paolo Favilli,
Il riformismo e il suo
rovescio. Saggio di politica e storia, Milano, Franco Angeli, 2009.
6. Di lui ricordo
almeno
Storia del marxismo
italiano (dalle origini alla grande guerra), Milano, Franco Angeli,
1996.
7. Paolo Favilli, Il riformismo e il suo
rovescio,
cit., p. 113.
8. Ivi, p. 18.
9. Giuseppe Vacca, Il riformismo italiano.
Dalla fine della guerra fredda alle sfide future, Roma, Fazi, 2006.
10. Paolo Favilli,
Il riformismo e il suo
rovescio,
cit., p. 139.
11. Francis
Fukuyama,
La fine della storia e
l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.
12. Mi riferisco
ovviamente a Jean-François Lyotard,
La condizione
postmoderna. Rapporto sul sapere,
Milano, Feltrinelli, 1981. Il nesso tra postmodernismo e “fine della
storia”, anche se non immediatamente percettibile, è molto stretto,
radicato nella comune apologia del presente capitalistico. Il concetto
di postmodernità, del resto, può essere fatto risalire a quello di
post-histoire elaborato dall’economista e filosofo positivista francese
Antoine-Augustin Cournot (1801-1877) che per primo ipotizzò (ma se ne
trova traccia in Saint-Simon, Comte, Tocqueville) l’idea che
l’affermarsi della scienza come potenza sociale prospettasse l’avvento
di una fase stabile e per così dire “definitiva” della storia, appunto
una post-storia (si veda a questo proposito Costanzo Preve,
Il tempo della ricerca.
Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia, Milano, Vangelista, 1993).
Le concezioni postmoderniste, senza più il trionfalismo progressista
ottocentesco ma anzi con forti dosi di ironia e disincanto, si muovono
comunque nello stesso alveo ideale, in definitiva positivistico: lo
sviluppo grandioso e costante di scienza e tecnologia, sotto specie di
“società dell’informazione” e simili, per quanto non privo di rischi, è
ritenuto gravido di straordinarie possibilità di crescita e progresso,
e soprattutto
l’unico mondo possibile. Fuori di lì, solo arretratezza, misoneismo e
pericolose “ideologie”.
13.
Ivi, p. 157. Qui Favilli segnala anche il ruolo del revisionismo
storico, giunto in Italia come tutti sappiamo a livelli di volgarità
impressionanti, come componente essenziale del neoriformismo. E anche
se appare non immediato, il rapporto è invero molto stretto: se la
nostra epoca – quella post-1989 – è anche l’epoca dell’incessante
“revisione” della lettura (un tempo) condivisa della storia del
Novecento, ciò si deve al fatto che quella è storia di lotte di classe
vittoriose sfociate in rivoluzioni riuscite e in compromessi molto
favorevoli alle classi operaie; è storia di “ordini nuovi” dimostratisi
possibili (ancorché fallibili, come tutto è fallibile, e poi
effettivamente falliti); di secolari domini coloniali infine crollati.
Cioè storia, in definitiva, di colossali lotte di emancipazione.
Ebbene, l’ordine successivo al 1989 ha bisogno di presentare quella
storia come criminale e violenta, oppressiva e totalitaria, preistoria
oscura della normalità liberale finalmente raggiunta.
14. Ivi, p. 66.
15. Ivi, p. 73.
16. Nella sua bella
introduzione alla ristampa italiana di
L’uomo è antiquato di Günther Anders, Costanzo
Preve vede nello «schema
avanti/indietro»
una componente essenziale dell’ideologia contemporanea, la quale «non è
più in alcun modo una ideologia “borghese” nel senso ottocentesco o
primonovecentesco del termine. Essa è (…) una ideologia a un tempo
postborghese e ultracapitalistica, che ha abilmente saputo
metabolizzare in modo flessibile gran parte delle spinte culturali di
critica alle vecchie forme di etca proto- e medioborghese»
(Costanzo Preve,
Un filosofo
controvoglia, in
Günther Anders,
L’uomo è
antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda
rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 10).
17. Cfr. Paolo
Lepri, «Il futuro della Germania?
Indietro e a sinistra», “Corriere della sera”, 18 luglio 2011, p. 15.
18. Fabio
Cavalera,
Tony Blair: «Sono pronto
a tornare»,
“Corriere della sera”, 10 settembre 2010, p. 6.
19.
Non è necessario sottolineare poi che siamo in presenza di una retorica
con effetti talvolta grotteschi, come nota, proprio parlando del Labour
Party di Blair, Colin Crouch: «… ecco una forza nuova, fresca e
modernizzatrice, orientata al cambiamento; ma con l’emergere del suo
programma sociale ed economico, è diventata sempre più una
continuazione dei precedenti 18 anni di governo conservatore e
neoliberale» (Colin Crouch,
Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003,
p. 73).
20. Pier Luigi
Bersani,
Per una buona ragione, intervista a cura di Miguel
Gotor e Claudio Sardo, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 195-196.
21.
La dichiarazione è ricordata nell’apertura della famigerata “lettera
segreta” della Banca centrale europea al governo italiano, resa nota
dal “Corriere della sera”, il 29 settembre 2011, p. 3.
22. Angelo
Panebianco,
La nostalgia dei
conservatori di sinistra, “Corriere della sera”, 29 dicembre 2010, p. 1 e 13.
23.
Enemies of progress, in
Taming Leviathan. A
special report on the future of the State, “The Economist”, March 19th
2011, p. 8.
24.
«Il conformismo, che è sempre stato di casa nella socialdemocrazia, non
riguarda solo la sua tattica politica, ma anche le sue idee economiche.
Ed è una delle cause del suo sfacelo successivo. Nulla ha corrotto la
classe operaia come l’opinione di nuotare con la corrente» (Walter
Benjamin,
Tesi di filosofia della
storia, in
Id.,
Angelus Novus. Saggi e
frammenti,
Torino, Einaudi, 1995, p. 81).
25. Antonio
Gramsci,
Quaderni del carcere, vol. II, edizione critica
dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi,
1975, p. 1387-88.
26.
Le idee che uno professa possono ovviamente cambiare: solo gli
imbecilli escludono la possibilità di cambiarle. Ma è bene notare che
nel fenomeno di cui parliamo non siamo in presenza (se non in una
minoranza di casi) del travagliato processo che porta ad abbandonare
e/o a condannare una precedente convinzione; bensì di una mutazione
ideologica di massa motivata da parte dei protagonisti, più che sulla
base dell’ammissione di un errore, sulla base di un supposto passaggio
epocale che renderebbe le precedenti convinzioni “superate”. In altre
parole, per la gran parte dei militanti già comunisti il marxismo e il
socialismo non appaiono retrospettivamente ideologie criminali o anche
soltanto sbagliate (o qualcosa del genere), ma piuttosto
anacronistiche,
cioè appunto “superate” dalla Storia (significativo, in questo senso,
il trattamento oggi riservato alle residue forze politiche e culturali
di orientamento comunista: vengono liquidate, oltre che attraverso il
silenzio e la censura
de facto,
con il discredito e lo scherno). Si noti anche come questa forma di
autocoscienza consente, come effetto secondario, una rassicurante
legittimazione al militante postcomunista medio, il quale, senza
eccessivo travaglio interiore, può dichiarare di essere sempre stato
nel giusto (cioè in sintonia con il corso storico): prima, quando era
“attuale” essere comunisti; oggi, quando è “attuale” aderire al
liberalismo postmoderno.
All’estremo opposto di questo atteggiamento si collocano coloro che non
confondono validità dei principi e loro vicissitudini storiche. È il
caso del critico letterario e saggista marxista Terry Eagleton che, in
un suo brillante saggio degli anni Novanta sul postmoderno, scriveva:
«Sarebbe intellettualmente disonesto sostenere che il marxismo sia
ancora una realtà politica viva, o che le prospettive di un cambiamento
in senso socialista non siano, almeno per il momento, assai remote. Il
punto è che sarebbe molto peggio che disonesto abbandonare, in queste
circostanze, la visione di una società giusta, e rassegnarsi al pauroso
bailamme che è il mondo contemporaneo» (Terry Eagleton,
Le illusioni
del postmodernismo,
Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 9).
27.
Favilli da parte sua osserva che «oggi sono proprio i neoriformisti a
sostenere con forza il carattere deterministico della storia ed anche
quello teleologico (…). La loro è una storia privata di tutti i
potenziali della
possibilità» (Paolo Favilli, Il riformismo e il suo
rovescio, cit.,
p. 170-171).
28. Paolo Favilli,
Il riformismo e il suo rovescio, cit., p. 172.
29.
A questo proposito – senza aprire una discussione per la quale non vi è
qui lo spazio – riporto le lucide parole di un bell’articolo
dell’economista James O’Connor, padre dell’“ecomarxismo”: «Il problema
della natura – del mantenimento della biodiversità, dell’aria buona,
delle acque pulite ed abbondanti, dei fiumi, dei laghi e degli oceani
non inquinati, dell’integrità dei “sistemi ecologici” e delle bellezze
ambientali – è all’ordine del giorno come mai in passato. (…)
“Preservare, innanzitutto” significa impiegare il lavoro, le materie
prime, i macchinari e le altre risorse per restaurare, innovare,
riparare, mantenere quel che esiste. Questo è quanto chiedono ormai
esplicitamente Earth First!, Greenpeace e altre organizzazioni
ambientaliste. Questo è quel che chiedono le femministe, i movimenti
urbani e della salute, le lotte contadine, quelle per il lavoro, quelle
per la salute e la sicurezza sul posto di lavoro e sul territorio»
(James O’ Connor, Preservation first!, “CNS”, settembre
2002. L’articolo si trova alla pagina web <www.ecologiapolitica.it/antologia.htm>).
Per quanto riguarda il “riposizionamento” di concetti come “progresso”
e “conservazione” nel quadro di un approccio ecologico, infine, restano
valide le osservazioni fatte vent’anni fa dall’allora giovanissimo
filosofo Vittorio Hösle nella sua
Filosofia della crisi
ecologica:
di fronte a un cambio di paradigma della politica, reso necessario
dall’emergere della questione ambientale, «il senso delle definizioni
politiche classiche si modifica (…). Pensate per esempio ai termini
“reazionario”, “conservatore”, “progressista”. Queste parole hanno un
significato concreto solo se si dispone di una filosofia della storia
che consenta di evidenziare una determinata evoluzione. “Progressista”
è colui che si propone di perseguire il telos cui attribuisce un valore
normativo; “reazionario” è chi intende ritornare a una condizione
ancora più distante dal telos di quanto non lo sia la condizione
presente; “conservatore” è chi vorrebbe conservare lo status quo.
Ma per decidere quale definizione si addica a una persona, a un
movimento, ecc. in un caso concreto, è necessario avere le idee chiare
sul
telos della storia, o quanto meno
sulla direzione in cui questa procede. Ora, variando il concetto di
questo
telos,
come avviene col cambiamento di un paradigma, l’uso delle definizioni
non è più univoco. Dal punto di vista del paradigma del pensiero
economico, progressista è colui che vorrebbe incrementare i consumi del
maggior numero possibile di persone; al contrario, dal punto di vista
del paradigma dell’ecologia, in determinate circostanze un simile
atteggiamento può apparire reazionario, in quanto costituisce un
ulteriore allontanamento da uno stato di salute ambientale» (Vittorio
Hösle,
Filosofia
della crisi ecologica, Torino, Einaudi, 1992, p. 33-34).
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[26 novembre 2011]
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