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Intervista a Edoarda Masi
Per gentile concessione
della rivista di poesia e filosofia «Kamen´»
EM: Nel XIX secolo è risultata chiara, ed è
stata analizzata nella teoria economica e sociologica, la
contrapposizione fra capitale e lavoro e la complementarietà dei due
poli. Essendo il lavoro l’elemento vitale del capitale, la lotta contro
il capitale cresceva dall’interno dei meccanismi di quest’ultimo. Il
lavoro si incarnava nel proletariato industriale – non solo avversario
del capitale perché oppresso, sfruttato ecc., ma perché sua componente
necessaria e contraddittoria. La possibilità di uscire da quel sistema
si fondava sul lavoro, che ne era a un tempo la componente base e il
nemico radicale.
K: Il paradigma del lavoro era proprio quello .
Sì, non si trattava solo di ideologia: della validità di quella teoria
abbiamo una prova storica in centocinquanta anni di lotta.
Era un corrimano, uno strumento razionale che permetteva di mettere
in
evidenza una prospettiva, un certo numero di fatti. Le due classi sono
un portato storico della rivoluzione industriale: non c’è l’una senza
l’altra, in un legame fondamentale.
Nella sua trionfale evoluzione il capitale ha finito, nella fase
presente, con il divorare letteralmente sia la classe proletaria sia
quella borghese. Nel Manifesto del Partito comunista c’è
un’espressione
sottolineata da Hobsbawm, a cui di solito non si bada: Marx dice grosso
modo che, a un certo momento, il capitale dovrà essere superato dal
lavoro oppure si avrà la fine di entrambe le classi in lotta. Credo che
proprio questo si sia verificato. Una cosa è la borghesia, una cosa è
il capitale. Questo è un meccanismo economico, mentre la borghesia è la
classe dirigente che lo ha gestito in una ascesa sociale durata secoli
fino al trionfo nell’Ottocento. Oggi gli eredi della borghesia non
hanno più il carattere di classe dirigente. Il tratto di una classe
dirigente è quello di difendere sì i propri interessi economici, ma
nello stesso tempo di riuscire a rappresentare in qualche modo anche
interessi generali.
Per un’etica di classe?
Prima che per un’etica, per necessità di fatto. Ad esempio, prendiamo
la miserabile piccola borghesia italiana. Al momento dell’unità, per
poter gestire lo sviluppo ha dovuto promuovere l’istruzione universale,
costruire le infrastrutture, creare i servizi pubblici, ecc. Questo era
nell’interesse anche pubblico. Non le era dato perseguire i propri
interessi di classe senza costruire un’entità superiore, lo
stato-nazione; che finiva col rappresentare tutti i cittadini, pur
nelle differenze sociali.
L’idea che ha interpretato ad esempio, in epoca più recente,
anche Olivetti.
Sì, Olivetti in modo ancora più accentuato perché era anche un
innovatore. Esisteva una dimensione della politica che non era la
stessa identica dimensione della struttura economica.
C’era un senso del privato e del pubblico, di una loro suddivisione
che
oggi non c’è più. Non è il frutto di un certo Sessantotto?
Secondo me, no; è il frutto di una evoluzione del capitale. Oggi
il capitale dominante è in primo luogo quello finanziario, che è
cresciuto enormemente; e poi il capitale speculativo. La recente crisi
asiatica, ad esempio, è dovuta al capitale speculativo: un capitale che
pretenderebbe, in certo qual modo, di eliminare il lavoro e vivere su
se stesso, come fosse il gioco della roulette. È un assurdo, poiché lo
stesso capitale finanziario, che genera la speculazione, si basa sul
lavoro, sulla produzione. Se non ci sono merci non si ha profitto: se
non si ha profitto, non si ha speculazione. La tendenza del capitale,
tendenza suicida, è quella di eliminare oggi il lavoro che lo minaccia.
In che senso lo minaccia?
Perché il lavoro pretende sempre più di essere interamente remunerato,
a scapito del profitto e quindi della possibilità stessa
dell’accumulazione e della riproduzione allargata – la cosiddetta
“crescita”, senza la quale la struttura del capitale crollerebbe.
Uno dei mezzi con cui il capitale oggi (ma la tendenza era già visibile
nell’Ottocento) tende in modo ancor più clamoroso a liberarsi del
lavoro, con le sue giuste rivendicazioni, è la colonizzazione. Già Rosa
Luxemburg aveva elaborato una teoria secondo me valida nella sostanza,
nonostante le critiche ricevute per le carenze nei calcoli
tecnico-matematici: il capitale ha avuto bisogno di espandersi fuori
delle sfere industrializzate, perché vi trova manodopera disponibile,
senza limiti, a costi bassissimi. Oggi la tendenza si è estesa al punto
di coinvolgere non solo la manodopera industriale malpagata, ma il
mondo contadino, dove le transnazionali sono penetrate direttamente
attraverso il sistema dell’agribusiness, dei brevetti dei semi, ecc. Vi
è quindi un controllo diretto dell’agricoltura nei paesi dove i
lavoratori per la maggioranza coltivano la terra o abitano nelle zone
rurali. Il controllo e la rapina colpiscono pure gli agricoltori
benestanti, soggetti alle transnazionali che, in luoghi ricchi dal
punto di vista naturale, si appropriano delle sementi e le brevettano
diventandone i proprietari. Perfino i floricoltori di San Remo, ad
esempio, sono obbligati ogni anno a ricomprare i semi dei loro fiori,
che non appartengono più al regno della natura: hanno subito modifiche
biologiche per cui spesso non si riproducono più nel secondo anno. E
anche quando tecnicamente non è così, lo è comunque sul piano
giuridico, perché i semi brevettati non sono proprietà di chi li usa.
Negli Stati Uniti questo è accaduto da tempo anche per il pollame, le
uova, ecc. Sono convinta che una delle campagne importanti da fare sia
quella contro la cosiddetta “proprietà intellettuale” – che in questo
come in ogni altro campo ha ben poco a che vedere con la difesa dei
“prodotti dell’intelletto”, ma è uno strumento di dominio economico
delle grandi corporazioni.
Nella struttura in apparenza sfuggente assunta oggi dal mondo
capitalistico, sembra che non riusciamo a trovare l’equivalente di
quello che era stato un tempo il lavoro, la forza che possa combattere
strutturalmente questo sistema. Si fanno manifestazioni contro la
guerra: il fronte dei partecipanti è molto ampio e vi sono tante
motivazioni eterogenee. Nel complesso, però, sono motivazioni etiche e
interne al sistema stesso, prive di un progetto alternativo.
È già molto questo però!
No. È molto nel senso che si è formata una massa di gente che protesta.
Ma poi si trova impotente, perché non è in grado proporre niente che
sia alternativo a questo sistema.
Ma l’etica è per noi strutturale, come l’arte, il pensiero ecc...
Che
ne pensa?
Le motivazioni etiche, come quelle utilitarie, sono il punto di
partenza delle posizioni assunte dagli individui e delle loro azioni.
Dopo di che è necessaria un’analisi della realtà – risalire ai motivi e
alle cause che generano i fatti che ripugnano alla nostra visione
morale – e l’elaborazione di progetti alternativi e di strategie
politiche. Diversamente, saremo solo quel che Hegel chiamava “anime
belle”.
Ma riprendiamo il discorso sulla incapacità di ripensare un progetto
alternativo: in tutto questo non si rimette in gioco la funzione degli
intellettuali e della politica e la crisi della ragione illuminista, in
termini francofortesi, l’avanzare della ragione strumentale, in un
sistema della ragione che diventa autoreferenziale in una corsa dei
saperi e delle discipline all’autoreferenzialità?
Questo perché la dialettica dell’illuminismo ha percorso la sua
parabola. Se poi ci riferiamo al lavoro specifico degli intellettuali,
bisogna riconoscere che non tutti, ma una loro minoranza fra cui non
pochi americani, a cominciare da Chomsky, l’analisi di come funziona
questo orrendo sistema ce la fanno. Disponiamo di tutti i dati, intere
biblioteche, per vedere come tutto ciò funziona. Quello che non viene
fatto è il passaggio ulteriore alla politica. Constatiamo, per esempio,
che dietro alla guerra in corso vi sono da un lato gli interessi
petroliferi, dall’altro il disegno di egemonia mondiale degli Stati
Uniti (che devono impossessarsi dell’Asia occidentale e centrale per
poi procedere verso oriente, mettendo in difficoltà anche l’Europa).
Questo è abbastanza chiaro. Quel che non viene spiegato è il rapporto
tra questa prassi e i fatti strutturali che la determinano. Perché gli
americani, che in fondo hanno una grande tradizione democratica e
proprio nel settore più conservatore sono stati a lungo isolazionisti,
sono passati a una politica di espansione globale? Che cosa c’è dietro?
Perché questa trasformazione? È su questo che secondo me oggi non si fa
più l’analisi. Un tempo si sarebbe detto, si fa l’analisi della
sovrastruttura e non della base economica strutturale.
Ma un’economia che si basa prevalentemente sul capitale finanziario
può
stare in piedi? E non è un effetto di quell’ansia e autonomia
schizofrenica dei saperi che non fanno più struttura?
Questa è una situazione di suicidio, che però trascina nella
morte il mondo intero, anche sul piano ecologico, assolutamente
distruttiva. Uno dei grandi pensatori di oggi, István Mészáros,
ungherese allievo di Lukács, che lasciò l’Ungheria nel 1956 e da molti
anni è professore di filosofia in Inghilterra, ha pubblicato nel ’95
l’ultimo grosso libro, intitolato Oltre il capitale. È stato
tradotto
in molte lingue, e ha avuto in America Latina più di una edizione in
pochi mesi. Rovesciando con una battuta un’affermazione di Schumpeter,
secondo il quale il capitale procede a una distruzione costruttiva,
Mészáros dice che attualmente il capitale costruisce la distruzione. È
effettivamente così. Si uscirà dallo stallo? Personalmente ho poca
fiducia che se ne esca partendo dall’Europa, è più probabile che
dall’Asia e da una parte dell’America Latina vengano dei cambiamenti.
Un pensatore come Amartya Sen, l’economista, che dici di lui?
È bravo, ma non è solo, tutta l’India è ricca di vita intellettuale,
politica, scientifica. Anche il movimento delle donne indiane produce
pensiero.
Non è come noi che siamo a fare il nulla.
No, non si può dire per gli individui, ma è nel complesso che
l’Europa in questo momento... Vedi, anche la resistenza francese che è
ammirevole rispetto alla schifezza di casa nostra, secondo me è
residuale, si basa ancora sulle idee golliste dello stato-nazione.
Allora, perché Francia sì e Italia no? Perché i francesi godono di
un’enorme eredità che li rende ancora forti, uno stato-nazione che
risale a Giovanna d’Arco e anche prima, a Luigi IX; e poi l’eredità
della rivoluzione, e quella napoleonica. Lo stato napoleonico non è uno
scherzo. Napoleone non è stato solo un guerriero, ha costruito un
sistema giuridico, il codice civile, la grande struttura
amministrativa... Tuttavia questa eredità è residuale.
Ha detto un’amica e storica francese che questa attività residuale
ha
coalizzato tutto il paese, destra e sinistra.
Meno male, ma non apre a un futuro. È un po’ come la Toscana in
Italia: è il paese dove si sta meglio, regge su un passato. Mentre per
esempio Milano è uno sfacelo. Ma in un certo senso Milano è più avanti
della Toscana, giacché per lo sfacelo si deve passare.
Edoarda Masi è nota al pubblico colto soprattutto come sinologa.
Com’è
la situazione attuale della Cina, rispetto a quella di anni fa.
Una giovane giornalista del «manifesto», molto brava, Angela
Pascucci, che si occupa degli esteri ma soprattutto della Cina, è stata
di recente a Shanghai e ha scritto un articolo sulla Fiat di Nanchino.
Mi aveva mandato questo pezzo per un parere; lei non ne era
soddisfatta, eppure era un articolo ottimo. Le ho detto che non deve
preoccuparsi se non è soddisfatta di quello che ha scritto perché oggi
scrivere sulla Cina è difficilissimo, a meno che non si ripieghi sulla
critica letteraria; cosa relativamente agevole, perché hanno scrittori
notevoli, sia narratori che poeti. Hanno dei poeti straordinari. I
cinesi per tradizione hanno sempre avuto un grande poesia. È un paese
che si esprime in poesia.
Sono tradotti in italiano questi poeti?
Sì, in parte. Tradurre la poesia cinese è straordinariamente
difficile, specie in italiano. È leggermente più facile tradurla in
inglese. La lingua cinese non è flessa ed è molto sintetica. La lingua
europea più sintetica e meno flessa è l’inglese. Se hai un verso cinese
di cinque sillabe, in italiano diventa di venticinque sillabe. È
necessario un vero poeta per tentare un equivalente. Questo vale per
qualsiasi poesia, ma per la poesia di una lingua così diversa
l’ostacolo è maggiore. Allora, alcuni fra i più grandi traduttori non
poeti scelgono di fare quelle che Fortini chiamava traduzioni di
servizio. Come nelle versioni interlineari, ti dicono il senso parola
per parola, ti dicono il suono di ogni carattere cinese, e poi dànno
una semplice versione in prosa del testo. È il metodo seguito da David
Hawkes per Tu Fu. (Per il suono adotta la pronuncia di oggi, diversa da
quella dell’epoca Tang – Tu Fu è dell’ottavo secolo. Tuttavia, pur
essendo cambiato il suono, le rime rimangono nel passaggio alla
pronuncia odierna, come pure, naturalmente, i toni.) Hawkes aggiunge
una breve esposizione sulle circostanze in cui il testo è stato
scritto; segue l’esegesi sulla forma, sulla metrica, che in quell’epoca
era rigidamente regolata. Con questo metodo sono riuscita a far leggere
la poesia in cinese a gente che della lingua cinese non sapeva nulla.
Anche François Cheng, sinologo francese, traduce con questo sistema.
Invece il grande Arthur Waley traduceva in inglese direttamente e
riusciva a farlo bene, favorito comunque dalla lingua inglese.
I poeti contemporanei sono particolarmente difficili da tradurre, sono
poeti di avanguardia e per di più con molti riferimenti alla poesia
tradizionale. Sono di difficile lettura anche per i cinesi. Nell’opera
di traduzione è benemerita Claudia Pozzana, che è lei stessa autrice di
versi e da anni segue la nuova poesia cinese. Ha il merito di
pubblicare sempre le sue traduzioni col testo originale a fronte. Ha
tradotto bene, per esempio, Yang Lian. Eppure devo dire che quando Yang
Lian è venuto a Milano e ha fatto ha fatto una lettura dei suoi versi,
è stata una cosa straordinaria, era bello sentire l’originale, la forza
dell’originale. La traduzione ti aiuta, se non avessi avuto la
traduzione, forse non avrei capito neanche il senso; però molto va
perduto. Non è facile tradurre neanche i prosatori contemporanei, ma
per i poeti è veramente difficile.
Dicevo che parlare della Cina attraverso la mediazione degli scrittori
è più facile. È un paese immerso in tremende contraddizioni, eppure è
estremamente vitale. C’è la critica, c’è il pensiero, c’è la scrittura,
è un paese culturalmente in effervescenza. È impossibile prevedere se
procederà verso una crescita o verso un’involuzione (indipendentemente
dal successo economico e politico, incontestabile).
Un giudizio sulla situazione politica è quasi impossibile. Un giudizio
politico, per quanto si voglia distaccato e obiettivo, comporta una
presa di posizione dell’osservatore. Dobbiamo tenere in considerazione
che oggi la Cina si presenta come possibile bersaglio futuro degli
Stati Uniti nella loro pretesa di egemonia sul mondo. Di fronte a una
situazione simile, non solo chi per motivi di studio e di
frequentazione ha come me in quel paese una seconda patria, ma anche
qualunque persona civile non può non schierarsi dalla parte della Cina,
potenza pacifica che rischia di essere aggredita e strangolata. Il
problema delle sfere dirigenti americane è su come sia meglio
strangolarla. Discutono su questo: basterà la penetrazione
capitalistica per controllarla? Oppure no, giacché con lo sviluppo del
capitale crescerà come grande potenza indipendente, sfida e ostacolo
alla nostra egemonia globale? meglio allora aggredirla anche
militarmente. Il dilemma è di questo tipo, riguarda il come
strangolarla. Su questo piano la Cina va comunque appoggiata, senza
molte distinzioni fra popolo e governo.
D’altra parte chi studia la storia sociopolitica della Cina è portato a
un atteggiamento fortemente critico di fronte all’attuale governo. Per
esempio, hanno fatto di tutto per entrare nell’Organizzazione mondiale
del commercio. Ma apertura al mercato con il WTO significa
subalternità. Hanno puntato sull’investimento di capitali esteri e
sulla produzione per l’esportazione: il che li mette in condizione
d’essere ricattati e di possibile instabilità. La situazione economica
interna è spaventosa perché spaventosa è la forbice che dal punto di
vista del reddito e delle condizioni di vita divide i vari strati della
popolazione. C’è una minoranza piccolissima straricca, e un buon numero
di abitanti delle maggiori città che se la cava: un tenore di vita
inferiore al nostro ma decente. Il sessanta per cento della popolazione
vive nelle campagne e sta sempre peggio. La riprivatizzazione della
terra coltivabile – per altro assai scarsa – ha prodotto l’espulsione
dal lavoro di un gran numero di persone. Si è tornati a un fenomeno
proprio dell’epoca prerivoluzionaria, la formazione di un “popolo
vagante” di centinaia di milioni, migranti interni per miseria totale,
che si accampano in baraccopoli ai margini delle città.
È sottoproletariato urbano?
Non è tanto un sottoproletariato, è un vero e proprio
proletariato perché si tratta di lavoratori, sottopagati e
supersfruttati. Sono l’equivalente degli immigrati da noi (prima dal
sud al nord, ora dai paesi asiatici, africani, latinoamericani). Lo
sono anche amministrativamente. Per esempio in zone ricche come
Shanghai. La Cina è divisa in province intese alla latina, una
provincia ha le dimensioni di uno stato europeo. Shanghai e Pechino,
che sono le città più grandi, hanno una amministrazione propria, non
fanno parte della provincia che hanno intorno, ma formano come una
provincia a sé. L’amministrazione di Shanghai per accogliere quelli che
vengono dalle altre province richiede ben tre permessi di soggiorno:
uno di polizia, uno per l’alloggio, e un contratto di lavoro. Senza di
questi, se uno viene beccato viene messo in un centro di detenzione
temporanea. È interessante questa analogia con quanto accade da noi, a
prova che non si tratta di un meccanismo razzista, ma del frutto di un
sistema economico, tanto da presentarsi anche fra abitanti della stessa
nazionalità.
Questi irregolari sono in parte tollerati perché sono lavoratori non
protetti, a basso salario, che vengono adoperati principalmente
nell’edilizia, dove si costruisce con velocità sbalorditiva, in pochi
mesi si trasformano le città. Questi operai lavorano a cottimo di
gruppo, se il gruppo entro il termine non consegna il lavoro, non viene
pagato, semplicemente. Sono sistemi brutali di capitalismo selvaggio. A
volte a profitto di capitale misto cinese e estero, a volte di solo
capitale cinese. Il capitale estero è poi spesso di cinesi all’estero.
Esiste una Cina della costa diversa dall’interno e dal nord, dove
prevale il commercio. Già nel passato commercianti e anche banchieri
cinesi si sono diffusi per l’ambiente del Pacifico. Gente che manovra
denaro in Indonesia, nelle Filippine, e fino negli Stati Uniti...
La Cina rimane ancora in gran parte un paese rurale?
È rurale nel senso che la maggioranza della popolazione vive in
campagna. Maria Regis diceva che l’avvenire della Cina può essere solo
industriale e non rurale. Benché abbia una grande estensione, la terra
coltivabile è scarsa. La maggior parte della terra è fatta di deserti e
montagne. Rispetto all’enorme popolazione sempre in crescita, anche col
migliore dei sistemi di coltivazione non sarebbe in grado di nutrire i
suoi abitanti. Ha sempre importato cereali, anche nell’epoca di Mao
importava cereali dall’Australia, dal Canada... Non è un paese che
possa contare su un’agricoltura ricca, come certi paesi dell’America
Latina, rovinati per altri motivi. Dopo la morte di Mao, nei primi anni
del governo di Deng Xiaoping, c’è stato un relativo miglioramento delle
condizioni di vita in una parte delle zone rurali, grazie a una
politica di prezzi che favoriva i prodotti agricoli. Ma in generale i
contadini stavano meglio semplicemente perché si erano messi a fare una
quantità di mestieri, diciamo di piccolo commercio, sul quale i più
abili o furbi o fortunati hanno lucrato, a danno di altri. La terra è
stata ridistribuita ai coltivatori – misura inopportuna data la estrema
scarsità di terra coltivabile. A ogni famiglia tocca una superficie
coltivabile microscopica, che non consente ai suoi membri di mantenersi
in vita. Anche prima delle riforme socialiste un certo grado di
cooperazione era indispensabile. L’unico modo per poter sopravvivere è
collaborare. Un gruppo di famiglie, una cooperativa, una comune
potevano acquistare e impiegare utilmente macchine agricole e altri
mezzi di produzione, proibitivi e anche eccessivi per la singola
famiglia.
La collettivizzazione degli anni Cinquanta non ha avuto il carattere
drammatico che aveva avuto in Russia. In Russia una parte dei contadini
era contraria, non così in Cina, dove si è trattato di un fenomeno
semispontaneo, partito dalla base. Il disaccordo ci fu in seguito,
quando si tentò nelle comuni una sorta di “militarizzazione” della vita
quotidiana, che ai contadini non piaceva. L’idea di mangiare alla mensa
invece che a casa era senza dubbio più razionale, si risparmiavano
soldi, tempo e fatica; ma a una famiglia contadina piace mangiare a
casa sua secondo la tradizione. Certi eccessi non sono piaciuti ai
contadini, ma l’idea di fare le cooperative era bene accetta.
La redistribuzione della terra ha finito col portare molti alla
miseria, alla fuga. Il più furbastro riusciva ad accaparrarsi la terra
migliore, poi prendeva gli altri come braccianti (ora è consentito) e
cercava di produrre il più possibile, sfruttandoli e riducendone il
numero al minimo. Così è cominciata l’enorme fuga, e in certi casi
perfino l’abbandono della terra – un paradosso in un paese che non ha
terra sufficiente per nutrire i suoi abitanti.
La burocrazia cinese è particolarmente brava, ha alle spalle più di
duemila anni di esperienza. Finora è riuscita a stare in equilibrio in
una situazione assurda, in cui per un verso si continua il controllo
statale sull’economia e per l’altro si apre al mercato internazionale:
due cose che fanno a pugni. Finora si sono barcamenati, naturalmente
con una serie di contrasti: fra poteri locali e centrale, la connivenza
fra privati e funzionari statali, con corruzione a livelli incredibili.
E Tien an men?
Tien an men è stato uno dei risultati di questa politica. Come è
stata diffusa nel mondo dalla CNN, la faccenda è apparsa centrata
unicamente sulla rivolta studentesca, si è omesso il fatto che mentre
gli studenti protestavano a piazza Tien an men, quattro milioni di
cittadini di Pechino erano in rivolta, e poi milioni e milioni di
cittadini delle grandi città della Cina. C’è stata la rivolta guidata
dai sindacati liberi. I primi militari inviati a domare la folla sono
stati pacificamente persuasi da questa a desistere: le donne di Pechino
mettevano i loro bambini in braccio ai soldati. Allora per “riportare
l’ordine” hanno dovuto mandare soldati da province lontane che parlano
altri dialetti e che non potevano comunicare con la popolazione. Era
stato loro raccontato che a Pechino c’era una rivolta contro il
socialismo e bisognava domare i controrivoluzionari. Quei poveracci
hanno condotto l’operazione senza sapere quel che facevano, non potendo
comunicare. Non si trattava solo degli studenti nella piazza, era in
rivolta gran parte della Cina urbana. I motivi dell’insurrezione sono
tanti, è l’insieme dei motivi per cui la popolazione nelle sue varie
componenti era contro la politica governativa. Per spiegarli
occorrerebbe una lezione di più ore sulla storia della Cina. Fra gli
studenti le motivazioni erano abbastanza confuse, una rivendicazione da
un lato per la democrazia, dall’altro per il benessere del popolo. Un
amico cinese mi diceva che quelli di Tien an men erano principalmente
figli di quadri, si trattava cioè di una faccenda quasi interna al
partito. Però hanno innescato una rivolta generale del popolo. Questo
non è nuovo in Cina. Gli studenti sono stati quelli che hanno innescato
anche la rivoluzione culturale.
Di Edoarda Masi, oltre ai suoi libri, si conosce poco, che puoi dire?
Ho avuto una vita in fondo di piccola borghese italiana piuttosto
comune, salvo il fatto che sono andata in Asia. Oggi tutti i giovani
che studiano il cinese vanno in Asia. Ho studiato a Parma. Quando ho
finito il liceo i miei professori mi hanno detto che dovevo studiare
fisica, e avevano ragione. Io ero liberissima di scegliere, mio padre
era una persona eccezionale, avanti di tre generazioni, anche per il
modo di educare alla libertà. Però esisteva un influsso indiretto, mio
padre era un uomo di lettere, e mi appariva naturale orientarmi verso
le lettere.
Lo dava per scontato?
Lo davo io per scontato. Ho finito il liceo nel 1944 durante
l’occupazione tedesca, ho anche saltato un anno perché ero stanca di
andare a scuola. Sono del 1927 e avevo saltato un anno anche in prima
elementare. A Parma non c’era la facoltà di lettere, c’era a Bologna,
però a quel tempo non c’erano neanche i treni, c’era la guerra. Allora
mi sono iscritta a legge a Parma, sapendo che poi avrebbero consentito
il passaggio di facoltà. Dopo la liberazione ho fatto il passaggio a
Bologna, ma è durato un mese e mi sono stufata. Voi non avete idea,
mica esistevano i treni per andare da Parma a Bologna, mica esistevano
le automobili private. Neanche parlarne, forse qualcuna. Dovevi andare
con altra gente a dei posti di blocco fuori città, dove gli alleati
controllavano il traffico. Lì si aspettava che passassero dei camion e
ci si faceva caricare. I camion erano principalmente di due tipi:
militari degli alleati, oppure camion di quelli che facevano la borsa
nera da sud a nord. Dal momento in cui c’è stata l’unificazione c’era
uno squilibrio enorme di prezzi fra il sud inflazionato e il nord, e su
questo giocavano i borsari neri. Mi ricordo che una volta tornai da
Bologna in cima a un enorme catasta di limoni che veniva dal sud.
Comunque era una vita impossibile, non si poteva studiare in quelle
condizioni. Allora con un’amica decidemmo di rimanere a legge a Parma.
Così mi sono laureata in legge. E non mi dispiace nemmeno perché è
stato un allargamento di orizzonti, data l’educazione tutta letteraria
ricevuta a casa.
La stessa cosa ha detto Piero Bertolucci dell’Adelphi, che si è
laureato in legge, poi per caso un giorno è andato a sentire le lezioni
di Colli ed è rimasto folgorato dalla filosofia. Però anche lui è
laureato in Legge.
Le donne a quel tempo non potevano entrare in magistratura, ma io
non ci pensavo nemmeno, neanche l’avvocato volevo fare, non mi piaceva.
Ma la laurea in legge dà accesso a quasi tutte le professioni
“umanistiche”. Comunque, l’aspetto nuovo per me rispetto al liceo è
stato lo studio della storia del diritto pubblico. É un modo di
studiare la storia che nel liceo non c’è, la storia delle istituzione
non si fa. Un modo di fare la storia d’Italia sconosciuta nel campo dei
letterati. E poi si scopre che i migliori testi di letteratura latina
sono quelli dei giuristi, sono testi meravigliosi di grande sintesi e
di grande razionalità, dove appare il genio propriamente latino.
Vedi, per esempio, la definizione della violenza morale: «Quamvis si
liberus essem noluissem tamen coactus volui».
Dopo la laurea in legge, la prima esigenza era lavorare subito,
qualunque lavoro. In questo senso la mia generazione è molto diversa da
quelli che oggi volentieri resterebbero a casa della madre fino a
cinquant’anni, se potessero. È vero che ci sono condizioni di lavoro
difficili, che non è facile trovare casa e lavoro, però in queste
condizioni la gente si assesta... Io ho avuto la fortuna che la mia
adolescenza, tarda adolescenza, i miei diciassette anni, hanno coinciso
con la Liberazione. La storia d’Italia è stata in armonia con la mia
crescita personale. L’entusiasmo, veramente grande nei primi anni dopo
la Liberazione, ha coinciso per me con il momento in cui uno apre gli
occhi sul mondo. È un dato generazionale: tutte le mie compagne, donne,
figlie della gente per bene di Parma (una categoria non particolarmente
brillante per spirito d’indipendenza), tutte volevamo lavorare il più
presto possibile. Era un desiderio d’indipendenza, non volevamo
dipendere dai genitori. C’era per me anche la considerazione di mio
padre, che era un funzionario statale. Gli stipendi, fino agli anni
Sessanta, non ti permettevano quasi di vivere, essendo dirigenti
statali – quindi poveri. Allora perché dovevo farmi mantenere da mio
padre? Lo trovavo anche immorale. Avrei avuto la possibilità di restare
all’Università, ma allora era ancora peggio di adesso: avrei dovuto
lavorare gratis per anni. E poi, pur andando d’accordo con i genitori e
benché non mi abbiano mai ostacolata in nulla, c’era il desiderio di
indipendenza, volevo contare sulle mie forze.
Sei figlia unica?
No, ho un fratello, un po’ più giovane. Al primo concorso che c’è stato
per le biblioteche, ho colto l’occasione. Allora erano concorsi
piuttosto difficili. Ho lavorato per un anno alla Nazionale di Firenze.
Ci stavo benissimo, ero contenta, c’erano i colleghi giovani con cui ci
divertivamo...
Giovanni Semerano era alla Nazionale di Firenze?
Lavorava alla Marucelliana. Direttrice della Nazionale era la Mondolfo,
allieva e amica di Giorgio Pasquali. Miei colleghi erano Umberto
Albini, grecista, entrato col mio stesso concorso, Martini, che ha
lavorato in seguito in una biblioteca dell’Onu, Casamassima, poi
diventato direttore della Nazionale. Eravamo stati reclutati quasi
tutti contemporaneamente, nei primi concorsi del dopoguerra dopo anni
di stasi. Ero felice e contenta, ma non potevo sopravvivere,
letteralmente, con lo stipendio, anche avendo trovato una pensione di
bravissima gente che mi nutriva bene (per lo meno mangiavo e avevo una
cameretta). Però pagati quel mangiare e quella cameretta, non potevo
comprarmi più nulla, non era possibile.
I miei si erano trasferiti a Roma e c’era una casa grande... A Roma ci
sono tante biblioteche, mio padre dirigeva allora l’Angelica, non
potevo essere una dipendente di mio padre... Sono andata alla
Biblioteca Nazionale, che era nella confusione più completa. Venivo da
quella di Firenze che era diretta bene, bene ordinata, e lì mi sono
trovata nel caos. Gli anni Cinquanta, gli anni di Roma, sono stati per
me anni bui, i più brutti della mia vita. Roma è una città
faticosissima per chi non abita in centro e noi abitavamo in periferia.
Tu passi la giornata sui mezzi di trasporto. Mi ero fatta
un’automobilina, una Topolino usata, ma anche così per arrivare a casa
dalla biblioteca impiegavo più di un’ora. Per fortuna facevamo orario
continuato, però arrivavo a casa alle tre, mangiavo, e dopo cadevo in
letargo. Se dovevo uscire, si trattava di ricominciare, riuscivo ad
arrivare in centro alle sei. Questo dei tempi di trasporto è un aspetto
importante, può bloccarti la vita.
Roma è una città bellissima, e mi era familiare come i corridoi di casa
mia, però è una città ministeriale e l’odioso ambiente burocratico
romano aveva delle propaggini anche nelle biblioteche. Mentre le
biblioteche fuori Roma in fondo erano dei regni indipendenti. A Roma
finivano per essere tutti parenti, amici e imparentati con i funzionari
e gli impiegati dei ministeri, c’era una presenza
burocratico-ministeriale anche dentro la biblioteca. Poi, sulla
Biblioteca Nazionale di quel tempo, diretta in modo strambo, ci sarebbe
da scrivere un romanzo gogoliano.
Dalla Biblioteca Nazionale di Roma sei andata all’Istituto di Studi
Orientali?
No. A Roma ho studiato il cinese per quattro anni, poi, nel 1957,
sono andata in Cina chiedendo l’aspettativa. Sono stata un po’ più di
un anno all’Università di Pechino. Avevo una borsa di studio di tre
anni a Pechino, ma avrei perso il lavoro in Italia, quindi sono
tornata. Anche perché, per ciò che mi importava – la lingua
contemporanea – ne sapevo abbastanza, e ho continuato a studiare in
Italia. Sono tornata nel 1958, sono stata a Roma ancora due o tre anni,
ma lì la vita era sempre più insopportabile, e ho chiesto il
trasferimento a Milano. Me lo hanno dato immediatamente, in un giorno,
d’ufficio, mi hanno pagato il trasporto delle mie cose, perché nessuno
statale voleva trasferirsi da Roma a Milano – dove vi era carenza di
personale, mentre a Roma ce n’era in eccesso. Sono rimasta a Milano
alla Biblioteca Nazionale Braidense fino alla pensione, nel 1973.
Il tuo ruolo era quello di direttore di biblioteca?
No, di dirigente. Prima esistevano solo tre categorie: una categoria
esecutiva, una intermedia, e la carriera direttiva. Ero nella carriera
direttiva. In quegli anni Andreotti promosse una riforma: dopo un certo
numero di anni di servizio e un esame, i funzionari direttivi
diventavano dirigenti. Fui tra questi. Il dirigente può avere un
incarico di direzione ma in una biblioteca grande oltre il direttore
c’è un certo numero di dirigenti. Io ero comunista, perciò non ho mai
avuto una direzione. Ne ero stata preavvertita, ancora quando ero a
Roma, dal capodivisione del personale: “Lei è brava e molto quotata, ma
sarebbe meglio che smettesse di occuparsi di questioni sindacali”. Era
uno legato con Gonella, il ministro democristiano della Pubblica
Istruzione. Gli risposi: “Finché c’è la libertà....” E lui: “Che Dio ce
la conservi!” e fu tutto. Non mi importava molto di questa limitazione
della carriera, anche perché lo studio della storia e della letteratura
della Cina stava diventando il mio interesse principale. Quello dei
bibliotecari è un ambiente di persone civili. La direttrice ti
rispettava. Nelle biblioteche allora vigeva il matriarcato: i concorsi
di accesso erano difficili, si richiedeva una preparazione notevole, ma
la professione dava poche soddisfazioni e pochissimi soldi. Così la
maggior parte delle candidate a quella carriera era di donne. Questa
gestione femminile funzionava bene, tutto sommato. Negli ultimi anni di
Brera mi occupavo degli acquisti e del personale, una funzione
dirigente anche se formalmente non ero il direttore.
Mentre lavoravo a Brera ho conseguito la libera docenza in letteratura
cinese e ho ottenuto all’Orientale di Napoli l’incarico di letteratura
cinese per quattro anni. Era una vita pesante, facevo la pendolare da
Milano a Napoli. Non guadagnavo niente, mi davano ottantamila lire che
non bastavano neanche per pagare il treno o l’aereo. (Fruendo già di
uno stipendio statale potevo avere solo un’integrazione.) A Napoli ho
insegnato letteratura cinese moderna. L’incaricato era qualcosa di
simile all’associato di oggi, però in condizione di precariato,
nominato anno per anno. Il pendolarismo naturalmente era pesante: a
Napoli facevo cinque ore di lezione di seguito per due giorni. Erano i
primi anni Settanta, il clima era post-sessantottesco, si passavano ore
a parlare con gli studenti, era molto bello, ma pesante. Quando tornavo
a Milano, trovavo accumulato il mio lavoro, non c’era un altro a farlo,
nonostante l’autorizzazione ad assentarmi per due giorni. Ero nella
“force de l’âge” e ce la facevo, ma con fatica.
Poi avrei dovuto decidermi a dare il concorso per la cattedra; in quel
momento lo avrei vinto, i concorrenti erano pochi. Però avrei dovuto
trasferirmi a Napoli: una città che amo molto, dove mi sono trovata
benissimo. Ancora oggi con gli ex colleghi napoletani sono in ottimi
rapporti. Ma la mia vita era impiantata a Milano, che non era quella di
oggi, ci stavo molto bene. Qui avevo gli amici e i compagni, qui ero
organizzata. Allora dissi: “Che m’importa, mica voglio fare la carriera
universitaria”. Più tardi gli amici napoletani me ne hanno
rimproverata, per aver perduto il contatto con gli studenti. È un
rapporto che ancora oggi, per quanto occasionale, funziona molto bene.
Eppure da giovane pensavo di non essere portata all’insegnamento; ma
c’era un equivoco, pensavo all’insegnamento nella scuola media, ed
effettivamente non sono portata ad avere a che fare coi ragazzini, a
tener buona la classe, ecc. L’insegnamento a ragazzi adulti è un’altra
cosa.
E i «Quaderni piacentini»?
È la storia di Milano di quegli anni. Perché volevo restare a Milano?
Perché gli anni Sessanta sono stati anni meravigliosi. Da Roma a Milano
c’è stato per me un cambiamento radicale. È ancora la storia d’Italia.
Gli anni Cinquanta sono i Dieci inverni di Fortini. Per molti di noi
sono stati anni bui; poi è venuta la liberazione degli anni Sessanta.
Prima dei «quaderni piacentini» avevo conosciuto i compagni dei
«quaderni rossi». Raniero Panzieri l’avevo conosciuto già a Roma,
tramite un amico comune; allora era un dirigente della sinistra
socialista. Quando ero partita per la Cina, mi aveva detto: «Mandaci
delle corrispondenze». Allora dirigeva «Mondo operaio» che durante la
sua direzione fu una rivista bellissima. È durato poco, però, perché
venne emarginato dal suo stesso partito e finì a Torino a lavorare per
Einaudi. Era amico di Franco Fortini. Fortini l’ho conosciuto, perché
al ritorno dalla Cina ho scritto un libro e glielo ho mandato. Pensavo
fosse lo scrittore adatto a capirlo. Il manoscritto gli piacque molto.
Lo presentò, con Panzieri, alla redazione Einaudi di cui faceva parte.
Questo è accaduto pressappoco nello stesso periodo in cui mi sono
trasferita a Milano, all’inizio degli anni Sessanta. Da Einaudi vi fu
un grande litigio intorno al mio libro, perché conteneva delle critiche
al regime cinese, fatte da un punto di vista socialista, non da un
punto di vista ostile. Però alcuni non erano d’accordo, sostenevano che
qualsiasi critica sarebbe andata a vantaggio del nemico. C’era questa
mentalità un po’ stalinista, anche fra non stalinisti. Si oppose
principalmente Renato Solmi, un uomo straordinario col quale in seguito
ho stretto amicizia, ma in quel momento troppo osservante e timoroso
dell’eresia. Allora il libro non uscì. In quell’occasione ho avuto un
rapporto un po’ più discorsivo con Panzieri il quale mi consigliò: «Non
lo dare ad altri editori perché perderebbe il suo carattere». Oggi non
è più così, ma allora Einaudi aveva una certa sua nobiltà. Le case
editrici non erano tutte uguali come oggi. Così l’ho messo nel
cassetto. Soltanto qualche anno fa è uscito da Feltrinelli con il
titolo Ritorno a Pechino, con un’introduzione esplicativa.
Panzieri mi disse: «Comincia a frequentare le riunioni dei nostri
“quaderni rossi”» e mi fece fare dei lavori. La rivista era quasi un
sottoprodotto di un intenso lavoro precedente. Non ci si incontrava
come si incontra una redazione, ma per organizzare un lavoro di studio,
di inchiesta e di ricerca – specialmente nelle fabbriche torinesi. Si
facevano grandissime sedute di discussioni. Poi alcuni dei risultati
venivano pubblicati nella rivista, di cui uscirono appena cinque
numeri. È stata per me un’esperienza straordinaria, ho avuto modo di
incontrare un insieme di cervelli eccezionale. C’erano Vittorio Rieser,
Giovanni Mottura, Liliana e Dario Lanzardo, Michele Salvati che era
l’ala destra, Bianca Beccalli, Mariuccia Salvati, Mario Tronti, Toni
Negri, Adriano Sofri, ecc. Il nucleo di quella che è stata poi la
sinistra italiana pensante, in ogni direzione, è passato dalla rivista.
Dopo un certo periodo, entrai a far parte della redazione.
I «quaderni piacentini» erano più collegati con Fortini, che lavorò per
metterli in rapporto con i «quaderni rossi». Non è vero che Fortini
fosse un isolato, come dice Rossana Rossanda. Al contrario, era un
organizzatore di cultura, metteva in relazione le persone, in un
continuo lavorio. (Un numero sull’America Latina fu realizzato insieme
dalle due redazioni.) Grazie a Fortini cominciai a frequentare i
«quaderni piacentini», conobbi Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi,
Goffredo Fofi. In seguito entrai nella redazione.
Il valore di queste persone era davvero elevato, molte delle cose
allora dette si sono rivelate azzeccate.
Intorno ai «Quaderni rossi» gravitavano anche un gruppo toscano,
amici di Sofri, i veneziani incluso Luigi Nono, anche dei napoletani e
dei siciliani. Poi c’era anche Giovanni Pirelli, che fra l’altro ha
aiutato finanziariamente la rivista. Un uomo straordinario. Molti degli
articoli dei «quaderni piacentini» sono stati tradotti in Europa e
anche altrove. In Francia, la rivista di Sartre riprendeva i nostri
articoli. In Germania, facevano opuscoletti dei nostri articoli. È
stato un momento in cui è esistita in Europa una sinistra seria, nella
quale gli italiani hanno avuto un ruolo. «Quaderni piacentini» per un
certo periodo è stata la più bella rivista europea di politica-cultura.
Come mai, al di là del dato della naturale dispersione (c’è chi
muore
ecc.), questo patrimonio si è smarrito?
Si è persa la funzione sociale dell’intellettuale. Quei cervelli
in qualche modo erano ancora un residuo di certa cultura umanistica, e
si sono dispersi. Il mio amico Giuseppe Gozzini diceva: «Il Sessantotto
è stato il rantolo finale di un periodo che durava da più di un
secolo». Se si guarda la storia delle persone, ognuno è rimasto un
atomo per conto suo, una monade. Chi aveva una sua moralità personale,
come Bellocchio o Vittorio Rieser, si è mantenuto isolato, facendo il
proprio lavoro in modo decente, ma isolato. Quelli che davano meno
importanza alla salvaguardia della loro purezza intellettuale, sono
entrati nel giro o economico o politico o accademico – qualche volta
diventando uomini di regime.
Ma non è per l’incapacità di pensarsi in un modo diverso?
No, come diceva Marx, non si può fare come il Barone di Münchausen che
cercava di sollevarsi da terra tirandosi per i capelli. Tu non puoi più
avere quella funzione nella società, se la società non te la dà. Sei
autoreferenziale. Lo sei perché ti hanno messo in quella condizione.
Ma non è anche per il fatto che gli intellettuali non si sono
pensati
fuori da questa autoreferenzialità?
Secondo me, individualmente questo è accaduto. Alcuni non lo
hanno fatto. Ma se parliamo della categoria, la categoria è determinata
anche dal contesto. L’individuo molto meno, si può salvare, si chiude
nel suo guscio, ha la sua moralità personale, continua a fare le sue
cose... Però se pensiamo a una funzione di gruppo, no. Ritengo che
nella fase attuale dell’evoluzione economica e politica mondiale,
quelli che erano chiamati gli intellettuali, ma che in realtà erano gli
intellettuali umanisti, anche del tempo di Marx e poi via via, non
hanno più quella funzione che hanno avuto per un secolo e mezzo: in
quanto oggi le leve del potere, sia pure con asservimento, sono semmai
nel campo della scienza e della tecnologia. Per esempio, il sistema di
dominio attraverso la biogenetica, senza una scienza asservita sarebbe
impossibile. Il potere delle transnazionali della chimica senza il
potere degli universitari sarebbe impossibile. Questi sono veramente
gli asserviti pericolosi. Quando tu hai un asservito in campo
umanistico, il peggio che può fare è del giornalismo fetente... non
dico che faccia poco male, ma tutto sommato... Il potere in questo
senso è limitato, mentre non lo è il potere di quelli che organizzano
l’industria chimica in un certo modo e sono asserviti a quella, oppure
la corporazione dei medici, quelli che insomma hanno finito per fare
della vita umana qualcosa di spaventoso. Diceva un mio amico, ora
morto: «Se mi ammalo gravemente, la prima cosa che faccio è
nascondermi»; perché uno non vuole diventare oggetto di esperimenti,
campare tre anni di più, sottoposto a sofferenze atroci per quei tre
anni in più che lo fanno vivere.
Certamente è necessario un contributo di pensiero teorico al
cambiamento effettivo, di filosofia, di economia ecc... sarà necessario
questo, ma non c’è ancora. Chi detiene il potere non ha più bisogno di
intellettuali, si serve di altri, di mezze calzette.
Ma come possiamo considerare questi degli intellettuali? Non hanno
la
coscienza critica dei propri statuti scientifici o umanistici. E perché
questa scissione fra scienziati e intellettuali umanistici? Si tratta
di intellettuali e basta.
Sono d’accordo, dico solo che detengono un pezzo di potere, e per
di più sono asserviti.
* Edoarda Masi è nata a Roma nel 1927. Si è laureata in giurisprudenza
a Parma nel luglio 1948. Dal 1950 al 1973 è stata bibliotecaria (ruolo
direttivo, ruolo dirigente) nelle biblioteche statali (Biblioteca
Nazionale di Firenze, Biblioteca Nazionale di Roma, Biblioteca
Nazionale di Milano). Nel 1956 si è diplomata presso l’Ismeo di Roma in
lingua e istituzioni cinesi e in lingua russa. Dopo un corso di
perfezionamento in lingua cinese presso lo stesso Ismeo, ha frequentato
un corso speciale di lingua cinese presso l’Università di Pechino, nel
cui campus ha vissuto nel 1957 e 1958. Dal 1968 al 1971 ha tenuto
seminari sulla cultura e la storia della Cina moderna presso le
università di Torino, Venezia, Roma, l’Istituto superiore di sociologia
di Milano, l’Istituto universitario orientale di Napoli, l’istituto di
studi storici e sociologici dell’Università di Urbino, l’istituto
superiore di scienze sociali di Trento. Nel 1970-71 ha insegnato lingua
cinese presso l’Ismeo di Milano. Nel 1971 ha conseguito la libera
docenza in lingua e letteratura cinese. Negli anni accademici 1971-72,
1972-73, 1973-1974 è stata incaricata dell’insegnamento di letteratura
cinese moderna e contemporanea presso l’Istituto universitario
orientale di Napoli. Nel 1976 ha lavorato informalmente presso
l’Ambasciata d’Italia a Pechino. Nell’anno accademico 1976-77 ha
insegnato lingua italiana presso l’Istituto universitario di lingue
straniere di Shanghai. Oltre che in Cina, ha viaggiato (in Asia) in
Giappone e in Vietnam. Ha collaborato a diversi periodici, fra i quali:
«Alfabeta», «Annali Feltrinelli», «Antigone», «Asahi», «Aut aut»,
«Azimuth», «Cina», «Critica, revista de la Maestria en ciencias
sociales de la Universidad Autonoma de Guerrero», «Guerre & Pace»,
«Ideologies», «Kursbuch», «L’Indice», «Linea d’ombra», «Nuova rivista
storica», «L’ospite ingrato: Annuario del Centro studi Franco Fortini»,
«Quaderni dell’amicizia (Associazione Italia-Cina)», «quaderni
piacentini», «quaderni rossi», «Rivista di storia contemporanea»,
«Rivista storica del socialismo», «Socialist Revolution», «Tempi
moderni», «Les temps modernes», «Ulisse».
Ha pubblicato i seguenti volumi: La contestazione cinese.
Torino,
Einaudi, 1968; 1969; 1971 (trad. tedesca: Die chinesische
Herausforderung. Berlin, Wagenbach, 1970); Lo stato di tutto il
popolo
e la democrazia repressiva. Milano, Feltrinelli, 1976; Per la
Cina.
Milano, Mondadori, 1978 (trad. americana, con variazioni e aggiunte:
China Winter. New York, Dutton, 1982); Breve storia della Cina
contemporanea. Bari-Roma, Laterza, 1979; Il libro da nascondere.
Casale
Monferrato, Marietti, 1985; Cento trame di capolavori della
letteratura
cinese. Milano, Rizzoli, 1991; Ritorno a Pechino. Milano,
Feltrinelli,
1993; Storie del bosco letterario. Milano, Scheiwiller, 2002.
Ha curato le seguenti traduzioni dal cinese: Cao Xueqin, Il sogno
della
camera rossa. Torino, Utet, 1964; 1981; Lu Xün, La falsa libertà.
Torino, Einaudi, 1968 (poi Quodlibet, Roma-Macerata 2006); Feng Youlan,
Sommario di storia della filosofia cinese, in «i problemi della
pedagogia», 1971-72; Lao She, Città di gatti. Milano, Garzanti,
1986;
Confucio, I dialoghi. Milano, Rizzoli, 1989; Chuanqi:
storie
fantastiche Tang. Parma, Pratiche, 1994; Lu Xün, Erbe selvatiche.
Macerata, Quodlibet, 2003.
«Kamen´», Rivista [semestrale] di poesia e filosofia, a. XIII, n. 23,
gennaio 2004
Direttore responsabile: Amedeo Anelli – e-mail: amedeo.anelli@libero.it
Redazione: Viale Veneto 23 – 26845 Codogno (Lodi), tel. e fax 0377-30709
[11 settembre 2011]
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