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Leggere Marx a Parigi: lo spirito e la lettera. Intervista a Jean Salem
a cura di Salvatore Prinzi
Maggio
1968: gente frenetica e dappertutto, barricate nel quartiere latino, il
boulevard Saint-Michel senza più pavè. Gli alberi
sradicati e per terra, a sostenere i pannelli pubblicitari divelti da
giorni. Il rumore è di sassi, di molotov e grida: la polizia
antisommossa chiude le strade e manganella a caso, la storia sembra
farsi a ogni minuto, ogni slogan un'interrogazione trattenuta sulle
labbra. La Sorbona è occupata dagli studenti, aperta a tutti
da mattina a sera, fra riunioni politiche, iniziative di
controinformazione, seminari autogestiti. Giovani operai, vecchi
militanti del PCF, abitanti del quartiere, casalinghe e artisti la
attraversano un po' alla cieca, chi per dare una mano, chi per capire o
criticare, chi per fare fronte comune davanti alla repressione. I
nemici per tutti hanno nomi precisi: la borghesia, i padroni, il
capitale, l'imperialismo. E nell'esplosione di sette e gruppuscoli di
tutti i tipi, nella proliferazione di maoisti, trotskisti e stalinisti
in lotta fra loro per stabilire chi è il più
fedele servitore della causa proletaria, qualcuno già scrive
sui muri: “Io sono marxista, di tendenza Groucho”.
Quarant'anni dopo - le barricate sostituite dai ristorantini per i
turisti, il pavè di Saint-Michel diventato un più
sicuro asfalto - per entrare alla Sorbona, bisogna innanzitutto esibire
i documenti. Carta studenti, un certificato di qualche biblioteca,
autorizzazioni o lettere di qualche professore che vi lavora: senza
nulla in mano, inutili le discussioni con i vigili all'ingresso. E
mentre sul sito ultra-istituzionale della Sorbona invece della rabbia e
della lotta politica si celebrano le allegre gesta dei giovani
sessantottini, le “nuove combinazioni di parole, le idee
folli, generose e utopiche”, il piano di Georges Lapassade, i
colori, e insomma “la festa”, chi si iscrive oggi
in quest'università difficilmente potrebbe trovare anche
solo l'eco di quello spirito irrispettoso di denuncia e contestazione.
Per non parlare di un testo di Marx nei programmi di esame. Fra Kant,
Hegel e Heidegger, fra una spruzzata abbondante di fenomenologia e
qualche ricordo della stagione strutturalista e decostruzionista,
passando per la nuova moda di una filosofia analitica in salsa
francese, il filosofo tedesco non si incontra nemmeno per sbaglio.
Abbandonato qualsiasi progetto di critica dell'ideologia, qualsiasi
analisi “sospettosa” del reale, le nuove leve della
filosofia d'oltralpe crescono - esattamente come da noi - con un altro
vocabolario, e con un'idea quantomeno vaga dei problemi posti da un
pensiero emancipativo. Così, alla fine, nella Sorbona
pacificata di oggi non ci sono più né i marxisti
né i grouchisti, né la serietà della
tragedia, né l'irriverenza della farsa.
Si rimane sorpresi dunque, nel trovarsi di fronte, proprio qui,
nientemeno che un intero ciclo di seminari dedicati a
Marx
nel ventunesimo secolo: lo spirito e la lettera.
C'è qualcosa che non torna, ci si dice: che fra quei muri
secolari, nel dedalo dei suoi passaggi, ci sia rimasto asserragliato
qualcuno di quei sessantottini? Evidentemente dev'essere
così, perché per il terzo anno consecutivo il
professor Jean Salem, avvalendosi della collaborazione, fra gli altri,
di Stathis Kouvelakis, Vincent Charbonnier e Isabelle Garo, e del
supporto della rivista «ContreTemps», ha messo su
un tale spazio critico, dove il pensiero di Marx è evocato
attraverso i suoi tanti interpreti ed epigoni.
Scorrendo infatti gli incontri del seminario, ritroviamo un po' tutti i
nodi teorici e le figure del marxismo, ripercorsi da commentatori sia
francesi che europei alla luce dei problemi oggi più
pressanti. Si va infatti da temi più generali – da
Slavoj Zizek che parla di
Stato d'emergenza e dittatura rivoluzionaria,
a Isaac Johsua con la sua relazione sulla
Rivoluzione
secondo Marx: la classe di troppo,
da Stephen Bouquin con la sua analisi della
Resistenza e acquiescenza nelle imprese di
oggi,
a Georges Labica che abbozza una
Teoria della violenza,
mentre Quentin Meillassoux illumina i concetti di
Storia
ed evento
– fino a delle letture più specifiche, come quella
di Olivier Pascault sul rapporto fra il
Marxismo e la questione letteraria,
di Isabelle Garo sulla Rottura
impossibile di Althusser,
di Patrick Gaud su
Sorel
e la critica del marxismo,
di Vincent Charbonnier su
La reificazione da Lukács a
Honneth,
e di Raymond Huard e Jean Ducange
Su “Il 18 Brumaio di Napoleone
Bonaparte”;
in programma c'è anche una lezione di Luciano Canfora su
La
democrazia e i suoi critici.
Gli anni passati sono stati invece invitati André Tosel,
Domenico Losurdo, Lucien Sève, Michael Krätke,
Fabio Frosini, Alberto Toscano, Michel Husson, Claude Mazauric, Daniel
Bensaïd...
L'obiettivo di tale seminario è, come si vede, riportare un
certo
pensiero critico nell'odierno dibattito culturale, non per
un'operazione accademica di imbalsamazione, al contrario: per
rilanciarlo nel nuovo secolo. Tre anni fa gli organizzatori hanno
provato a spiegare le ragioni, per nulla scontate o meramente
ideologiche, di questa operazione. Dire che il pensiero di Marx
è ancora vivo - affermano - non può rimanere una
dichiarazione astratta e senza conseguenze: la sua iscrizione nell'albo
dei classici non può avvenire senza un certo urto con la
tradizione, urto che porta a ridefinire tutta la costruzione
tranquillizzante della storia della filosofia. È solo un
lavoro d'esplorazione e d'invenzione che può mantenere vivo
il pensiero di Marx, ed è per questo che il seminario tenta
di porsi come luogo di dibattito, di scoperta e di confronto.
Si
tratta di seguire i testi con il più grande rigore storico e
filologico, sviluppando tutti i temi affrontati dal pensatore tedesco,
oltrepassando le rigide divisioni disciplinari, misurando le
riflessioni sociologiche, economiche e storiche, sulla loro portata
pratica.
Mettere in piedi un seminario di questo tipo - continuano gli
organizzatori nella loro presentazione – vuol dire proporre
un atteggiamento offensivo, di iniziativa, e non nostalgico o di mera
testimonianza, di fronte al pensiero dominante. Rigettando gli anatemi,
e sconvolgendo evidenze che ogni volta si pretendono eterne, lo scopo
è confrontarsi con tutte le idee del presente, con tutte le
correnti del pensiero contemporaneo. A questo allude il titolo del
ciclo seminariale:
Marx nella sua lettera,
ovvero letto e spiegato nel suo contesto, secondo le sue intenzioni,
e
nel suo spirito,
ovvero nel suo impensato, in quello che resta da fare per comprendere
meglio il presente, rilanciando nella pratica una filosofia che non si
limiti a comprendere il mondo
après coup,
ma che miri addirittura a cambiarlo.
Increduli di fronte a tutto questo coraggio, decisamente
inattuale
in senso nietzscheano, siamo andati a fare qualche domanda a Jean
Salem, il coordinatore del seminario. Nato nel 1952, Salem dirige il
“Centro di storia dei sistemi moderni di pensiero”
e insegna “Storia del materialismo filosofico” a
Paris I. Studioso del pensiero antico, sul quale ha scritto libri molto
apprezzati e tradotti in diverse lingue (fra gli altri:
L’Atomisme antique. Démocrite,
Épicure, Lucrèce,
Le Livre de Poche, 1997;
Le Bonheur ou L’Art
d’être heureux par gros temps,
Bordas, 2006;
Cinq variations sur la sagesse, le plaisir et la
mort, Michalon, 2007), autore di un interessantissimo
Lénine et la révolution (Michalon, 2006), Salem ha pienamente confermato
la vocazione del seminario da lui diretto, se non altro
perché si è prestato con generosità
alle nostre domande un po' impertinenti.
Partiamo proprio dal seminario che avete messo in piedi tre anni fa, e che sembra ormai ben rodato. Nonostante l'abbiate spiegato milioni di volte, vorremmo tornarci ancora su: qual è il senso di proporre oggi Marx nelle università? Qual è lo scopo del vostro lavoro, in particolare alla Sorbona?
Be',
bisogna dire che il punto da cui partiamo è quello di una
disfatta di ampie proporzioni. Penso a tutti quelli della mia
generazione che sono passati dalla rivoluzione alla capitolazione
più vergognosa, al vuoto teorico di questi decenni... Penso
al libro di Hobsbawm,
Il
secolo breve,
tradotto in Francia solo nel '99, perché sospettato di
marxismo in un clima niente affatto favorevole. Hobsbawm stesso ne
parla, nella prefazione del testo, citando la presenza di un certo
“antimarxismo astioso” fra gli intellettuali
francesi... Dieci anni fa, quando ai miei corsi iniziavo a parlare di
Marx, i ragazzi posavano la penna e smettevano di prendere appunti,
come se stessi dicendo cose senza importanza, che comunque non
riguardavano i loro studi. Adesso però mi sembra di vedere
rinascere di nuovo l'interesse verso un pensiero critico, e se ci
allontaniamo dall'Europa, possiamo parlare di una vera e propria
riscoperta di Marx.
Io ho avuto la fortuna di incontrare delle persone disinteressate,
disposte a mettersi in gioco al di là delle convenienze
personali e degli impegni accademici, ed abbiamo potuto organizzare
insieme un seminario bimensile che vede ogni volta la partecipazione di
cento, duecento persone, fra studenti, lavoratori, professori, vecchi
militanti. Al di là di ogni ristretta logica di scuola o di
tendenza, è un seminario veramente aperto a tutti quelli che
si interessano al pensiero marxista. Non è assolutamente
ammissibile che un pensiero così ricco sia a tal punto
rimosso dal dibattito culturale: bisogna attivarsi e reagire.
E l'avete fatto! Sarà una piccola cosa, ma la Sorbona è forse l'Università più controllata d'Europa... Come siete riusciti a convincere gli onnipresenti vigili a far entrare le persone sprovviste della mitica carta studenti?
Bisogna dire che anche qui scontiamo le conseguenze dell'11 settembre. È da allora che, con il pretesto di possibili attentati terroristici, il controllo è diventato sempre più opprimente. Persino i professori devono mostrare la loro carta all'ingresso. In realtà questo controllo si è rivelato quanto mai utile nel caso del movimento contro il CPE¹ del marzo 2006, o dell'ultimo movimento contro la LRU² di questo inverno. In questo modo tentano di impedire l'ingresso a tutti quelli che potrebbero dare manforte ad un'eventuale occupazione universitaria. Per quanto riguarda i vigili, è chiaro che sono lavoratori: spesso ci si può parlare, sono cortesi e professionali, non hanno nessun piacere a impedirci i movimenti. Ma è anche vero che la Sorbona in periodi più turbolenti si affida a compagnie private che sono decisamente meno corrette... Comunque, ad insistere, si possono superare anche questi limiti pratici, basta avere la volontà e la convinzione. Ovviamente anche chiamare personalità prestigiose, studiosi riconosciuti o professori capaci aiuta molto.
È importante che le iniziative culturali di questo tipo, proprio come le lotte, comunichino. E non è solo una questione di darsi visibilità e sostenersi a vicenda: si tratta soprattutto di dotarsi, scambiandosi le esperienze, degli strumenti più efficaci, quelli che più hanno dimostrato di funzionare. Quali sono stati i vostri passaggi organizzativi? Come avete messo su, concretamente, questo seminario?
Sicuramente
l'isolamento e la solitudine rappresentano il primo problema da
superare. Per un lungo periodo, più che marxiani ci siamo
sentiti marziani, spaesati in un mondo divenuto straniero. La prima
cosa è dunque il collegamento, e il seminario dispone di un
ottimo sito internet³, dove si possono scaricare le relazioni e persino
i video delle sessioni, ma anche molti altri testi su Marx, sul
marxismo, su questioni di attualità, lette da un punto di
vista critico. C'è in più la
possibilità per tutti di pubblicare degli interventi, e
questo consente di continuare quei dibattiti e chiarire quei punti che
nel seminario restano insoluti. Purtroppo, anche se i miei colleghi
lavorano 18 ore su 24, non siamo ancora in grado di tenere un forum, ma
la nostra mailing list è uno strumento molto importante, e
cerchiamo di assicurare subito una risposta a chiunque ci contatti.
Inoltre abbiamo creato un'Associazione
degli amici del seminario,
per cercare di sostenerlo contro eventuali attacchi –
c'è infatti chi cerca di impedirci di esistere in una sede
così prestigiosa –, per facilitare le relazioni
burocratiche con le istituzioni, e per coinvolgere altre persone che
magari sono lontane ma vogliono comunque contribuire. Così
le nostre iniziative arrivano in tutta la Francia: anche negli altri
atenei e scuole superiori appendono le nostre locandine. Altra cosa che
stiamo cercando di fare, è di istituzionalizzare il
seminario, inquadrarlo in un percorso di studi, in modo d'assicurarci
la sua continuità nei prossimi anni, e d'incentivare
l'arrivo degli studenti - sebbene pensiamo debba restare qualcosa di
diverso da un seminario strettamente accademico, dove alla fine del
corso la gente dice “grazie” e se ne torna a casa.
Siete soddisfatti dei risultati in termini di partecipazione? Non parliamo solo dei numeri, ci chiediamo piuttosto se il seminario arrivi davvero a “parlare”, se non resti astratto o una nicchia per soli esperti. Pensa ci sia un ritorno effettivo su chi vi viene a seguire?
Basterebbe vedere i dibattiti infiniti che si scatenano dopo i seminari, soprattutto fra vecchi militanti, per capire che una partecipazione reale c'è. Ed è anche bene che sia allo stesso tempo determinata ma non settaria, e che coinvolga dei ragazzi su questioni che spesso ignorano, perché troppo giovani per ricordarle. Per quanto riguarda le conseguenze più politiche, credo che un ritorno sui partecipanti ci sia, ma non spetta certo a me, in quanto professore o operatore culturale, sviluppare questo tipo di lavoro. Certo è che molti dei ragazzi impegnati nel movimento universitario, sia nel 2006 che quest'inverno, venivano già, o son venuti poi, a frequentare i nostri incontri, e noi li abbiamo sostenuti spesso nelle loro battaglie contro la propensione dell'amministrazione della Sorbona a far intervenire le forze dell'ordine all'interno della facoltà o di impedirne l'accesso con ogni pretesto. Comunque questo seminario aiuta a cementare le relazioni anche fra noi organizzatori: penso al lancio ufficiale del progetto GEME, la Grande Edizione delle opere di Marx ed Engles, un'analogo della MEGA² 4 in francese, che è reso finalmente possibile dalla collaborazione delle persone che si sono impegnate proprio nel percorso seminariale.
Proprio a questo riguardo, qualche anno fa in Italia abbiamo avuto un gran dibattito sulla MEGA². C'era chi si dichiarava estremamente entusiasta di quest'operazione che permette finalmente di leggere tutti i testi senza censure o interpolazioni, e chi è rimasto un po' freddo di fronte ad un'operazione che ha definito meramente filologica, che aggiunge poco alle nostre conoscenze e soprattutto alla nostra capacità d'intervento politico5. Qual è la vostra posizione al riguardo?
Bisogna innanzitutto dire che la Francia è forse il solo paese con una lingua di larga diffusione a non avere mai avuto un edizione d'insieme delle opere di Marx ed Engels. Le Éditions sociales del PCF erano riuscite a coprire meno dei due terzi dell'opera totale, e comunque non si può dire che il lavoro fosse esente da imperfezioni. Io stesso ho curato dieci anni fa un'edizione dei Manoscritti del 1844 per Flammarion, sulla scorta delle nuove indicazioni critiche, e mi sono accorto di quanto alcune delle precedenti versioni fossero poco rigorose. Qui non è una questione meramente filologica: come Lenin ricordava, da una cattiva lettura vengono degli errori teorici, e dagli errori teorici gli errori pratici. Marx stesso, che parlava benissimo il francese, quando lesse la traduzione del primo libro del Capitale non vi si riconobbe. La questione della scientificità del testo è dunque ineludibile. Ovviamente bisogna cercare una strada che renda quest'edizione aperta ad un pubblico più largo possibile, non solo agli specialisti, ma anche agli studenti, ai lavoratori, ai militanti. Comunque viviamo nel deserto, ed iniziative come queste capitano bene, perché vengono a riproporre testi ormai introvabili, e a sostenere e incoraggiare la circolazione del pensiero marxiano. Certo, non bisogna sovrastimare l'importanza politica dell'operazione, ma mi sembra insomma che sia molto utile ed abbia un valore scientifico innegabile.
Un deserto... veramente è questa la situazione del marxismo in Francia? Almeno qui si può ancora assistere a dei grandi congressi internazionali, come quello di ottobre organizzato a Nanterre da Actuel Marx, mentre in Italia è sempre più difficile...
Chiaramente i dibattiti marxisti oggi pagano un po' dovunque il peso dell'isolamento e dello scoramento: quello che l'ideologia dominante ha cercato di fare è cancellare il sentimento della lotta comune, della ricerca, del mettersi insieme. Riunire cento, duecento, anche trecento persone in un seminario può essere già il primo passo per riprendere le fila di un discorso. Ma tutto sommato i paesi in cui il pensiero marxista mi sembra ancora vivo, sebbene un po' emarginato, sono l'Italia e la Francia. Lì, sarà perché li conosco meglio, c'è una tradizione più sedimentata e una maggiore vivacità. Poi personalmente sono anche attratto dalla situazione attuale dell'America Latina, paragonabile per certi aspetti a quello che vivevamo nell'Europa del 1971-72. Questo non vuol dire che ci si debba disinteressare ai fatti di casa nostra, ma là ci sono molte situazioni intollerabili dal punto di vista dell'imperialismo, e quindi bisogna tenerle in gran conto. È soprattutto per progettare il futuro che il pensiero di Marx si rivela quanto mai vivo.
Voi parlate di Marx nel XXI° secolo: state forse dicendo che non è semplicemente un “classico” del pensiero filosofico?
Io sono convinto che Marx sia più contemporaneo oggi che trent'anni fa. Prendiamo per esempio il Manifesto del partito comunista. Mi ricordo che quando lo lessi per la prima volta chiesi a mio padre: che vuol dire la concorrenza fra gli operai? Cioè, la concorrenza fra capitalisti, interna alla borghesia, quella si capisce, ma in un'epoca di sindacati forti, di classe operaia ben organizzata, di stato “sociale”, la concorrenza fra i lavoratori non appariva proprio evidente... Oggi invece, qualsiasi giovane precario lo capisce alla prima lettura: se non sei contento, e magari protesti, ne trovano un altro al tuo posto. Ancora, penso a quando Marx parla della prostituzione diffusa nella classe operaia: non era un fenomeno di massa negli anni '60. Ma oggi, dopo che dalla grande “liberazione” dell'89 più di quattro milioni di donne dell'Est sono state letteralmente vendute, è evidente quello che Marx diceva, no? Insomma, ci sono molte cose che possiamo trovare in Marx e che certo dobbiamo affinare, adattare ai nostri tempi. Ma io credo che il marxismo sia rimasto la filosofia insuperabile della nostra epoca.
È forse per questo che accennate allo “spirito” e alla “lettera”... Però voi dite che bisogna staccarsi dal testo sacro, che non c'è utilizzo di Marx che non sia creativo, e poi rimanete alquanto attaccati alla “lettera”, pare. Dobbiamo dunque fare ancora i conti con le vecchie categorie, come quella di “classe”? Non sono più affascinanti i nuovi teorici della radical democracy che ci parlano invece di “identità”, o di “moltitudini”?
Penso
che si possa parlare solo per scherzo della fine della classe operaia,
dal momento che la Cina e l'India, che contano quasi la metà
della popolazione umana, sono diventate le fabbriche del commercio
mondiale. Quindi nel mondo qualche operaio ci dovrebbe essere ancora,
no? Senza contare gli immigrati che lavorano, spesso clandestini e
quindi invisibili, in Europa o negli Stati Uniti. Altri tipi di
concetti mi sembrano alquanto vaghi... In realtà questo tipo
di riflessioni sono il frutto di una prospettiva eurocentrica, che
è a sua volta il prodotto dello sfruttamento coloniale di
cui indubbiamente ha goduto anche la classe operaia nostrana. La
socialdemocrazia le ha concesso le briciole – certo, a volte
anche in abbondanza - ed ha impedito così l'esplodere di una
vera e propria rivoluzione in Europa, salvando le strutture capitaliste
fortemente contestate da correnti politiche allora ben organizzate.
Si rideva negli anni '60 quando si parlava della pauperizzazione
assoluta della classe operaia, con le famiglie dei lavoratori americani
che avevano due automobili ognuna. Salvo risvegliarci oggi con un mondo
insostenibilmente squilibrato nella distribuzione di risorse, e con una
classe operaia che persino in Occidente si pauperizza sempre di
più, con un potere d'acquisto ormai ridicolo.
Insomma, malgrado la distruzione della scuola di massa, della
sanità pubblica, dell'eredità delle lotte,
c'è ancora qualcosa che fa riconoscere spontaneamente un
operaio francese e uno italiano quando si incontrano. Hanno
fondamentalmente gli stessi interessi, nonostante le differenze di
vite, di abitudini...
Sì, però in Italia si dice che i voti degli operai vadano sempre più alla destra, xenofoba o populista... La stessa cosa avviene in Francia. Non hanno dunque ragione questi teorici che dichiarano la morte della classe, se evidentemente i lavoratori vanno contro i loro stessi interessi?
È chiaro che c'è un vuoto a sinistra che viene occupato dall'estrema destra, che ha sempre fatto sue delle rivendicazioni a carattere demagogico. Ma quando ci sono ancora manifestazioni che raccolgono migliaia di persone, quando sono aperti dappertutto conflitti legati alla dinamica di classe, quando ovunque si può leggere un malcontento complessivo, va da sé che ci sia uno spazio per un'azione di sinistra, anche se queste espressioni di protesta non hanno nell'immediato una chiara impostazione politica. Che la sinistra non sia in Parlamento è una congiuntura, può essere una situazione provvisoria... Per il momento vuol dire solo che per qualche anno sparirà dal punto di vista elettorale, o dai salotti televisivi. Ma che viva nelle piazze e nelle lotte, questo ci dice che è là, che esiste ancora.
Ma esiste davvero, dal momento che il neoliberismo è riuscito a imporre dovunque il terreno di battaglia, le regole di ingaggio, e persino il suo linguaggio?
Evidentemente, a partire dalla caduta del muro di Berlino una certa ideologia è letteralmente dilagata, e di sicuro la borghesia ha preso rispetto a noi un paio di decenni di vantaggio... Questo la mette in una posizione forte, di dominio, che l'informatizzazione e nuovi strumenti di oppressione hanno rinsaldato. L'abbandono di un linguaggio che tenti di dire le cose come stanno davvero è una responsabilità della sinistra ufficiale, in tutti i paesi europei, e purtroppo è un processo ancora in fieri. È incredibile quanto i partiti di sinistra abbiano mutuato dalla destra i modi di pensare, quanto ormai abbiano i loro stessi riflessi. Il mio amico Domenico Losurdo parla di “autofobia”: la sinistra ha introiettato il punto di vista del suo avversario, si fa paura da sola, vive nel senso di colpa. Se mi posso permettere, le recenti elezioni italiane ci insegnano una sola cosa: non si deve negoziare sul fondamentale. Più che scusarci per quello che siamo stati, dovremmo “divenire quello che siamo”.
La situazione è da questo punto di vista invertita rispetto all'inizio dei movimenti socialisti: saremmo gravati più dalla storia passata che dalle responsabilità future?
Appunto: la cosa più inquietante è la frattura fra le generazioni, il fatto che per la prima volta, in uno spazio di tempo brevissimo, le condizioni materiali di vita si siano così degradate. E che noi siamo diventati incapaci di capire la rabbia e la protesta che genera questo peggioramento in chi lo subisce sulla propria pelle. Io stesso ho visto dei colleghi rispettabilissimi, degli ex-comunisti, chiamare la polizia, spingere e insultare gli studenti che scioperavano bloccando l'accesso alla facoltà. Per non parlare della situazione nelle banlieue... Fortunatamente, la marcia del mondo è anche una marcia crono-biologica, e i miei coetanei devono riconoscere che c'è una nuova generazione che sta arrivando, e a lei dobbiamo rendere conto. Il consenso neoliberista degli ultimi venti, trent'anni, appartiene a quelli che lasceranno presto la scena, e sarà sempre più contestato negli anni a venire, anche nella vecchia Europa. Ne abbiamo già avuto un assaggio con il movimento altermondialista
Il comunismo come giovinezza del mondo, direbbe Vaillant-Couturier...
Sì, se la giovinezza sa esserne all'altezza. Mi permetto di raccontare un aneddoto personale. Mio padre, Henry Alleg, era un militante comunista franco-algerino, direttore dell'Alger républicain. Nel '55 il suo giornale, di tendenza progressiste, fu chiuso dall'amministrazione francese a causa del suo sostegno alla battaglia di indipendenza. Due anni più tardi mio padre fu arrestato e torturato. Ha visto in faccia la morte, e ciononostante ha rifiutato di parlare. Maurice Audin, un compagno del partito che gli aveva dato ospitalità, fu anche lui torturato, a morte. Io non dico che bisogna avere per forza quest'eroismo - forse non tutti ne siamo capaci - ma almeno un po' di resistenza, di coraggio, di disciplina. Bisognerebbe riprendere quello slancio che permette di ingaggiare il combattimento. Lo ripeto: non vuol dire per forza essere disposti a sopportare la tortura o a sacrificare la vita, ma almeno tenere sul fondamentale, essere capaci di scegliersi un altro destino. Non vendersi al primo offerente, alla prima convenienza personale...
Mica facile, dopo il crollo di qualsiasi progetto di trasformazione radicale dell'esistente!
Per niente facile, perché la sconfitta è stata immensa. Quando mio padre è stato condannato a dieci anni di prigione, da uno stato che si diceva democratico, per il semplice fatto di essere un giornalista che denunciava la verità, noi ci siamo rifugiati in Cecoslovacchia, poi in Unione Sovietica. Però quello che sto per dire non viene da un legame affettivo, non è dettato dal fatto che lì ci hanno accolto a braccia aperte. Forse alcuni miei amici del seminario non saranno d'accordo, ma io penso che la presenza di un campo socialista, pur con tutti i suoi limiti, abbia impedito il dilagare dell'imperialismo, il disfacimento delle condizioni di vita dei lavoratori occidentali, la distruzione del sistema pubblico, che abbia comunque posto l'idea di una vera alternativa alla ricerca spregiudicata del profitto. Se quel mondo è collassato non è certo solo per limiti interni, visto che Reagan, lanciando la campagna di armamenti, lo disse chiaramente: “andiamo a mettere in ginocchio l'Unione Sovietica”. Anche chi dopo l'89 gioiva o almeno, come il mio amico Daniel Bensaïd, non si disperava per la fine di quel sistema, adesso deve riconoscerne le devastanti conseguenze per i movimenti sociali.
Dobbiamo dunque rispondere ad una fine, assumere una precarietà. Ci sta proponendo una sorta di allegria di naufragi, come direbbe Ungaretti?
Be', lo scoramento, il senso di abbandono, sono sentimenti che capisco bene: non sono per nulla una persona gioiosa o spensierata. Le energie a volte vengono meno, è normale. Ma non ci sono alternative: è solo quando non si lotta che ci si sente stanchi o depressi.
E allora che fare? Come riprendere in questo contesto un progetto di articolazione egemonica? Come arrivare a porre le nostre questioni e le nostre parole all'ordine del giorno?
Resistendo
e organizzandosi, il che può essere già tanto.
Rifiutando di accettare tutto, come è stato negli ultimi
vent'anni. Proponendosi attivamente in ogni luogo di lavoro, di studio.
Credo sia essenziale ricordarsi che le cose a volte sono molto
più veloci di quanto si crede. Il giorno prima del '68 non
ci s'immaginava nemmeno lontanamente quello che sarebbe successo. Su un
foglio anonimo messo nei bagni del liceo feci firmare contro la guerra
in Vietnam ventritre persone sulle tremila che ne contava l'istituto.
Poco tempo dopo quegli stessi fogli raccoglievano pubblicamente
migliaia di firme, e chiunque cercava di iscriversi in un gruppo
maoista o trotskista o comunista “ortodosso”...
Insomma, credo che le cose a volte vadano molto veloci. Non so dire
quando e come, e nemmeno dove succederà. Probabilmente non
sarà in Europa - ma fortunatamente il mondo è ben
più grande. Il neoliberismo può raccontarci molte
cose, la sua egemonia può durare ancora dieci, trent'anni...
Ma sono certo che ci sarà molto da vedere negli anni a
venire. L'epoca che si prepara sarà sicuramente meno noiosa.
1. Contrat Première Embauche, ovvero “Contratto di primo impiego”, provvedimento legislativo proposto all'inizio del 2006 dal governo di destra Chirac-de Villepin, e subito ritirato in seguito alla dura protesta, durata tre mesi, di studenti e lavoratori.
2. Loi relative aux libertés et Responsabilités des Universités, detta anche “Legge sull'Autonomia delle università” o “Legge Pécresse”, dal nome del Ministro dell'Insegnamento Superiore e della Ricerca del governo di destra Sarkozy-Fillon. Proposta nell'agosto del 2007, ha incontrato nell'ottobre-dicembre successivo la forte protesta di studenti, professori e ricercatori francesi. Inquadrandosi nel Processo di Bologna (1999) – processo teso ad armonizzare l'istruzione superiore dei paesi UE secondo paradigmi neoliberali – la legge viene contestata perché, fra le altre cose, prevede il taglio dei finanziamenti statali alle università e incentiva i rapporti fra atenei e imprese.
3. http://semimarx.free.fr. Cfr. anche: www.contretemps.ras.eu.org e http://chspm.univ-paris1.fr.
4. Marx-Engels Gesamtausgabe, ovvero l’opera omnia di Marx ed Engels, a cura della Fondazione Internazionale Marx Engels (Imes). Prevista in 114 volumi - finora ne sono apparsi circa 50 - la sua pubblicazione è iniziata a Berlino negli anni '70; interrotta dal crollo dei paesi socialisti, è poi ripartita nel 1998. Il simbolo “²” sta a indicare che si tratta del secondo tentativo di pubblicazione completa delle opere di Marx ed Engels, dopo quello sovietico degli anni '30, a cura di David Rjazanov, che però lasciava fuori molti materiali, oltre a selezionare e disporre il testo in modo più arbitrario.
5. Cfr. a cura di A. Mazzone, Mega²: Marx ritrovato, grazie alla nuova edizione critica, Mediaprint edizioni, Roma 2002.
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