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Qualche ricordo e qualche riflessione su Dario Lanzardo.
Qualche ricordo e qualche riflessione su Dario Lanzardo.
Vittorio Rieser
Dopo la morte prematura e improvvisa di Dario
Lanzardo, ho continuato – com’era inevitabile per chi l’ha conosciuto –
a pensare a lui, alle cose vissute insieme ma anche a quei suoi lavori
che ho conosciuto solo indirettamente. In questi “ricordi e
riflessioni” c’è quindi uno squilibrio, perché con Dario ho lavorato
(e, in certo senso, vissuto – con lui e con Liliana) in un periodo
relativamente “giovanile” della sua vita ed attività, e del periodo
successivo – quello più straordinariamente creativo – ho conoscenze
frammentarie, anche se i pur saltuari incontri con lui ristabilivano
subito un flusso di comunicazione “come ai vecchi tempi”. Ho
acconsentito a pubblicare queste note (pur così parziali e
“soggettive”) perché ritengo in qualche modo un “dovere politico”
ricordare e far conoscere la figura di un compagno e di un
intellettuale straordinario. Mi perdonerete quindi se, in larga misura,
procedo sul filo dei miei ricordi.
Degli anni di Dario da bambino e ragazzino ho appreso a sprazzi dagli
episodi e dagli aneddoti che spesso raccontava – anche recentemente. E
mi son fatto l’idea che – se poi è diventato un intellettuale completo
e insieme atipico – è dovuto anche a quella esperienza. Dario è nato in
tempo per vivere la seconda guerra mondiale (e l’immediato dopoguerra)
in modo “autonomo ed attivo”, sia pure come bambino-ragazzino, però
“non protetto”, ma esposto in pieno alla realtà sociale quotidiana
prodotta da questa guerra. Da quando, alla scuola elementare,
ricuperava il ferro con la trovata geniale di andare per le strade con
una calamita appesa a un filo, al ricupero e commercio (ben più
rischioso, ma anche lucroso) di residuati bellici, la vita di Dario in
quegli anni mi sembra una vita immersa precocemente nel mondo e nei
suoi casini.
Poi, studia da macchinista navale – e sulle navi ci va, come
indirettamente racconta nel suo primo romanzo, Il principio di
Archimede. E, anche questa, non è l’esperienza “normale” di un “giovane
diplomato”, ma neanche quella di un “precoce militante”: è qualcosa di
ben più ricco e complicato.
Non so quali e quanti mestieri abbia fatto Dario da giovane – se non
quello che, mosso dalla sua innata (ed “ereditata”) passione per la
fotografia, fece da fotoreporter (non semplice fotografo, ma anche
“reporter” nel senso più pieno) per «Il Nuovo Corriere» ed altri
giornali. Ma so che, quando era ancora a La Spezia, fece parte dell’Usi
di Valdo Magnani – insieme a Liliana e ad altre persone notevoli come
Franco Galasso e Carlo Donolo. (Quando arrivò a Torino, lo scopersi con
un certo ritardo, e mi colpì la coincidenza con la mia esperienza di
militante dello stesso gruppo – insieme a Giovanni Mottura, e “sotto la
guida” di militanti più esperti come Clara Bovero e Mario Giovana).
Dunque, Dario e Liliana arrivarono a Torino a fine anni ’50. Dario, nel
frattempo, era diventato impiegato delle ferrovie (non sui treni, ma
negli uffici della Divisione Impianti elettrici – un lavoro burocratico
che non amava). Tutti e due, in seguito alla confluenza dell’Usi nel
Psi, erano diventati militanti del Psi, e così li conobbi. Eravamo,
naturalmente, collocati “alla sinistra” (ma non quella dei cosiddetti
“carristi”, filo-sovietici!), e così – altrettanto naturalmente – ci
ritrovammo attorno a Raniero Panzieri, che era arrivato a Torino dopo
aver diretto «Mondo Operaio» nel ’57-58 (rivista che per tutti noi era
stato un riferimento politico-culturale fondamentale) e aver rifiutato
quelle “sistemazioni burocratiche di ripiego” che la nuova maggioranza
nenniana del partito gli offriva, ed era redattore di Einaudi (da cui –
non bisogna mai smettere di ricordarlo! – fu licenziato nel 1963).
Cominciarono così le riunioni da cui nacquero i “Quaderni rossi”: e in
questi Dario ebbe un ruolo importante, che vale la pena di approfondire.
Intanto, la sua collocazione di dipendente delle Ferrovie – che, in
termini di contenuti del lavoro, non gli dava niente – lo spinse ad
impegnarsi sindacalmente nella categoria (quindi, tra l’altro, anche
dopo la rottura tra QR e sindacato, Dario mantenne, a partire dalla sua
condizione di lavoro, un ruolo sindacale). Ne nacque un’elaborazione
interessante, sia in termini di politica contrattuale che in termini di
un discorso più generale, anche “teorico” sui trasporti. Nella «Lettera
dei QR» sul rinnovo contrattuale dei ferrovieri si formula, ad esempio,
la richiesta di aumenti salariali uguali per tutti: in anticipo sui
tempi – un anticipo forse eccessivo in termini di influenza pratica, ma
lungimirante alla luce degli sviluppi successivi della lotta sindacale.
E, nella sua elaborazione sul tema dei trasporti, Dario pose una
questione di fondo: perché il padrone paga il trasporto (costi/tempi)
di tutte le merci ma non quello della merce-lavoro?
Quest’ultimo accenno dà già un’idea della capacità di elaborazione
teorica di Dario. Ed è suo l’editoriale del n° 4 dei «Quaderni rossi»,
Produzione, consumi e lotta di classe, in cui i QR “scoprono il
fordismo”. Allora, le elaborazioni teoriche sul fordismo (oggi
inflazionate) non erano così diffuse; noi almeno, immersi in altri tipi
di studi teorici, non le conoscevamo (tranne probabilmente Raniero), e
credo che anche Dario non partisse da letture ma da un ragionamento: a
partire da un certo momento, le grandi aziende capitalistiche producono
beni che anche i loro operai possono comperare, e questo è un “punto di
svolta”.
Dario, quindi, era anche un teorico. Ma, nel suo modo di agire
politico, era più empirico e “spregiudicato”. Nelle diatribe interne
dei Quaderni rossi – tra la corrente che faceva capo a Tronti e che poi
diede vita a «Classe operaia» e quella “torinese”, in cui alla fine
Panzieri scelse con decisione di rompere con la prima – la posizione di
Dario era netta, ma con un certo “disincanto ironico”. Ho già ricordato
altrove che, in una riunione di scontro particolarmente acceso – in cui
chi sosteneva che la classe operaia era “tutta fuori dal capitale”
accusava i “torinesi” di vederla “tutta dentro al capitale” – Dario, in
un intervallo, camminava su e giù per la sala canticchiando «tutta
fuori, tutta dentro – gli faremo un monumento...».
E, sempre in base a questo suo atteggiamento “pratico”, diversamente
dalla maggioranza di noi, pensava di entrare nel Psiup (anche per
ragioni legate al suo ruolo sindacale), conducendovi una battaglia di
sinistra. Non mi ricordo se poi ci riuscì – vari compagni ricordano che
il Psiup rifiutò il suo ingresso – comunque questo produsse un
interessante documento critico di “battaglia interna” (noto allora come
“documento Lanzardo-Tomasetta”).
Nel 1963 si ha la prima rottura dei Quaderni rossi, da cui nascerà
Classe operaia. Nel 1966 esce il numero 6, che sarà l’ultimo. Nel
frattempo, ci sono stati momenti di allargamento e di successive
rotture del gruppo, su cui non mi soffermo. Quello su cui vorrei
soffermarmi è il lavoro a livello operaio avviato a Torino dal 1966,
prima come Quaderni rossi e poi sotto altre forme, in cui Dario ha
avuto un ruolo propulsivo.
La prima tappa di questo lavoro (ancora promossa come Quaderni rossi –
prima che questi si considerassero esauriti come “gruppo” – a fronte
delle novità portate dal movimento studentesco) è il giornale «La Voce
Operaia»: un giornale degli operai della Fiat, costruito totalmente
sulle testimonianze, raccolte a viva voce, degli operai Fiat sulla loro
condizione. Di questo giornale Dario è il factotum, anche per la parte
tipografica. Il giornale raccoglie voci via via più numerose, e arriva
anche a organizzare una delle prime fermate contro l’intensificazione
dei tempi di lavoro, su una linea di lastroferratura. In questa
esperienza emergono anche alcuni quadri operai che avranno un ruolo
nelle lotte successive.
L’esplodere del movimento studentesco (a Torino, già alla fine del
1967) si intreccia con questa esperienza. Liliana Lanzardo è fortemente
impegnata nel movimento, e sarà tra i promotori di un suo rapporto
attivo con le lotte operaie – a cui Dario si aggiungerà subito. Dopo
alcuni momenti, sporadici ma con notevole partecipazione di massa sia
studentesca che operaia (scioperi delle pensioni all’inizio del 1968,
vertenza aziendale della Fiat), si prova a “tradurre
organizzativamente” questo rapporto, con la formazione della Lega
studenti-operai: un tentativo fortemente influenzato dall’esperienza
del maggio francese, con l’ipotesi di costruire organismi di massa e di
base unitari tra studenti e operai. Anche qui, Dario si impegna a
fondo. L’ipotesi iniziale, un po’ ideologica, non si realizzerà, ma la
Lega studenti-operai sarà un primo luogo di formazione di alcuni quadri
delle future lotte operaie alla Fiat, e aprirà la strada a un futuro,
più massiccio intervento nelle lotte operaie da parte del movimento
studentesco. Fino ad allora il gruppo dirigente del movimento era in
maggioranza restio a tale intervento – e infatti, quando, all’inizio
del 1969, cominciano le lotte di reparto a Mirafiori, è ancora una
minoranza di studenti a “intervenire alle porte” – Dario è tra questi,
ovviamente.
Con il grande sviluppo delle lotte operaie a Mirafiori, le resistenze
del movimento studentesco a intervenire sono travolte – ma l’intervento
finisce ben presto a incanalarsi nelle forme e secondo le strategie dei
“gruppetti”, cioè di quei gruppi (quasi tutti nati, in origine,
dall’esperienza dei QR e dalle sue successive rotture) che già
intervenivano a livello operaio. Dario, come vari altri di noi, è
contrario a questo “incanalamento”, e tenta ancora di opporre ad esso
una “assemblea operaia” composta di soli operai, in cui i leaders dei
gruppetti non abbiano voce. È l’ultimo tentativo “operaista” nel senso
più immediato del termine, cioè nel senso che gli operai dovrebbero
decidere in prima persona, liberi dai vincoli organizzativi e
leaderistici dei “gruppetti”. Il tentativo fallisce, e in scena restano
i gruppi politici organizzati della “sinistra extra-parlamentare”; in
realtà, a dominare la scena saranno soprattutto i delegati e il
sindacato (e non per frenare le lotte, come allora noi pensavamo!).
A quel punto, Dario “lascia il campo” dell’impegno politico
organizzato; non certo dell’impegno politico in generale. Dario
continuò a “fotografare le lotte”, andando tra l’altro anche in
Portogallo quando ci fu la “rivoluzione dei garofani” – e la
recentissima mostra delle sue fotografie degli anni ’70 lo testimonia –
e pubblicò un libro sui fatti di piazza Statuto del ’62, che resta
tuttora l’unico serio testo di riferimento; curò inoltre la
pubblicazione di una bellissima antologia degli scritti di Panzieri
(uscita col curioso titolo La ripresa del marxismo-leninismo in Italia:
curioso, perché col leninismo il lavoro di Panzieri coi Quaderni rossi
non aveva molto a che fare – anche se non era “anti-leninista” – e
perché in quegli anni l’etichetta “marxista-leninista” caratterizzava
gruppi con posizioni assai dogmatiche; ma forse nel titolo c’era
proprio un’implicita polemica con questi). Liliana, dopo aver tradotto
la sua tesi di laurea in un libro sulla lotta di classe alla Fiat nel
dopoguerra (che fece scalpore a suo tempo), continuò il suo lavoro di
ricerca storico-sociale “impegnata” (e fu, anche per questo, oggetto di
persecuzioni “giudiziario-accademiche”).
Ma non è questo che mi interessa direttamente qui, quanto un altro
“fenomeno”. Questi anni di relativo disimpegno politico-organizzato
segnano l’“esplosione intellettuale” di Dario: come se la (multiforme e
in gran parte politica) esperienza degli anni precedenti avesse, da un
lato, fatto maturare le sue capacità e risorse intellettuali e,
dall’altro, le avesse “trattenute”, o meglio “incanalate” in una sola
destinazione ed utilizzazione.
Dario finalmente fa il fotografo “a tutto campo”; ma non è un “puro
fotografo”, perché ogni suo lavoro fotografico è un’opera di ricerca ed
elaborazione culturale. A questa ricchezza multiforme del suo lavoro di
fotografo contribuisce, certamente, l’esperienza accumulata, di vita e
di lavoro politico, ma contribuiscono anche altri fattori: un impegno
di studio, su testi e su fonti di grande varietà ed ampiezza, e –
insieme – una “simbiosi culturale” con Liliana (in un rapporto che sarà
sempre di autonomia, anche intellettuale, reciproca) che lo
arricchisce.
Da allora, fino agli ultimi giorni, Dario produce una serie
numerosissima di “ricerche fotografiche”, che si traducono in mostre e
nei volumi corrispondenti. Ognuno di questi momenti corrisponde a un
percorso di ricerca, che investe temi e testi di grande varietà e di
grande spessore culturale.
Io purtroppo non ho seguito Dario da vicino nel suo lavoro di
“fotografia-ricerca” (ne venivo informato “a sprazzi” nei nostri
saltuari incontri), né ovviamente sono in grado di analizzare questi
suoi lavori in termini specialistici. Ma sono colpito dalla scelta dei
temi e dal modo in cui Dario lavora attorno ad essi. Si va da soggetti
apparentemente descrittivi, come i giardini interni o i cortili, o
Torino “città dei quattro fiumi”, ad altri “più astratti” che evocano
più direttamente una dimensione filosofica: le armature (“il convitato
di ferro”), gli spaventapasseri, la luce, le nuvole, o le varie
espressioni della natura fotografate nell’omaggio a Goethe. Se uno va a
vedersi i volumi che ne sono nati, rimane colpito, non solo (sia pur da
“profano”) dalla bellezza straordinaria delle fotografie, ma dalla
ricchezza della riflessione, letteraria filosofica e scientifica, che
le accompagna.
È come se Dario, libero dai vincoli politici dell’impegno quotidiano,
abbia scoperto (e ti faccia scoprire) tutto un mondo, anzi via via
mondi sempre nuovi – e rifletta (e ti faccia riflettere) su di essi,
attingendo a molteplici fonti culturali.
Su questa ricerca, negli ultimi anni, si innesta la “scoperta” di Dario
come scrittore: un primo romanzo, Il principio di Archimede, una
raccolta di racconti, Il fotografo e la bambina, fino all’ultimo
romanzo. È uno sviluppo “sorprendente”, ma – quando uno va a vederlo –
naturale: Dario continua, espandendola in nuove forme, la sua attività
di ricerca e di riflessione “trasfiguratrice” sulle sue esperienze. Il
suo “stile letterario” non ha nulla di scolastico, pur essendo assai
elaborato: corrisponde direttamente al suo “linguaggio di ricerca”.
Dario è sempre stato, come si suol dire, un “vulcano di idee”. Nella
sua fase di “produzione culturale”, questo si è tradotto nel fatto che
la “produzione materiale”, la traduzione delle idee in prodotti, non ce
la faceva a tener dietro alla produzione di idee: per cui Dario era
sempre “in ritardo”, non perché lavorasse poco (tutt’altro!) o non
rispettasse le scadenze, ma perché la sua produzione di idee e progetti
procedeva troppo in fretta. Di qui, una serie di “prodotti incompiuti”,
alcuni in fase già avanzata di produzione – su cui per fortuna Liliana
lavorerà perché anche noi li si possa vedere e studiare.
(Mi permetterete anche qui una “divagazione personale”: tra questi
lavori “in cantiere” c’era anche un lavoro di tema “musicale”: l’idea
di “illustrare” alcuni Lieder, dall’800 ad oggi, con immagini che non
li “descrivessero letteralmente” ma ne cogliessero l’intima essenza.
Questo era un lavoro a cui avrei dovuto collaborare, come “consulente
musicale” – e sarebbe per me stata l’occasione di “entrare nel
laboratorio di Dario” e di seguire da vicino il suo modo di lavorare).
Spesso si dice, di chi muore, “è scomparso prematuramente” – in genere
riferendosi anzitutto all’età di chi muore giovane. Ma poche morti sono
“premature” come quella di Dario: non per l’età, ma perché è avvenuta
nel pieno di una sua fioritura artistica e culturale, che ci prometteva
tante nuove cose.
Post scriptum. Di Dario, tra gli altri, si sono ricordati i compagni
che curano un giornale on line del Basso Volturno, ripubblicando un suo
bell’articolo uscito proprio sul «manifesto» in occasione del
ventennale del ’68, e lamentandosi che la “sinistra del Basso Volturno”
abbia trascurato la sua morte. Ahimè, non è solo quella ad averla
trascurata: per fare solo un esempio, «Il manifesto» non gli ha
dedicato una sola riga – anche se non solo la tematica politica di
Dario, ma gli altri campi della sua attività, dalla fotografia alla
narrativa, trovano sempre ampio spazio su quel giornale; sarebbe forse
opportuno rimediare a questo “vuoto” dedicando una pagina ai multiformi
aspetti del lavoro di Dario.
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