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Istituzioni democratiche diverse dallo Stato

Mario Pezzella et al.

Questo testo è un primo esito di una lunga discussione. La versione base è stata scritta da Mario Pezzella ed è stata poi rivista da varie persone incaricate di riassumere i contenuti degli incontri che i Cantieri sociali e Carta avevano organizzato ai primi di aprile 2008 a Roma, e a novembre in Val di Susa, sul tema dell’«altra politica». E' un documento aperto, che invitiamo a usare per incontri  su come rimediare alla crisi della politica, e per continuare a dibattere su queste pagine.

***

1. Negli ultimi anni abbiamo assistito allo sgretolamento della democrazia rappresentativa e dello Stato di diritto, che ci eravamo abituati a considerare uno spazio pubblico inalienabile. A lungo la sinistra politica ha coltivato l’illusione che lo Stato e le sue rappresentanze parlamentari potessero costituire un luogo «terzo» e neutrale di pacificazione dei conflitti, di superamento dell’ineguaglianza: per lungo tempo, il conflitto sociale non ha più ricevuto efficace espressione politica.
Il potere economico e politico dominante lascia ora sopravvivere le forme sempre più vuote delle istituzioni democratiche; non le cancella d’un colpo e rapidamente, come fecero i totalitarismi del Novecento, ma le priva - fino alla paralisi completa - di ogni potere concreto e decisionale; le riduce, per sottrazione continua, a inerti simulacri. Questo lento colpo di Stato si è realizzato in Italia secondo un procedimento affine al programma redatto, anni fa, dalla loggia segreta P2, i cui esponenti sono oggi assurti alle più alte cariche dello Stato e a posizioni direttive nei giornali e nelle televisioni. Controllo dell’informazione; presidenzialismo; derisione delle leggi penali e intimidazione della magistratura; eliminazione delle lotte sindacali e dello spazio pubblico. A questi punti del vecchio programma si sono aggiunti il razzismo e il letterale neofascismo della Lega.

2. Parlamento, istituzioni tradizionali della rappresentanza, partiti, sopravvivono come forme di puro spettacolo, tanto più ossessivamente presenti nei talk show televisivi quanto più sostanzialmente privi di ogni potere di decisione. Il regime democratico viene integrato da centri decisionali ufficiosi, servizi e associazioni parallele, lobbies finanziarie e politiche. Questa attività in ombra affianca la scena politica mediatica e spettacolare. Essa si dispone accanto alle istituzioni, alle leggi e agli ordini professionali visibili.
Lo Stato di diritto resta apparentemente intatto: ma le decisioni spettano effettivamente ai poteri paralleli. Non si tratta solo di interventi clamorosi e violenti, ma anche di misure che riguardano l’ordinaria quotidianità. I concorsi pubblici sono sostituiti da riunioni preliminari ufficiose; le decisioni amministrative sono prese entro consorterie private sottratte a qualsiasi controllo degli elettori; molti reati finanziari sono di fatto depenalizzati, anche se le leggi che dovrebbero punirli restano ufficialmente in vigore.
Questo processo determina la separazione sistematica tra la regola pubblicamente ammessa e il centro decisionale occulto: cinismo, ipocrisia oggettiva, menzogna divengono comportamenti sociali indispensabili per orientarsi in questa sorta di doppio comando sociale permanente. Chi resta legato all’apparenza pubblica dello spettacolo [e per esempio si oppone a una decisione di fatto in nome di una norma del diritto] viene minacciato o emarginato. L’unico ordine unificante e indiscusso è la moltiplicazione, l’accumulazione del denaro. In suo nome tutto è finalizzato, autorizzato, concesso: e i politici si riducono a zelanti funzionari delle lobby finanziarie e immobiliari che controllano - per mezzo loro - i comuni e le amministrazioni, l’uso del territorio.

3. Mafia, camorra e altre grandi organizzazioni criminali divengono un modello di funzionamento associativo segreto. Mafia e camorra scorrono – per così dire - accanto al simulacro del potere pubblico, lasciandolo il più possibile intatto, colpendo le persone che vogliano farlo funzionare oltre un livello semplicemente formale. Il loro modello è seguito dagli organismi decisionali paralleli. Sembra che nulla cambi, mentre tutto sta cambiando. La nuova Società Autoritaria si espande lentamente, come un vapore, in un’atmosfera che non oppone più resistenza.

4. Comunque si voglia chiamare la nuova Società Autoritaria [«spettacolare integrato», come voleva Guy Debord; «democrazia dispotica», come ha proposto Marco Revelli], certo è che essa coniuga alla diffusione delle merci e al sostegno dei mercati [sempre più accentuato in tempi di crisi], un sistema di potere inedito, non interamente assimilabile né alla democrazia né al fascismo storico. Al potere spettacolare diffuso si affiancano nuovi organi di decisione concentrata, capaci di gestire procedure di emergenza o l’uso aperto della violenza, come è avvenuto al G8 di Genova. Le emergenze simulate o ingigantite con tutti i mezzi mediatici divengono una pratica alternativa e ricorrente della Società Autoritaria.
Il fascismo storico era caratterizzato dall’intervento dello Stato nell’economia. La Società Autoritaria è una risposta alla liberazione possibile dal lavoro e all’uso comunitario delle tecniche e delle risorse. Il suo ambito proprio non è lo Stato né la fabbrica, ma il controllo della vita che fuoriesce ed esorbita dalle vecchie strutture di dominio.

5. Un capitolo esemplare della trasformazione in atto è la proliferazione delle Authority. I ministeri si svuotano di funzioni in nome di una ideologia: lo Stato si deve «depoliticizzare», diventare un sovrintendente neutro ai meccanismi economici. I mercati creano istituzioni proprie, svincolate da «poteri politici» esterni, così che il nuovo, apparente keynesismo è, all’opposto, una sorta di privatizzazione del ruolo pubblico in economia. Perché i mercati le regole se le fanno e se le danno da soli. La Società Autoritaria è anche e sempre più società di pseudo tecnocrati, di manager. L’apparenza è: efficienza, competitività, decisionismo. Come dimostra la crisi recente, il centro del potere si è trasferito fuori dallo Stato, ma allo stesso tempo il mercato ha più che mai bisogno di esso.
La democrazia ha oggi due nemici, apparentemente opposti e in realtà complementari: da un lato lo Stato «consensuale», ridotto a un complesso di funzioni, ordinate in funzione del mercato e ad esso subordinate. Dall’altro lato si diffonde invece una ideologia «umanitaria», con cui si pretende di giustificare l’intervento violento in altre aree del mondo in nome di una presunta difesa dei diritti umani [come per il Kosovo, l’Afghanistan, l’Iraq]; questo democraticismo umanitario non riconosce alcun conflitto reale all’interno della propria identità statuale, coesa e consensuale. Il conflitto è rigettato interamente all’esterno e sull’«altro». Si accredita l’idea di un’identità occidentale stretta intorno al suo roccioso nucleo identitario e alle sue funzioni di «governance» del mercato, mentre al di fuori si estende il mondo feroce ed estraneo, che si tratterebbe di ricondurre sotto l’ordine della nostra «polizia».

6. Questo ibrido di consensualismo e di universalismo astratto culmina in una società gerarchica e razzista, entro cui riaffiorano tratti tipici dei governi totalitari del Novecento. Rifiutando la nozione stessa di un conflitto reale di una parte dei «senza parte» entro la realtà sociale, il peso del negativo ricade per intero sulle spalle dell’altro e dell’estraneo; è il nemico, il criminale, che introduce un alieno disordine in ciò che di per sé funzionerebbe come il migliore dei mondi possibili.
Un vacuo buonismo ottimista si salda così a misure ferocemente gerarchiche, neanche esprimibili come tali: un conflitto non più dicibile e simbolizzabile si riversa come nuda violenza tra chi ha parte e chi non ne ha, più simile a una rivolta di schiavi che a un’insurrezione di cittadini. Di volta in volta, un gruppo etnico o gli immigrati in generale vengono esclusi di fatto dalla cittadinanza e mostrati come i responsabili della nostra insicurezza.

7. Il dominio astratto dell’economia e del diritto subisce una correzione, con l’affermarsi della Società Autoritaria, che ripropone rapporti di potere personali, forme di dipendenza servile. In primo piano, nella scena pubblica, restano le relazioni formali del diritto e del mercato; ma, contemporaneamente, si sovrappone ad esse una forma di potere arbitrario e diretto. Una mistura di astrazione giuridico-economica e personalità autoritaria caratterizza il regime spettacolare attuale.
Il controllo sempre più soffocante sulla vita si associa però a una festa spettacolare in cui il mondo rappresentato nei media è più che mai quello della libertà universale e senza limiti, promessa dalla fantasmagoria della merce. E la recessione globale è una parentesi nel ciclo inarrestabile della «crescita».

8. La Società Autoritaria procede intensificando, allo stesso tempo, l’atomizzazione e la separazione degli individui e la loro riunificazione immaginaria o fittizia, nelle immagini carismatiche dei leader o in quelle della televisione. L’individualismo narcisistico illimitato si salda così al dispotismo. Quanto più si urla a tutti «consumate e arricchitevi», tanto più il successo e la gestione delle ricchezze sono affidati a una élite pre-selezionata, legata da fili familistici e clientelari; l’uguaglianza immaginaria di fronte al denaro e al consumo nasconde una feroce diseguglianza reale.
Raramente un regime politico ha intrattenuto una così sistematica dissociazione tra la psiche dei suoi membri e le gerarchie reali del potere. In questa scissione permanente tra il desiderare e il potere, è del tutto ovvio che la corruzione pubblica e privata si propaghi come unica forma di mobilità sociale; che a spettacolari ascese si accompagnino terrificanti cadute, esse stesse destinate a mantenere vivo il meccanismo dei media spettacolari. Atomizzazione e dispotismo sembrano messaggi contraddittori, ma - congiungendoli - la Società Autoritaria riesce meglio a spezzare la forza di resistenza del singolo e la sua capacità di unirsi a coloro che sono oppressi quanto lui.

9. I partiti della sinistra non hanno compreso la natura spettacolare della Società Autoritaria; sono entrati, come i poveri a un banchetto di signori, nelle giunte, nel parlamento, nel governo. Si sono identificati con gli istituti di rappresentanza formale, nel momento in cui in verità questi non decidono più nulla. Hanno creduto allo spettacolo della politica,. Afflitti dalla scomparsa del passato, i gruppi dirigenti della sinistra sono rimasti legati alla forma del partito, riflesso e premessa delle rappresentanze statali.

10. Il rifiuto della violenza come strumento della lotta politica deriva dal suo elemento ripetitivo e mimetico. La risposta violenta alla violenza tende a perpetuarla, assimilando i modi stessi dell’aggressore. La militarizzazione della lotta politica tende a sospendere quei diritti e quel rispetto della vita che si volevano, all’inizio, salvaguardare. Essi restano – al massimo - il fine remoto dell’azione; ma nel frattempo si deve sospendere, per un tempo indeterminato, il rispetto dei diritti umani. Nel frattempo, la risposta diviene speculare e simmetrica all’atto aggressivo. Siamo talmente assorbiti dai mezzi, da dimenticare completamente i fini.
La scelta della non violenza è coerente con la critica di ogni forma di potere fondato sul dominio, sulla costrizione, sulla sopraffazione. Essa non rinuncia all’unica forza su cui la parte «senza parte» può fare affidamento: la forza del dialogo e dell’incontro con la differenza degli altri.
D’altra parte, la risposta non violenta all’oppressione non ha nulla del conformismo legalista: essa comporta la sospensione continua delle leggi e degli ordini che permettono il dispiegarsi dell’azione violenta. La disobbedienza civile, la non collaborazione, il boicottaggio, lo sciopero selvaggio, generale o generalizzato, sono i principali strumenti di lotta non violenta proposti da Gandhi: in effetti, la non violenza attiva va intesa come il rispetto senza riserve dell’integrità fisica e psichica di qualunque essere umano. Se tuttavia uno sciopero produce danni al denaro o alle macchine dell’oppressore, ciò è assolutamente legittimo: forse il denaro ha carne e sangue che soffrono? O le macchine hanno un’anima tenera, che non si può offendere? Gandhi ha così riassunto il concetto di nonviolenza attiva: «Un vero seguace della resistenza civile si limita a ignorare l’autorità dello Stato. Egli si pone al di fuori della legge rifiutandosi di obbedire a tutte le leggi immorali dello Stato… Quando un insieme di uomini cessa di riconoscere lo Stato sotto il quale fino ad allora ha vissuto, ha quasi creato un suo nuovo Stato».

11. La finanza si è impadronita dell’economia, il mercato e le imprese si sono impadroniti dello Stato, il potere politico si è impadronito della società, la società si è impadronita dei singoli. Occorre rompere la catena fino all’ultimo anello e risalirla grazie a una idea dell’individuo che sceglie l’essere-in-comune, con un modo d’essere sociale diverso da quello dell’economia capitalistica.
Alla Società Autoritaria si contrappone la Democrazia Insorgente. Essa porta alla luce il conflitto latente nella realtà sociale; dà voce e articolazione alla lotta dei «senza parte», cioè di coloro che sono di fatto esclusi dalla cittadinanza e ancor più dall’élite dominante; impedisce che il conflitto sia rimesso al puro arbitrio dei rapporti di forza. E’ lecito immaginare istituzioni democratiche diverse da quelle dello Stato, in cui sia possibile fare le scelte che riguardano l’essere-in-comune, rispettando la differenza dell’altro e la specificità dell’ambiente sociale in cui deve essere assunta la decisione. Al decentramento – ovunque possibile - delle decisioni politiche, meglio corrispondono istituzioni comunitarie invece che parlamentari: consigli, presidi, municipi. Esse hanno fatto la loro comparsa nelle insorgenze rivoluzionarie del Novecento e affiorano in movimenti di lotta vivi oggi in diversi luoghi del mondo.
E’ un’utopia? Forse lo «Stato sociale» non è la più tramontata delle utopie? E lo «Stato democratico» non sta seguendo la stessa sorte? Quanto meno, l’istituzione comunitaria mira a trasformare in modo nuovo l’esistente e il futuro, a definire una nuova condizione di cittadinanza. Il realismo politico è tale solo in apparenza e non fa che aggrapparsi a forme di fatto già liquidate dalla storia, come lo Stato-Nazione ormai subordinato alla logica economica mondiale e globale.

12. Esiste una rete possibile di presidi, movimenti locali e di base - come in Val di Susa e a Vicenza -, centri sociali, «cantieri» autonomi di sovranità, che potrebbero scegliere la forma della democrazia insorgente abbandonando rappresentanze formali vuote. L’azione politica deve essere, ovunque possibile, radicata nella specificità del luogo e dell’ambito vitale in cui sono coinvolti i suoi attori. Il «sito» è l’essere-in-comune dove gli umani possono incontrarsi, rovesciando i rapporti di potere. In Italia questi luoghi di resistenza e di azione politica sono diffusi in modo molecolare. Come collegarli in una forma comune senza ricadere nella meccanica gerarchica dei partiti e delle istituzioni dello Stato? Occorre, in primo luogo, definire l’unità di misura di un’attività politica possibile, e cioè una comunicazione orientata a persuadere l’altro piuttosto che a sottometterlo in un rapporto di gerarchia. D’altra parte, questa persuasione non ha nulla di idilliaco, non è garantita da nulla e si scontra duramente con i poteri gerarchici effettivamente esistenti. Se il dialogo è al principio della democrazia, esso apre il suo spazio all’interno del conflitto col potere, e la democrazia è costitutivamente e inevitabilmente «insorgente».

13. L’«insorgenza» definisce i momenti di cesura della storia, in cui – nell’intervallo tra la crisi di un vecchio regime e il costituirsi di nuove istituzioni - si è tentata la via di una comunità politica determinata dalla persuasione comune e non dai rapporti di dominanza. C’è sempre l’eventualità che la deliberazione comune si irrigidisca in struttura astratta, che i molti vengano ricondotti all’Uno. La democrazia insorgente non è una forma data una volta per tutte, ma l’opera continua di trasformazione del potere in libertà, della disuguaglianza in eguaglianza. è un processo, non uno stato, e non ha mai termine definitivo.
E’ in questo eccesso e in questo scarto che Marx vedeva il significato irripetibile della Comune di Parigi. La «Costituzione comunale» si proponeva esplicitamente di sfuggire all’autonomizzazione e all’irrigidirsi delle forme politiche rispetto ai «molti» da cui esse erano state originariamente promosse. Le democrazie insorgenti non distruggono solo un regime autoritario, ma combattono la tendenza a solidificare la rivolta in nuove forme di astrazione, di dominio dell’Uno sui molti.

14. Quando oggi la democrazia spettacolare viene presentata come uguaglianza realizzata, questa è menzogna ed illusione; perché alla sua base sussistono un torto e una disuguaglianza sostanziale. Tuttavia l’esistenza di questo torto non rende inutile il parlare di democrazia, ma ne costituisce l’essenza politica profonda: la democrazia non è uno stato realizzato, ma il processo rivoluzionario grazie al quale i «senza parte» acquistano consapevolezza di sé e pretendono di rovesciare il rapporto di disuguaglianza in cui si trovano. Se l’uguaglianza è riconosciuta come principio, allora chiederne un’applicazione più completa significa riattivare il conflitto tra chi è privo di diritti e chi li possiede. Battendosi per la cittadinanza, i «senza parte» si riconoscono come soggetto insorgente, e pongono le condizioni comunicative e simboliche della loro liberazione.

15. Nel 1832, durante un processo, il rivoluzionario Auguste Blanqui, richiesto della sua professione, diede una risposta simbolica: «Proletario». Così costrinse la corte a riconoscere l’esistenza di un soggetto che in quanto tale non ne possedeva alcuna. Proletario significava infatti semplicemente colui che non ha nulla e non significa nulla; nella risposta di Blanqui, diventa un soggetto di diritti, che richiede il riconoscimento della propria eguaglianza. In una insorgenza democratica, affermarsi come soggetto di diritti è altrettanto importante che impadronirsi dei mezzi di produzione. Aver trascurato questa verità, affidandosi all’automatico intensificarsi della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, costituisce una delle debolezze maggiori del marxismo, mentre Marx stesso nei suoi scritti sulla Comune poneva la questione dei diritti politici e dell’eguaglianza al centro della sua riflessione. La fiducia cieca nella crescita continua dei mezzi di produzione e nel suo sbocco rivoluzionario costituisce l’utopia delusa del marxismo; invece la lotta di classe conserva la sua bruciante attualità come nucleo profondo dell’azione politica.
Cosa dovrebbe rispondere oggi un «senza parte» nelle stesse condizioni di Auguste Blanqui? Forse dovrebbe rivendicare con orgoglio simbolico di essere «clandestino», fuori delle leggi attuali dello Stato e disposto a lottare per un essere sociale in cui venir riconosciuto a pieno titolo «cittadino». Il passaggio dalla clandestinità alla cittadinanza è oggi un passaggio politico rivoluzionario, e riguarda in primo luogo i migranti e gli esclusi, ma anche tutti coloro che una condizione crescente di precarietà priva di luogo, di radice, di legame a un ambiente riconosciuto e riconoscibile di vita; uomini e donne invisibili e senza potere, cui è stato sottratto, in senso letterale, il tempo futuro e –con esso- il respiro della speranza.

16. Alle politiche della Società Autoritaria – realizzate da feroci politici clown - occorre rispondere con una ripresa espansiva del diritto di cittadinanza. Il lavoro politico democratico mira a costruire l’identità dei «senza parte» e «senza voce», e includere in essa sia i migranti privi di diritti che gli italiani immiseriti dalla nuova struttura gerarchica del potere. La loro divisione è mantenuta e coltivata con tutti i mezzi della società spettacolare, in particolare con l’uso sempre più frequente dello stato d’emergenza e di «insicurezza».
Dentro o fuori le istituzioni esistenti, l’importante è che l’azione politica produca «inclusioni di eguaglianza». I diritti del cittadino non possono certo divenire un feticcio, buono a nascondere la disuguaglianza economica; ma possono essere uno strumento di riconoscimento reciproco e di soggettivazione egualitaria dei «senza parte».

17. Una nuova definizione del diritto di cittadinanza non può prescindere dalla «coscienza di luogo». La parola «cittadino» allude oggi non solo al riconoscimento astratto e giuridico dell’eguaglianza e delle pari opportunità di lavoro e di vita, ma anche alla condizione concreta di «abitante della città», una condizione materiale non vincolata al ciclo del capitale e alla produzione di valore. Ogni uomo ha diritto in primo luogo alla salvaguardia dell’aria, della terra, dell’acqua e del fuoco [energia] del luogo in cui vive. Questo diritto elementare, base di ogni altro, gli è oggi negato dallo sfruttamento illimitato delle risorse, che entra in contraddizione con la possibilità stessa della vita. La cittadinanza presuppone la salvaguardia del luogo e la cura della qualità di vita. Essa non può essere limitata dall’etnia, dalla religione, dalla cultura di origine. Chi lavora e abita in un luogo ha diritto di partecipare alle assemblee, ai presidi, all’elettorato attivo e passivo, alla gestione delle vie di comunicazione, della sanità e dell’informazione di quel luogo, di cui condivide il futuro, ed ha il dovere di preservarne la qualità di vita e le risorse naturali. Egli è responsabile, in quanto cittadino, dei diritti e dei doveri che la sua appartenenza al luogo comporta.
Il compito più urgente della Democrazia Insorgente è la cittadinanza piena per i migranti che svolgano un lavoro lecito e utile in tutto il territorio italiano [intendendo con ciò la concessione dei diritti civili, politici e sociali], per chi vi studia e per le loro famiglie. La definizione di lavoro «utile e lecito» richiede d’altra parte l’eliminazione del lavoro «nero» e clandestino e il riconoscimento della pari dignità di ogni lavoratore, del suo reddito minimo garantito e l’abolizione di ogni forma di sfruttamento e di licenziamento sottratta al controllo delle leggi.

18. La salvezza dei beni comuni naturali dal modello economico che oggi li consuma richiede a un tempo, senza contraddizione, la «coscienza del luogo» in cui si vive, e il riconoscimento del diritto universale alla  vita. Tutelando l’acqua e l’aria del paese o della valle in cui abito, contribuisco, come cittadino, alla difesa dell’acqua e dell’aria come beni universali, risorsa comune e condivisa. Sempre più si intensificherà lo scontro tra gli Stati-funzione del capitale e gli interessi vitali dei cittadini, che non vogliono vivere in un territorio desertificato o cementificato o ridotto a cumulo di rifiuti.
Tra breve si imporrà una scelta radicale tra una tecnica guidata dalla volontà di potenza sulla natura e orientata al suo sfruttamento illimitato, e una tecnica che si ponga al servizio della qualità dei beni piuttosto che della loro quantità. Ciò non comporta affatto il rifiuto della scienza e della tecnica, ma – al contrario - un salto di paradigma nella loro natura e nelle loro finalità.

19. Presidi, cantieri, consigli, municipi, reti e centri sociali si radicano nella realtà e nella coscienza del luogo, e vi difendono beni universali condivisi. La coscienza del luogo richiede perciò occasioni di riconoscimento e di articolazione in cui le diverse realtà prendano contatto l’una con l’altra, e sostengano una lotta e un’iniziativa comuni. E’ possibile immaginare una Costituente, cui ogni presidio o comune mandi i propri delegati a rappresentarlo? In quel caso, essi sarebbero soggetti a un mandato imperativo e la loro nomina sottoposta a revoca in ogni momento su richiesta della maggioranza dei cittadini che li hanno delegati. Un patto federativo può essere la base di una Democrazia Insorgente fondata sui luoghi dove le comunità e le persone vivono e agiscono: le città e i territori.

20. In uno dei momenti più cupi della storia del Nocevento, Walter Benjamin scriveva che la rivoluzione non era paragonabile alla locomotiva del progresso lanciata a folle velocità verso l’avvenire, piuttosto a un freno d’emergenza che occorreva azionare per impedire la catastrofe prodotta dal capitalismo. Solo opponendo il principio del limite e del rispetto della vita a quello dello sviluppo e del profitto illimitato è possibile sperare ancora nella salvezza della terra. Questo compito è urgente e non rinviabile, come mostra con assoluta evidenza il precipitare della recessione globale. Il senso del nostro agire politico, e forse della nostra intera esistenza, dipende dalla tempestività e dall’efficacia della nostra insorgenza.
Avvertenze. Il termine «democrazia insorgente» è stato proposto da Miguel Abensour. La riflessione sulla democrazia come disaccordo, come torto e «parte dei senza parte», è stata sviluppata da Jacques Rancière. «Coscienza di luogo» è un concetto proposto da Alberto Magnaghi. La riflessione sulla società dello spettacolo ha come principale riferimento Guy Debord. La complementarità fra atomizzazione e dispotismo risale a un passo di Tocqueville studiato da Claude Lefort. In un punto del testo viene utilizzata una frase di Hegel sul crollo dell’Ancien Régime. Si sono tenute presenti le «Tesi sul nuovo fascismo europeo», pubblicate anni fa dalla rivista «Luogo Comune», nonché la «Lettera dell’altra politica» pubblicata da Carta nella scorsa primavera e l’appello «La politica che vogliamo», apparso pure lo scorso anno.

 

[6 giugno 2009]

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