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Intervista a Stefano Raimondi
A cura di Lorenzo Cardilli
Stefano Raimondi lavora in libreria, dentro l’università statale. Ha studiato filosofia. Ha pubblicato poco, perché crede che la poesia sia un’arte che matura con lentezza. In autunno uscirà la sua prossima raccolta.
“Il mare dietro l’autostrada”, “La città dell’orto”… i titoli delle tue raccolte richiamano una sorta di immaginario geografico in cui si confrontano natura e opera dell’uomo. L’ambiente e lo spazio hanno un senso privilegiato nella tua poesia?
L’ambiente più che altro come spazialità,
come luogo. Ritengo che la poesia sia proprio un luogo concreto, un luogo
mappabile. Un luogo che si può individuare con delle coordinate, gli strumenti
che la poesia adotta: la lingua e il linguaggio e tutto quello che riguarda la
struttura concreta del testo. Definisco la poesia il luogo dell’abitare,
dell’ospitalità e della condivisione. Sono questi per me i tre punti
fondamentali della scrittura poetica: l’abitare perché esiste questa sorta di
intimità, di orto conchiuso, recintato… Allo stesso tempo un luogo dove ospitare
proprio perché ospiti il tu, l’interlocutore, che Mandel’štam definisce sempre
come necessario per ogni scrittura poetica…la poesia è sempre un tu, è un
rivolgersi a qualcun altro, all’altro… A questo punto ecco che l’ospitalità
diventa il termine fondamentale, nel senso di accogliere il lettore: come diceva
Antonio Porta la poesia è fatta da chi la scrive e soprattutto da chi la legge.
È il lettore che in qualche modo deve riuscire attraverso la sua esperienza a
entrare in contatto con l’esperienza del poeta, che deve essere condivisibile.
Dev’essere un’esperienza non personale, non confessionale…un’esperienza di
scambio, di ritrovamento. Un altro poeta che adoro e che è fondamentale per me,
Paul Celan, dice che la poesia è una sorta di rimpatrio, un ritornare in un
luogo dove tu sei riconosciuto. Tutte le mie raccolte sono incentrate su uno
spazio ben particolare che è lo spazio urbano. La città dell’orto è un
poema lungo, dove un evento personale che è stato quello della morte del padre
si è trasformato in un momento di condivisione con gli altri. Con un elemento
artistico, uno stratagemma che trasforma la figura del padre col suo corpo
malato nel corpo malato della città. Quindi “Sei tu per me Milano, e ti curo
come il mio alfabeto.”…la città diventa un elemento fondamentale.
Mentre il
Mare dietro l’autostrada è una sorta di amarcord di una vacanza, in cui
l’autostrada è poi il luogo dove concretamente vivo: abito nella zona sud di
Milano, immediatamente vicino all’autostrada del sole che va al mare…il mare
opposto all’autostrada.
Quanto ti senti poeta milanese e cosa significa per te Milano?
No, non mi sento un poeta milanese…mi auguro di essere un poeta fine. Mi sento un poeta che vive in una grande città, che in questo caso è Milano ed è riconoscibilissima. Mi sento molto di più un poeta urbano, potrei vivere in qualsiasi altra città. L’importante è che la dimensione urbana sia riconoscibile da alcuni elementi: la città è un luogo di individualità e allo stesso tempo di folla. C’è questo scambio tra una dimensione privata e la dimensione pubblica, molto forte rispetto a una situazione ad esempio più provinciale, più nascosta…
Esiste la poesia a Milano oggi? Se sì ti sembra un’istituzione vitale, visibile? Ti sembra che disponga di spazi e forme adeguati?
Certo che esiste! Paradossalmente dagli anni ’80 in poi gran parte dei poeti si sono concentrati su Milano. Anche perché è il polo dell’editoria, e questo ha fatto si che molte situazioni venissero a svilupparsi intorno a questa città. Ritengo che non esista più quella famosa corrente anceschiana della linea lombarda che ha caratterizzato il secondo novecento della poesia italiana: ha lasciato una sorta di mito che si ritrova in certi poeti ancora oggi, che hanno adottato un abbassamento del linguaggio, una sorta di poetica colloquiale. Degli spazi a Milano ci sono e ci sono stati, anche se ultimamente sono assai diminuiti. Questo forse perché c’è ancora disinteresse per il genere poesia, ma soprattutto per un abbassamento culturale nella gestione.
Quali spazi indicheresti?
Finalmente sembra che
la Casa della poesia, dopo
un anno di rodaggio, stia ottenendo dei risultati. Ha anche aperto
l’organizzazione a nuove figure, nuovi poeti che si stanno dando da fare
concretamente. Per i poeti non è importante solo scrivere, ma comunicare poesia,
fare poesia, organizzare degli eventi di scambio sulla materia, che è il testo
poetico.
Io ho organizzato per cinque anni “Parole
urbane”, sul territorio milanese, una rassegna che è stata importante perché ha
coinvolto tutti i nostri grandi poeti, non solo lombardi… Li ho fatti mettere in
relazione con altri linguaggi: la filosofia, la sociologia, la critica
letteraria, l’urbanistica, l’architettura...si è creato un buon percorso. La
libreria Utopia è stata fondamentale in quegli anni, per l’incontro con i poeti.
Altri posti sono come meteoriti che girano ogni anno, si espongono… L’importante
penso sia creare una sorta di luogo riconoscibile. La casa della poesia
probabilmente sta proprio agendo su questo.
Si può parlare oggi di una funzione civile del poeta? Se sì come ti senti di incarnarla?
No, non si incarna oggi la figura del poeta
civile. La figura del poeta civile non è mai esistita. Alcune figure hanno solo
preteso di incarnarla…il poeta “civile” non è qualcosa di unico, di
interpretabile in modo univoco. Come dice Godard non si può fare un film
politico ma bisogna girare film politicamente. Così è per la poesia. Non esiste
un poesia politica ma una poesia scritta politicamente. Il poeta è un uomo come
tutti che vive una situazione concreta. Non è più chiuso nella sua torre
d’avorio, non è più il poeta bohémien nel suo abbaino, autocentrico, romantico…è
un poeta uomo, nei fatti, negli eventi, nei momenti che scorrono. Chiunque può
fare della poesia civile nel senso di impegnarsi a scrivere una denuncia. Un
poeta in rivolta, un poeta che sa dire anche no.
La poesia è un evento morale, una parola che
ricerca il vero, una parola che non si impone ma si espone, una parola che deve
dire l’autentico… Automaticamente diventa una scrittura etica.Chi scrive deve avere una coscienza civile,
deve dire il suo punto di vista su ciò che gli accade intorno. Ma misurandosi
con il vero, altrimenti la poesia è artificio, estetizzazione, barocchismo.
L’importanza della poesia è che deve essere creduta, se non si crede a una
poesia c’è qualcosa che stona, che non è vero, che non è riconoscibile.
Riguardo alla poesia italiana contemporanea quali consigli di lettura daresti, in senso “militante”? Non ti sembra ci sia una fase di stagnazione in cui non spicca nessun grande talento?
La fase di stagnazione è certa. Io ho dei
poeti farmaco, dei poeti salvavita. Dei poeti che hanno gestito in maniera così
autentica il loro reale che lo ritengo totalmente valido. Io consiglio sempre
La verità della poesia di Celan e anche La quarta prosa di Osip
Mandel’štam, che contiene la poetica di questo artista così decisivo per il
novecento.
Riguardo ai contemporanei italiani, direi
l’ultimo libro-intervista di Milo De Angelis, Colloqui sulla poesia.
Consiglierei anche un vecchio libro di Giovanni Giudici, Andare in Cina a
piedi, un libro sulla poetica molto interessante.
La critica è sepolta nelle accademie o ti pare svolga una funzione organica rispetto alla letteratura? Non sembrano sistemi autosufficienti, che cercano al proprio interno presupposti e motivazioni?
C’è la critica? Sto vedendo purtroppo che
manca sempre di più la figura del critico puro, in qualche modo non coinvolto
emotivamente con la scrittura poetica. Il critico che usa i suoi strumenti in
maniera onesta e priva di altre forme e altri momenti di pensiero che lo possano
influenzare. C’è bisogno di qualcuno che sia sopra le parti, che faccia una
gestione corretta dell’elemento che tratta.
Ritengo che siamo un po’ mancanti da questo
punto di vista. Vorrei una figura che si occupi di poesia contemporanea con
degli strumenti riconoscibili, ben chiari. Un’analisi della poesia che non sia
in funzione di qualche linea editoriale, ma venga direttamente dalla passione.
Di Segre e Contini, ahimè, ne vedo pochi.
L’editoria lascia poco spazio alla poesia? Specialmente i giovani trovano la pubblicazione difficile e costosa, d’altra parte sembra, sfogliando i cataloghi dei minori e dei maggiori, che la selezione sia debole e non sempre conforme ai criteri del valore artistico. Come è stata la tua esperienza in proposito?
La mia esperienza è particolare, ho pubblicato molto tardi. Sono stato fortunato riguardo alle mie pubblicazioni, ho sempre avuto degli amici poeti che hanno creduto in me e hanno agito e seguito l’evento della pubblicazione. L’editoria italiana, rispetto alla poesia contemporanea, è sterminata, perché ci sono migliaia di piccoli editori. Bisogna stare attenti perché questo genera la tendenza a pubblicare i propri testi a pagamento. Secondo è me sbagliato, perché chiunque può autoprodursi subito, senza crescere in un percorso di maturazione. La durata è un valore per il percorso creativo di un poeta. Ad esempio oggi alcuni poeti di vent’anni hanno già pubblicazioni prestigiose. A volte può risultare controproducente per un poeta ventenne trovarsi in una situazione di visibilità così alta, tanto da non poter poi mantenere e proseguire ciò che ha iniziato a fare. Chi scrive deve sapere che usa delle parole-armi…
[1 agosto 2009]
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