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Intervista a Giancarlo Maiorino
A cura di Lorenzo Cardilli
Poco più di un anno fa Giancarlo Majorino pubblica Viaggio nella Presenza del Tempo, poema di oltre quattrocento pagine stampato da Mondadori. Oltre che per la collocazione editoriale di prestigio e la mole insolita per un lavoro in versi, il poema si impone al pubblico della poesia innanzitutto per la scelta di genere. Un’opera spessa, multipla, densa di riferimenti stratificati che si dispongono uno sotto l’altro grazie alla creatività assordante dello stile.
Scrivere un poema nel XXI secolo è un atto coraggioso. Quali indicherebbe come ragioni del suo coraggio?
Ho sempre avuto un po’ questo sogno di raccogliere, di agglomerare eterogenei. Ad esempio ho cominciato, negli anni ’50, con un poema, La capitale del nord. Si possono fare raccolte di poesie, si possono fare grandi romanzi, ma dato che viviamo in una realtà formata da tante diversità, mi sembrava che il poema fosse un modo per tenerle insieme, unendo i modi della narrativa e i modi della lirica. Prosa e poesia: qui ci sono un 30% di prosa e un 70% di poesia. Il poema è anche una difesa nei confronti dell’io che si espande e che è sempre amputato se non riesce a mescolarsi davvero agli altri e a ciò che accade.
Un poema è solitamente reso tale da un’architettura ideologica, una forza “forte” che lega la materia e che ne dispone l’ordinamento. È così anche per “Viaggio nella presenza del tempo”?
Direi di sì. Tempo fa ho pubblicato un’antologia intitolata Poesia e realtà. Questo titolo la dice lunga sulle intenzioni forti del mio poema: oltre a quella di agglomerare le diversità anche quella di non liberarsi mai dalla realtà condivisibile. C’è una tensione forte, ineliminabile, tra la scrittura e la realtà. Ho sempre cercato questo aspetto, non è molto diffuso tra i poeti e tra gli scrittori in genere…soprattutto oggi, con il mercato che comanda.
Quasi quarant’anni di composizione sono un tempo considerevole. Pensa alla scrittura come a un processo biologico, necessario e contiguo al percorso della vita o come a un lavoro artigianale, tecnico, professionale. Un “andare a bottega”?
In me è connaturato scrivere. Per me è sempre stata la maniera più intensificata del vivere, senza dover mai rinunciare al resto però... Poi c’è il lavoro artigianale che è inevitabile. Sono due modalità che possono essere entrambe spinte in una direzione che rifiuto: il lavoro artigianale può sembrare unicamente un lavoro di continua correzione, comunque presente ma non al centro della faccenda. Viceversa la poesia non si può spiegare chissà con quale volo astratto nell’infinito o non so dove… Invece c’è questa stretta sulla realtà che ho sempre perseguito in tutti i miei libri, che mi rende abbastanza riconosciuto ma anche un po’ anomalo come figura letteraria…
Il titolo ha qualcosa di filosofico, perentorio, assertivo. Se dovesse spiegarlo in maniera semplice?
Il titolo ha anche una
valenza filosofica. Sono almeno due le definizioni principali di cosa sia il
tempo: una è quella dell’orologio, che seguiamo tutti ed ha una sua oggettività.
L’altra, presente già in Agostino e soprattutto dopo in Bergson, che lo
soggettivizza. Il tempo è anche legato al modo in cui lo passiamo. Chi si annoia
o si trova in una situazione tragica percepisce diversamente il tempo da uno che
si diverte: il tempo si dilata e si restringe a seconda delle nostre intenzioni
e dei nostri modi di vivere. Questa dualità non la considero una dualità ma
un’unità…anche qui sono un po’ contro le teorizzazioni. “Viaggio nella presenza
del tempo”, come intenzione mia, è l’idea di un vivere che però ha sempre molto
presente il tempo stesso. Questo poema è anche un viaggio nella storia. Si parte
dalle mie esperienze minime da ragazzo (ho una tonnellata di anni, ne ho viste
tante…) poi il fascismo, la guerra mondiale, il dopoguerra, quello che succede
adesso…
Esperienze intese sempre come se ci fosse una specie di freschezza del
presente. Dappertutto, anche nel passato. A questa concezione è servito anche il
fatto che fossero quarant’anni che stavo dentro a questo poema…
Tra i vari mestieri che ho
fatto da giovane ho insegnato storia e filosofia nei licei, dopodiché sono
venuto via per lavorare anche al poema in modo continuativo ed ampio. Però poi
mi mancava questo rapporto con la scuola, l’idea di fare lo scrittore a tempo
pieno non aveva senso.
Così ho accettato il posto
dove sono ora, in un’università privata, la Nuova Accademia di Belle Arti di
Milano dove insegno Estetica e Analisi della scrittura. Continuo a insegnare con
piacere e aderenza, mi sembra di fare qualcosa di importante, forse non solo per
me.
La Storia, presentissima nel suo lavoro, si costruisce su diversi piani: nel poema si dà una storia multidimensionale, da quella del mondo (dal XX secolo a oggi) a quella dei singoli personaggi. Prendendo esempio da Céline, lei mescola “la storia che sta scrivendo e il suo presente da incazzato”. La sua poesia vuole essere un’esortazione alla responsabilità storica? Come si può guardare oggi alla storia in modo responsabile?
Ho sempre dato grande importanza alla storia, insieme però a una forte critica, sia assunta che praticata. Secondo me la storia deve riempirsi dei vari vissuti, deve essere una storia di vissuti. Questo non elimina i grandi fatti che accadono, ma forse alla “storia in genere” manca l’essere sentita come piena di vissuti, e da ciò dipendono anche conseguenze politiche non da poco. Oggi c’è una presentificazione continua dominata dal mercato e dalle merci. Molti sono più portati a considerare la storia come una cosa ufficiale e un po’ lontana. Credo che invece noi viviamo la storia personalmente. Il nostro corpo è fatto anche di questo, del passato, del presente e anche un po’ del futuro. L’elemento storico è ben presente nel poema, non meno però dell’elemento corporale… il corpo di ciascuno è un singolo di molti. Non un individuo ma neanche la particella di una massa. Questo essere singolo di molti tra singoli di molti, che lo sappiano o no, genera in tutto ciò che ho scritto un’attenzione forte al corpo, all’eros, ai rapporti tra le persone… (ma questo d’altra parte non esclude fatti generali.)
Collocherebbe la sua poesia in una corrente? Se sì in quale?
Nella mia antologia ho ricavato che la corrente poeticamente più importante, quasi mai segnalata, è quella che chiamo poesia critica, in cui ci sono Pasolini, Pagliarani, Fortini, io e qualche altro. A differenza del discorso neoavanguardista che era sostanzialmente di trasformazione formale e a differenza della tradizione poetica, lì si tentava una poesia dove fosse anche molto presente la criticità. Non in astratto, non solo letteraria. L’idea della poesia critica è stata un po’ schiacciata da questo doppio: da una parte la tradizionalità che a tanti livelli si prolungava e dall’altra questo esplodere dei nuovissimi che ha spaventato parecchio i tradizionali. Loro avevano anche accaparrato Pagliarani che non c’entrava molto…
Uno dei fili portanti del suo poema è una concezione dell’io come molteplice: “Due esseri viventi che sono senza saperlo, senza sapersi | migliaia | due esseri ripieni, come noi tutti, miei cari”. Esiste l’identità o è solo una costruzione di comodo? È possibile o necessario recuperarla dopo averla decostruita?
Questa storia della molteplicità riscuote molto successo a scuola…a volte dico ai ragazzi “andate a letto in due ma in realtà siete due popolazioni che vanno a letto”. Sono profondamente presente e insistente sul fatto di questa molteplicità. I più giovani hanno con maggiore evidenza il problema dell’identità: l’identità propria, l’identità degli altri… La mia generazione non aveva questo problema perché si dava per scontato che l’identità c’era. Avevo diciott’anni, c’era anche l’entusiasmo dell’essere usciti dal fascismo e dalla guerra. C’era più attenzione corale, ma senza perdita del sé. Poi tutti gli andamenti culturali successivi hanno spinto da un’altra parte. Penso che il problema dell’identità, a prescindere da tutte le teorizzazioni settarie o solo ideologiche, sia un problema che può esistere: è difficile però trovarlo come io. Fin dall’inizio del poema - la seconda o la terza pagina - dico: “non era bello ma era necessario lasciare l’ìo | l’ho sbriciolato incerottato coi cerotti a pezzi | allontanarsi dalle fiammelle grette | e volare a sogno volare introiettando bassi bassi | il cemento, remoto confine dell’erba”. Oltre l’immagine del cemento che rimanda alla città, qui si dice chiaramente che se si parte dall’io si è sempre un po’ nei guai. Tutta la cultura preme sull’io, sostenuta da un’economia che vuol vendere e fa finta che ognuno di noi sia pensosissimo davanti alla scelta di marche di birra… il rischio è che ci spinga tutti per l’individualità…serve una concezione che non sia fissata in sé sull’io-io, ma semmai raggiunga questo io-io dopo e avendo a che fare con tutti gli altri con cui si è in rapporto.
Il poema è pieno di filosofia. Non pensa che i poeti dovrebbero occuparsi maggiormente di questi temi, rivendicando alla poesia la funzione morale che le è tradizionalmente propria?
Sono colpito dall’idea, di ascendenza romantica e post-illuminista, che la poesia sia unicamente emozione oppure unicamente senso. Come se si fosse separata dall’intelligenza e dalla cultura. Questo è molto gravoso per i poeti, anche per i più bravi: a volte sembrano essere più degli “specialisti”, invece di essere dotati dell’ampio respiro che deve avere un poeta. Questi problemi faticano a passare…sto forse per scrivere una specie di pamphlet intitolato La dittatura dell’ignoranza. Secondo me noi viviamo in una dittatura dell’ignoranza…è molto più che bestemmiare nei confronti della televisione. Anche chi vuol cambiare è in linea generale ignorante...allora sono guai per tutti. Invece quanto piacere nello studiare e nel leggere…(perché deve essere un piacere, non si può farlo predeterminatamente). Il fatto che a scuola io abbia tutti questi studenti che vengono da me continuamente è perché pedagogicamente mostro loro che sono appassionato e che sono dei pazzi a non sapere… Poi mi sembra folle che gli adulti smettano di studiare. Questo discorso, che tocca poi anche il problema della felicità, i giovani lo comprendono subito di colpo, non sono abituati a pensare così l’appropriazione culturale.
Per fare della poesia impegnata bisogna parlare di politica?
“Impegnata” non lo userei
più, era un termine forte nel neorealismo…sembra mettere la politica al centro
della letteratura e della cultura e secondo me è un errore. La poesia e la
cultura devono essere autonome, seguire una ricerca continua. Questo crea
qualche problema, perché poi si scrivono opere difficili. Ad esempio tante
persone di sinistra che sono attente a questi problemi mi hanno fatto rilevare
una contraddizione in un poema scritto da me in tanto tempo…è complicatissimo!
Mi sono posto il problema e
ho risolto pensando che dovevo dare il meglio di me. Un intervistatore mi ha
fatto notare che i miei testi sono sempre troppo difficili… La vita è facile? Se
la vita è facile allora si ricorre alle poesie come a un’evasione…se la vita non
è facile anche l’arte sarà difficile.
Il suo poema è comunque denso di riferimenti alla storia politica del nostro paese. Il “paese” stesso è un entità protagonista…
Però sempre trattati in grande autonomia…non ci sono pareri di appoggio a tesi. Anche se lascerei cadere il termine “impegnata”, la politica può essere presa in considerazione direttamente. Ad esempio c’è un personaggio nel mio poema, Circio, lo sposo di Circe, la distruttrice, colei che trasforma gli uomini in porci… Così una sua banda che continua a interferire…
Dal ’69 a oggi la storia politica del nostro paese le sembra l’onda lunga di una delusione insostenibile o pensa che ci siano stati o ci siano spazi di manovra, di maturazione? Per la civiltà prima di tutto?
Per carattere e per scelta di vita non sono mai pessimista. Penso che la vita vada vissuta a fondo ogni minuto…addirittura i miei anni mi sembrano troppi, li ho trasformati in minuti: non dico di avere ottant’anni ma quarantadue milioni di minuti. Non è un gran guadagno, però sottolinea che ogni minuto è essenziale. Sempre in Prossimamente si parla di “elementi affabili”: chi vive come noi ha degli elementi affabili, non muore di fame, non è in lotta per la vita. Quando si assume la necessità di cambiamenti politici, rivoluzionari, bisogna collocare prima di tutto sé. Non si può far finta di essere guerriglieri che hanno tutte le ragioni e che rischiano la vita. Noi siamo qui seduti a dire delle cose, questo sposta un po’ sia la concezione dell’impegno che l’idea di come andrebbe fatta la politica.
Definirei il suo atteggiamento verso il linguaggio poetico come ipercreativo, costruzionista. Lo stile del poema come la distribuzione delle sequenze narrative e dei temi segue ramificazioni complesse. Il suo modo di scrivere è il tentativo coerente di rappresentare con la forma una concezione della vita?
Nell’apertura del poema ho messo due importanti citazioni da Hegel. Mi hanno dato grande entusiasmo quando le ho trovate: avevo già avviato il lavoro e mi sono sentito aiutato (perché sa, questi sono lavori solitari…). Spiegano come senza abbassamento di stile e di valore non sia possibile restituire un’eterogeneità se non adottando vari stili. È uscita da poco una recensione di Alfonso Berardinelli, che in mezzo a cose di stima fa notare come questo libro sia spaventoso da leggere. Penso che sia spaventoso ma che ne valga la pena. Parte dal sogno di tenere unite cose diverse, alla lunga un proposito importantissimo anche politicamente. È il mio sogno, altri ci trovano dell’esibizionismo… Fa parte della mia quotidianità, vivo molto in mezzo alla gente. A volte prendo apposta il metrò o il tram, per vedere come sono le persone, cosa fanno, cosa pensano. Se c’è una salvezza ipotetica può venire da questo, non dal chiudersi in sé né dal formare un gruppo “armato” o no che capisca le cose… Può darsi che questa “ipercreatività” a volte sia eccessiva e dia anche fastidio. Nello scrivere ci vuole però una forte spontaneità e “voglia di”, si deve sentire anche nella pagina. È probabile che in un clima come questo, nella dittatura dell’ignoranza, senza volerlo mi appoggi persino troppo a quello che creo e a quello che penso. La quarta parte del poema si chiama “Paradiso nervoso”: può significare tante cose, ma può anche esprimere la difficoltà di un’utopia. Di un paradiso che magari c’è già parzialmente qui. Se guardo la vita delle persone, vedo che ha già in sé degli elementi di modificazione forte, solo che non sono né politicamente rappresentati, né trattati sul serio dall’arte e dalla cultura. Il paradiso è qui; che sia nervoso è ineliminabile. D’altra parte è chiaro, noi viviamo tra gli elementi affabili…c’è chi muore e chi non ha da mangiare.
Non c’è però il rischio che questa coerenza (nel rappresentare la complessità) produca un linguaggio incomunicabile? Che le procedure e le chiavi dei codici che crea siano di difficile accesso? Quale lettore si immagina per il suo poema?
Negli anni ’80 mi ero ripromesso di fare dei “rigaversi”, dei versi di comunicazione. Allora il poema si sarebbe composto di parti complicatissime, irte, e di parti quasi di transito. Poi mi sono accorto che l’idea falsava un po’ tutto, ho preferito che ci fosse questa grande incessante complessità. Con tutti i rischi del caso, anche perché spero di mutare un po’ il gusto delle persone, pure di quelli preparati. Il problema è comunque grosso…mi piace particolarmente un commento che Szondi ha fatto su Paul Celan, che spiega come in lui non ci sia tanto il problema di rappresentare la realtà, ma quello di far diventare la poesia realtà. La grande poesia l’ha sempre fatto. Il lontanissimo maestro che però ho sempre sul tavolo è Dante… Nella Commedia si parte da una selva, lì partiva uno, qui partono in tanti.
A giudizio mio e di alcuni critici, nel poema raggiungo dei punti importanti… Dentro questa complessità ci vuole però qualcuno che li segnali… Mi dà fastidio star solo in quella che chiamo la corporazione letteraria e poetica, ho inventato un modo di portare “fuori” il poema. In questo periodo ci sono vari amici o estimatori che radunano dieci-quindici persone loro amiche e mi invitano di sera a leggere il poema. Mi piace molto, non certo per guadagno o per rinomanza…
Ho avuto anche una stroncatura molto aggressiva in cui a un certo punto viene preso come esempio uno dei pezzi a mio giudizio più potenti, più giusti…il canto di un piccolo proprietario di un negozio costretto a chiudere dalla nuova grande distribuzione… Non so a chi piaccia, ci vuole un senso di realtà enorme, nessun poeta scrive di queste cose.
[1 agosto 2009]
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