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INTERVISTA A GIANCARLO CAUTERUCCIO
fondatore, autore, regista e interprete dei Krypton

Giuseppe Morrone

 

Al principio degli anni ‘80, a Firenze, Giancarlo Cauteruccio e Pina Izzo danno vita alla compagnia “Krypton”, gruppo di ricerca multimediale che fonda la propria poetica su di una specificità tecnologico-artistica, sin dal principio immessa entro le categorie teoriche della Post-avanguardia teatrale. L’intera produzione della compagnia guarda, quindi, ai nuovi strumenti tecno-comunicativi, impiegati al fine di lavorare inedite qualità estetiche per la scena.
Regista, scenografo e artista visivo, Giancarlo Cauteruccio è noto in Italia e all’estero, per la sua particolare poetica che ibrida le arti e le tecnologie. Il suo “teatro di luce”, gli ambienti video e le performance sul paesaggio, appartengono ad una sperimentazione avviata dalla fine degli anni ‘70. Dal 1985 Cauteruccio, insieme ai suoi collaboratori, inaugura inoltre un’analisi linguistica ed estetica intorno alle problematiche del vuoto, dell’oblio, del sublime e dell’incomunicabilità.

Il 26 febbraio scorso, presso il Teatro dell’Università di Salerno, la compagnia Krypton ha messo in scena Trittico beckettiano, ovvero tre brevi monologhi (Atto senza parole, interpretato da Fulvio Cauteruccio; Non io, interpretato dalla cantante soprano Monica Benvenuti; L’ultimo nastro di Krapp, interpretato da Giancarlo Cauteruccio) tratti dalla ponderosa produzione di Samuel Beckett: scene di Andrè Benaim, costumi di Massimo Bevilacqua, musiche ed elaborazioni acustiche di Andrea Nicoli, collaborazione alle scene di Loris Gianicola, progetto luci di Trui Meltem e regia di Giancarlo Cauteruccio.
Alla fine dello spettacolo, abbiamo avuto la possibilità di intessere un fecondo dialogo con Giancarlo Cauteruccio e Monica Benvenuti, di cui rendiamo conto nell’intervista che segue.

In questi venticinque anni di attività, dalla vostra prospettiva di incessanti, per dirla con Agamben, “interdisciplinaristi”, quale idea vi siete fatti della situazione teatrale italiana e, più in generale, della scena culturale del nostro paese?

Negli anni Ottanta la nascita del gruppo di Ricerca Teatrale Multimedia Krypton ha assunto la tecnologia laser e audio-visuale come elemento portante del suo percorso, un viaggio in uno scenario dove coesistono diversi linguaggi. Per gli scenari contemporanei questo ha rappresentato un repentino spostamento da un teatro essenzialmente legato alle avanguardie storiche e alle neoavanguardie, dunque da una ricerca tutta concentrata sull’esistenziale, al versante della spettacolarità, tanto da creare un’area di ricerca che Giuseppe Bartolucci aveva definito di “nuova spettacolarità”. Un teatro che andava a colorarsi violentemente, lasciandosi attraversare dai linguaggi più nuovi quale la musica ambient e rock, il design, la moda, l’architettura. Da qui nascono dunque, e in particolare a Firenze, spettacoli che segneranno la storia di quegli anni, come ad esempio On the road, Crollo nervoso, Ebdòmero dei Magazzini, Eneide, Angeli di luce, Intervallo della compagnia Krypton. Musicisti, stilisti, registi, pittori, performer, sentivano le stesse pulsioni, avevano dei punti di riferimento estetico comuni, frequentavano gli stessi locali, dentro i quali nascevano idee e progetti. Locali come il Tenax, il Casablanca, il primo locale interdisciplinare dell’era postmoderna in Italia, divennero luoghi di eventi d’arte tra i più ricercati della città, luoghi speciali che rappresentavano per molti artisti il punto di partenza per sperimentazioni, luoghi per mettersi in mostra e provocare, scardinare vecchi sistemi linguistici. Raccontare in poche righe l’intensità di quegli anni non è cosa facile. Negli anni Ottanta, Firenze ha saputo interpretare le teorie di simulazione, di seduzione e di superficie, così ampiamente indagate da filosofi quali Jean Francois Lyotard e Jean Baudrillard. In questa città le estetiche, le passioni, gli amori, le notti, le musiche, i colori, le azioni, si sono consumate in un velocissimo e luminosissimo bagliore. Oggi l’interdisciplinarietà è stata digerita, dalla scena teatrale come da quella artistica, e il termine “interdisciplinare” è quasi passato di moda, anche se in realtà ritengo che non ci sia un reale scambio tra gli artisti e gli operatori dei diversi linguaggi. Sembra che l’interdisciplinarietà sia facilmente raggiungibile solo inserendo video proiezioni in uno spettacolo teatrale oppure realizzando un’azione performativo-teatrale in un progetto di “visual art”. Si è persa la reale possibilità linguistica dell’interazione tra gli alfabeti formali, e tra questi e quella forza dirompente che in principio caratterizzava la sperimentazione tecnologica in cui i linguaggi si interfacciavano. Inoltre avverto che le più recenti generazioni spesso agiscono senza avere conoscenza delle esperienze di chi li ha preceduti, e si avventurano in territori già scoperti senza nemmeno porsi interrogativi sulla storia. Questo è molto interessante, anche se faccio un po’ di fatica ad accettarlo, vista la mia avanzatissima età…

Quali ragioni vi hanno portato ad una centralità così costante dell’opera di Beckett nei vostri lavori?

Dalla fine degli anni Ottanta mi sono inoltrato con maggiore consapevolezza in un lavoro linguistico ed estetico che più concretamente si interroga sulle emergenze del contemporaneo. Senza tralasciare l’aspetto formale, anzi aggiornandolo tecnicamente, ho iniziato ad affrontare la difficile, ma affascinante, problematica del vuoto, dell’oblio, del sublime, dell’incomunicabilità, dell’assenza, della frammentarietà: temi che interessano quasi tutte le produzioni realizzate nei primi anni di lavoro. “Forse - Uno studio su Samuel Beckett è il primo incontro del mio teatro con l’universo “beckettiano”. Un approccio che avviene in piena coerenza con i linguaggi che avevo praticato sin dagli esordi. I testi erano citazioni da Aspettando Godot, Giorni Felici, Finale di Partita, L’ultimo nastro di Krapp, ma soprattutto brani tratti dalla produzione più recente di Beckett: Company, Respiro, il romanzo Malloy. La parola di Beckett faceva da spina dorsale ad una spazializzazione scenica dove intervenivano macchine, proiezioni video, figure, visioni e luci. La parola veniva spogliata di senso attraverso sottrazioni successive, arrivando ad essere puro suono ed esprimere solo se stessa. Il titolo stesso, Forse, è una parola cara all’autore irlandese, ed esprime quella professione di dubbio, ma anche di potenzialità che pervade tutta la sua opera. Nel mio incontro con Beckett, “forse” dichiara la propria realtà come unico cammino sostenibile all’interno del teatro e anche fuori dalla scena.

Quale riscontro, di pubblico e di critica, ottiene la rappresentazione di Beckett attualmente?

Beckett è un autore non molto amato dal pubblico, ma fondamentale per registi ed attori, per i quali rappresenta un inevitabile banco di prova, sia per le difficoltà della messa in scena (condizionata dal rigore che lo stesso autore impone nei suoi testi) sia per la straordinaria complessità della parola “beckettiana”, o anche della sua assenza. Le ragioni di questa importanza sono dovute al modo in cui Beckett ha scandagliato le problematiche del contemporaneo, con una sottigliezza ed una lungimiranza che non possono non essere ancora attuali. Giorni Felici, per esempio, che ho messo in scena nel 1995, porta in primo piano un elemento imprescindibile della scrittura “beckettiana” che diventerà anche un motivo ricorrente del mio teatro: il tempo e la malattia del corpo, con il disagio che crea, con la diversità che produce nell’individuo rispetto alla società, con l’immobilità del letto. Una malattia che è anche una condizione dello spirito, fatta di vuoto e di solitudine, e assurge a male del secolo come percezione condivisa del conflitto tra il corpo fisico e la macchina, che lo depriva, lo sopraffa e lo mette in discussione, ma lo alimenta, anche, e a volte lo salva.

 Secondo le ricostruzioni di “storia del teatro contemporaneo” più comuni, l’opera di Samuel Beckett, o almeno una sua parte (esemplificata in “Aspettando Godot”), rientrerebbe nella categoria del “Teatro dell’assurdo”. Secondo la vostra interpretazione (che possiede un suo peso specifico) invece no, rientrandovi essenzialmente Eugene Ionesco, Arthur Adamov, Harold Pinter e pochi altri. Come motivi questa disparità di giudizio?

Evidentemente lo scardinamento del senso che Beckett opera nella scrittura, frammentando definitivamente lo stile drammaturgico del teatro del Novecento, ha portato, a mio parere, in modo superficiale a ricorrere ad una definizione di “Assurdo”. Cosa di tutto questo ha a che vedere con un autore che ha affrontato magistralmente il rapporto tra lo spazio e il tempo, tra il silenzio e la parola, tra il buio e la luce? Non può essere “Assurdo” indagare la condizione esistenziale dell’essere collocato con precisione millimetrica nei grandi conflitti del presente. L’universo “beckettiano” è abitato da segni che appartengono al margine, alla deriva. Forse la deriva può essere definita “Assurda”? Forse sì, ma allora è tutta l’esistenza ad essere “Assurda”. Questo concetto, di deriva cioè, Beckett lo ha segnato in tutta la sua opera tanto che oggi, non solo in teatro, si può parlare di “estetica beckettiana”. Là dove Beckett opera la sottrazione di senso mette solo in atto una nuova strategia per un grande giocatore della partita esistenziale.

L’idea di percorrere, e sussumere nell’estetica teatrale, gli svariati campi dello scibile culturale vi ha mai posto a contatto con il cinema e, più specificamente, con il lavoro di Michelangelo Antonioni? I temi dell’impossibilità di esprimersi, dell’incomunicabilità, del deserto del silenzio, della paralisi del senso, così evidenti proprio fra le trame del “Trittico beckettiano” suggeriscono una forte connessione in tale direzione.

Non mi sono mai confrontato in modo diretto con il lavoro di Antonioni, se non in quanto appassionato spettatore della sua opera, ma come è possibile non sentire propri i temi tanto cari a questo grande regista, quali l’alienazione, l’handicap motorio e verbale, l’insensatezza del linguaggio? Sono proprio quelle problematiche che attraversano tutto il mio teatro e che sono un elemento fondamentale della poetica beckettiana. Con Trittico ho provato ad esplorare ulteriormente i limiti e le possibilità di un teatro necessario, mettendo insieme alcuni tra i testi che, nel percorso del grande autore, costituiscono punti di rottura che certamente hanno segnato tutto il teatro contemporaneo. Tre testi brevi, ma enormi: “Atto senza parole”, sulla messa in gioco del corpo in relazione alla macchineria scenica; Non io, sulla possibilità di abbandonare il corpo a favore della centralità della lingua-organo; L’ultimo nastro di Krapp, sulle possibilità della macchina catturatrice di memorie, ma priva della capacità di fare uscire indenni da una “ricerca del tempo perduto”. Trittico è stato un’occasione per sentire attraverso le esistenze estreme di tre condizioni, le urgenze di un mondo sempre più svilito e servile, che conducono ad una bieca disperazione e portano ad un’inedita consapevolezza del fallimento.

Corpo (di un soggetto comandato esternamente e sconfitto in ogni suo tentativo di esprimersi razionalmente), parola (di una donna emarginata socialmente e disconnessa dalla sua materialità fisica) e memoria (di un vecchio triste, ironico e solitario) connotano, icasticamente, Trittico beckettiano. A primo impatto, ci sono venuti in mente con intento di comparazione, Carmelo Bene per Atto senza parole e Marcel Proust per L’ultimo nastro di Krapp. Un genio sregolato ed un riflessivo metodico. Quanto hanno influito, in particolare, durante la vostra parabola, la magmatica capacità espressiva di Bene e l’effluvio, minuziosissimo quanto perfetto stilisticamente, di eventi e filosofie pratiche messo in atto ne La Recherche?

 Citi due esistenze che sono imprescindibile riferimento del mio teatro. Ma questa domanda richiederebbe uno spazio che qui non possiamo permetterci. E' nella stesura della domanda che si può risolvere la questione. Mi piace molto l’idea di poter lasciare una domanda aperta, perché l’arte, se è vera, non può dare risposte.

Secondo Franco Fortini, l’arte, in generale, non può prescindere da un posizionamento e da un giudizio Politico; secondo recenti tendenze, ma non solo, invece: l’arte, in generale, deve assolutamente prescindere da un giudizio, e tanto più da un posizionamento, Politico, per essere davvero libera di esprimersi. Chi credi abbia ragione?

Io penso che l’arte non possa non essere anche “politica”, perché è immersa nella contemporaneità ed è alla contemporaneità che si rivolge, per cui mi trovo d’accordo con Fortini. È anche vero che rimango perplesso davanti al lavoro di chi assegna all’arte una funzione politica. Se da un lato è indispensabile avere una coscienza critica e riflettere in modo partecipe e non irenistico sulle “quistioni” (per dirla con Gramsci) del nostro tempo, dall’altro ritengo che l’arte debba sempre essere sorprendente, e non didascalica.

 

Infine, riportiamo, doverosamente interpretato, il contenuto di un colloquio spontaneo intercorso, al riparo di un ovattato camerino e del denso fumo di sigaretta, con Monica Benvenuti, la cantante soprano interprete di Non io, a proposito di questa stessa messa in scena.

 Prima considerazione: anzitutto c'è da interrogarsi e riflettere sul fatto che ad interpretare Non io sia, appunto, una cantante soprano piuttosto che una vera e propria attrice, come, fra l'altro, sempre avvenuto in passato, con risultati forse non esaltanti. La ragione di ciò è da ricercarsi, oltre che nell'ardire sperimentale di Giancarlo Cauteruccio, il quale ha ideato questa scelta, specialmente attraverso una considerazione di carattere qualitativo: la natura del testo di Non io è evidentemente rapsodica, densa di saliscendi vocali notevoli, estrema nella sua forma recitata. A contare, cioè, non è tanto il preciso significato di quel che si dice, peraltro soltanto intuibile ad un ascolto attento e comunque fondamentale, quanto il modo disordinatamente meccanico (simbolico del senso “disgiunto e folle” che Beckett attribuisce alla donna soggetto dell'opera in oggetto) con il quale si reggono, quasi “in trance” da prestazione, i 18, tiratissimi, minuti del monologo. Per farla breve: le qualità di “corrodere”, “spezzare”, “mandare in orbita o nel sottosuolo” la voce sono peculiarità calzate a pennello per una cantante soprano piuttosto che per un'attrice. Seconda considerazione: la tensione nervosa è data dall'impatto scenico (un faro puntato sulla bocca e nero di scena completo) oltre che da un particolare concreto assolutamente fuori campo. La protagonista, anche per calcare meglio la “totalizzazione” non soltanto mentale del disagio rappresentato, è rinchiusa (realmente sul palco, però, per l'appunto, invisibile allo spettatore), in una gabbia che le opprime il fisico e perfino le tempie; è, allora, la pura corporeità a divenire centrale.  Terza, ed ultima, considerazione: riguardo alla possibile comparazione con Carmelo Bene per Atto senza parole e con Marcel Proust per L'ultimo nastro di Krapp, la Benvenuti ne ha rinvenuto uno possibile per Non io: lo stream of consciousness joyciano. Concordiamo ampiamente.

 

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