home> interventi/interviste> "Di sconfitta in sconfitta". Intervista a Vincenzo Guagliardo
“Di sconfitta in sconfitta”.
Inervista
a Vincenzo Guagliardo
Massimo Cappitti
Nel marzo 1988 Franco Fortini scriveva
(Lettera ai detenuti di San Vittore, ora in Saggi ed
epigrammi,
Mondadori 2003): «Non sono davvero il solo a pensare che nel corso
dell’ultimo quindicennio la grandissima maggioranza dei raggruppamenti
politici ufficiali si è proposta di evitare ogni seria analisi delle
forze sociali (nazionali e internazionali) che erano fra loro in
conflitto nei primi anni Settanta. È stata invece vittoriosamente
elaborata e diffusa l’idea che il terrorismo di sinistra (o Partito
Armato che lo si voglia chiamare) sia stato la conseguenza del
movimento di opposizione extraparlamentare perché extraparlamentare
ossia perché estraneo o avverso al quadro delle istituzioni
democratico-parlamentari. / Così quelle forze politiche si sono
esentate dal chiedersi se, prima e oltre la scelta pro o contro le
istituzioni, non si fossero venuti manifestando opposizione e rifiuto
di un sistema sociale oppressivo e violento, controllato sempre più
apertamente dai poteri economici, fondato anche su corruzione e furto
legali o praticati con la complicità di istituzioni dello Stato sempre
più infiltrate e disposte a vanificare quanto, di regime democratico e
parlamentare, si lasciava sussistere. Storia di jeri e di oggi, verità
un tempo chiare a molti e che oggi debbono essere di nuovo e con fatica
conquistate.»
Su questa linea di riflessione – si vedano i molti interventi di
Fortini in Insistenze (1985), libro dedicato «a chi abita le
prigioni»
- pubblichiamo un’ampia intervista di Massimo Cappitti a Vincenzo
Guagliardo, il cui libro Di sconfitta in sconfitta. Considerazioni
sull’esperienza
brigatista alla luce di una critica del rito del capro
espiatorio (2002) viene ora ristampato in una nuova edizione da
Colibrì
di Milano. Vincenzo Guagliardo, nato nel 1948, è stato condannato
all’ergastolo a causa della sua passata
appartenenza all’organizzazione
Brigate Rosse. Da tempo si occupa della tematica dell’abolizionismo.
Tra i suoi vari contributi si ricorda il volume Dei dolori e delle
pene, pubblicato dalle edizioni Sensibili alle foglie.
C – Mi sembra che il tuo libro ponga questioni sempre più rilevanti:
tra queste, ad esempio, l’ossessione identitaria, dove il desiderio
esasperato di inclusione produce nello stesso tempo l’esclusione, anche
feroce, di tutti coloro che sfuggono a rigidi criteri di individuazione
identitaria. Oggetto di stigmatizzazione sono pertanto singoli e gruppi
– lo straniero, il rom, il povero, il “deviante” – ritenuti pericolosi
e quindi nemici contro i quali scatenare l’opinione pubblica. Dalla
creazione di dispositivi di questo tipo non sono esenti neppure ambiti
a noi più vicini, “nostri”, a proposito dei quali spero tu abbia voglia
di dire che cosa si intende con “nostro”. Questa visione identitaria
della politica, dei rapporti tra gli individui e dei rapporti sociali
sta diventando predominante. Ancora, si sta imponendo un giustizialismo
diffuso per cui tutti manderebbero in galera tutti: concezione questa
che è causa e insieme esito della pervasività del sistema penale o
ancora peggio del sistema poliziesco. In questi dieci anni che ci
separano dalla prima edizione del libro, la tua ipotesi di lettura, non
solo dell’esperienza degli anni Settanta e dell’esperienza brigatista,
come dice il sottotitolo del tuo libro, ma di tutta l’esperienza umana
intorno al concetto del capro espiatorio, mi sembra, allora, che venga
tragicamente confermata. Da qui, secondo me, la necessità di
ripubblicarlo come una sorta di sguardo che ha precorso i tempi.
G – Siamo arrivati a una forma di stato che
ha sancito, anche formalmente, il razzismo istituzionale. E questa
nuova realtà non è stata costruita dal centrodestra e dal neoliberismo
ma dalla legge Turco-Napolitano che nasce nel 1998 col
centrosinistra e stabilisce la costruzione di quelli che allora erano
chiamati Centri di Permanenza… Temporanea, un ossimoro ipocritamente
eufemistico. L’unico cambiamento introdotto poi dal centrodestra è
stato quello di definire con più precisione e meno ipocrisia che cosa
erano i CPT e cioè: Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE).
L’esperienza di centrosinistra ha sancito, a livello istituzionale, il
razzismo e ciò ha significato aver messo al centro un “fuoco” da cui
poi si sviluppano facilmente tutti gli identitarismi secondari, diffusi
e pervasivi. Oltretutto, proprio perché questo salto nasce dallo
sviluppo della sinistra, bisogna osservare che la catastrofe riguarda
tutta intera la sinistra all’interno di questa logica. Si tratta di
studiare le ragioni della facilità con cui si è diffuso il meccanismo
identitario. Sto notando che da una parte il proletariato povero è
atomizzato, diviso, sottoposto a politiche repressive micidiali,
“lagerocentriche”, ma d’altra parte in tutto quello che è un nuovo tipo
di soggetto sociale, precario ma intellettualizzato, formatosi in
questi ultimi decenni, che spesso fa parte ancora della sinistra e
magari si dice antagonista, c’è una debolezza molto preoccupante.
Abbiamo a che fare, infatti, con delle persone laureate da una scuola
di massa e che però non sai dove mettere. Il sistema, che oggi è
istituzionalmente razzista, non sa cosa farne di questo surplus
intellettuale “proletarizzato” e gli dà il ruolo di controllore, non in
veste di poliziotto ma attraverso mille attività che un tempo facevano
parte o dell’autonoma convivialità sociale oppure dell’iniziativa
politica in parte assorbita dall’esistenza del vecchio stato sociale.
E’ questa nuova specie di stato sociale di serie C che ha la funzione
di espropriare relazioni e funzioni sociali, sino a ieri relativamente
autonome, e di rafforzare, anche se in modo precario e apparentemente
marginale, una nuova immensa burocrazia che ormai pervade e
contraddistingue la vita quotidiana. In questa espropriazione delle
relazioni sociali c’è sia la logica del mercato sia la filosofia del
sistema penale che penetra in tutte le ex relazioni conviviali
diventate dipendenze. Questo è spesso il campo sociale di ciò che
rimane della sinistra, sia quella istituzionale sia quella
“antagonista” di alcuni centri sociali. Si pone allora radicalmente il
problema della critica del proprio ruolo sociale, questione che
l’operaio anni fa si poneva. La sinistra rivoluzionaria voleva che ci
fosse un mondo senza operai, che si diventasse esseri umani e basta,
adesso c’è di nuovo lo stesso problema in forma diversa: questa gente
“di sinistra” si vuole riqualificare come ceto medio in via di…
declassificazione (un po’ come i primi fascisti ma senza “fascismo”) o
vuole ridiscutersi? Solo da questa critica si può ripartire per
un’ipotesi di cambiamento, altrimenti si è “interni”, e non si ha altra
alternativa che la ricerca di una differenziazione “da”: da quello che
non la pensa come me, da quello che ha un’altra ipotesi politica, da
quello che fa un centro sociale o cooperativa diversi da me e così via.
A partire dalla coscienza critica di questi nuovi ruoli esproprianti di
relazioni sociali e di controllo e eliminazione di spazi conviviali, si
deve ritornare a decidere di far parte effettivamente del proletariato
reale: in un certo senso la comunità non identitaria la devi costruire
artificialmente attraverso un senso alto della politica che ritorni per
alcuni aspetti all’esperienza del primo movimento operaio. Su questo si
deve aprire la discussione. Non sarà solo un meccanismo alternativo
alla logica di mercato, ma dovrà essere qualcosa che dovrà individuare
nella critica al concetto di pena e di sistema penale il suo fulcro,
altrimenti non dobbiamo stupirci di questa invadenza della filosofia
penale anche in campi che fino a ieri erano compito amministrativo
dell’assessore comunale o, soprattutto, dell’iniziativa spontanea della
convivialità umana.
C – Mi sembra che, accennando alle forme di
convivialità sociale espropriata e svuotata, tu capovolga un
ragionamento condiviso anche da ambiti della cosiddetta sinistra
alternativa. Si individua, cioè, nella “messa al lavoro” dei
sentimenti, delle relazioni e delle facoltà umane in genere il tratto
rilevante, se non costitutivo, dell’attuale sistema capitalistico, nel
contempo, però, sembra che questo tratto costituisca anche la
possibilità del suo rovesciamento. Qualcuno si spinge a dire che siamo
nel comunismo senza saperlo. Invece mi sembra che il tuo ragionamento
vada nella direzione opposta.
G – Qui ormai si tratta anzi di ricostruire
da zero e “artificialmente” quello che è stato distrutto nel profondo.
C – Quindi per te il capitalismo è
incompatibile con qualunque esperienza umana significativa?
G – È proprio qui il punto di partenza del
ragionamento. Mentre capisco razionalmente, pur non condividendoli, una
serie di compromessi nella storia della vecchia sinistra, perché il
capitalismo sfruttava, oggi invece abbiamo un capitalismo secondo il
quale ci sono milioni di persone in sovrappiù, come conseguenza di una
relazione distruttiva con le forze produttive. Il potere ha dunque
bisogno di far fuori milioni di persone non solo dal lavoro ma,
letteralmente, con guerre ed epidemie, dalla faccia della terra. Non si
tratta più solo di conquistare nuovi mercati o di rendere capitaliste
aree non ancora tali; essendo tutti coevi e perciò nello stesso
“sistema” globale, si tratta di ridurci tutti entro quella dimensione
mercificando tutto, ogni aspetto, anche il più intimo, della vita
personale. E per questo siamo troppi. Ma non posso dilungarmi qui su
questo, sarebbe troppo per un’intervista. Capisco che Marx non potesse
proporre delle soluzioni come quelle che oggi siamo costretti ad
elaborare, nonostante nel primo movimento operaio fosse vivo questo
tipo di proposta, appunto perché all’epoca sua vigeva quel rapporto di
sfruttamento delle “forze produttive” anziché di distruzione. Perciò
bisogna rovesciare l’impostazione che fu della sinistra, anche di
quella rivoluzionaria in gran parte. E rivedere il rapporto con la
violenza, cioè bisogna anzitutto smettere di collaborare con un modo di
vivere che è distruttivo dell’altro e si fonda sul rito del capro
espiatorio, sull’esasperazione della logica penale, sulla
mercificazione di ogni aspetto della vita umana.
C – Attraverso il senso alto della politica.
G – Sì, ed è questo che ci porta a dover
rivedere anche il rapporto con la violenza. Insisto sulla non
collaborazione anziché sulla violenza perché, paradossalmente, oggi,
con questo sistema così pervasivo, è difficile che un’iniziativa
violenta (parlo esclusivamente della violenza politica contro
l’oppressione) abbia una qualunque valenza significativa. Anzi può
diventare la maschera di una collaborazione con questo sistema di vita
che è piuttosto necrofilo e distruttivo. E’ questione di antichi nodi
che vengono al pettine.
C – Parlavi di un senso alto della politica.
G – Lo dicevo senza approfondire, siccome
politica vuol dire, in teoria, discutere dei rapporti tra gli esseri
umani.
C – Ciò presupporrebbe un soggetto
all’altezza.
G – Sì, che abbia, appunto, una coscienza
critica del proprio ruolo sociale.
C – C’è qualcuno, secondo te, che ha questa
coscienza critica? Vedi all’opera un soggetto di quel genere? Perché,
invece, la collaborazione aumenta.
G – In realtà la gran parte della sinistra europea,
istituzionale o antagonista che sia, è interna al “sistema”, perché non
discute affatto del suo ruolo sociale. Nell’immenso fenomeno della
migrazione, in questi ultimi della terra spesso vedo però disperate
resistenze in difesa della dignità propria e di quella umana in
generale, un senso che non è della carriera ma della ricerca di libertà
e di forme solidali. Lo vedo sia nei migranti sia in alcune situazioni
del Terzo mondo in generale, persone che riescono a sopravvivere perché
difendono delle relazioni conviviali che il linguaggio economico ignora
a priori e quindi non può neppure cogliere come realtà. Si pensi poi
che, nonostante il cosiddetto trionfo del femminismo in Europa, la
condizione delle donne nel mondo è peggiorata. Il 70% della fatica
umana è sulle loro spalle, non qui dove le rivendicazioni femminili
riempiono i tribunali e magari estendono il diritto penale, ma altrove,
là dove c’è un sacco di miseria, su quella fatica, si regge ancora il
mondo.
Mi preoccupano alcuni fatti apparentemente secondari dove, chi è preso
dalla ricerca del capro espiatorio, se la va a prendere con il
nostalgico giovane neofascista di Casa Pound, anziché mettere al centro
il razzismo istituzionale della legge Turco-Napolitano, poi
approfondita dagli altri; ci si occupa cioè dell’ultimo cerchio invece
che del primo e del suo centro. Andare a inventarsi il nemico di comodo
e poi volerselo anche violento: contro questo falso o ultrasecondario
avversario, anziché andare a individuare qual è il proprio nodo, quello
per esempio, se proprio si vuole essere “antifascista” attuale, di
ospitare un extracomunitario a casa tua; dietro a questi discorsi
identitari attraverso la violenza (se sono A è perché attacco B), si
giunge poi a derive giustizialiste che esaltano la funzione penale, il
ruolo del giudice come sostituto della politica, la depoliticizzazione
totale della Storia, la decontestualizzazone dei conflitti…
C – Tu scrivi, rovesciando il modo abituale
di interpretare la storia, che questa procede di sconfitta in
sconfitta, contro la tradizione che la interpreta, invece, come
progresso. Nello stesso tempo però sottolinei che la sconfitta
non è un fatto negativo, bensì «una caratteristica necessaria del
mutamento reale per chi non sia soddisfatto dell’esistente». Fai un
doppio rovesciamento. In primo luogo metti in questione la tradizione,
che è stata anche di una parte del movimento operaio, secondo la quale
la storia necessariamente e inevitabilmente sarebbe culminata nella
liberazione dell’umanità; in secondo luogo, critichi la posizione di
chi vede nella sconfitta un ostacolo che inibisce ogni possibilità di
azione, chiudendo la storia entro un’opzione immodificabile. La
sconfitta allora diventa anche un blocco emotivo, l’impossibilità di
produrre nuova storia. Tu, al contrario, cogli nella sconfitta
un’opportunità, un momento fondamentale nella costruzione di sé e di
una società diversi.
G – In parte nel libro è spiegato – come
anche in Resistenza e suicidio – che quella era una visione un
po’
“militare” proprio perché rispondeva a quel compromesso con la
filosofia dominante che ai tempi di Marx poteva avere le sue ragioni, e
di cui abbiamo parlato prima. La sinistra rivoluzionaria già aveva
fornito un’eccezione a questa interpretazione, a quest’approccio
filosofico, con la Luxemburg che notava il carattere “vampiresco” e
distruttivo del capitalismo. Ma, al di là delle grandi intuizioni della
Luxemburg, lo schema prevalente è stato incentrato sulla liberazione
dallo sfruttamento: il “compromesso” si è tradotto in questa visione
“militaresca” che vede o delle vittorie o delle sconfitte. Ma se invece
si parte da una visione che è quella dell’incompiutezza umana e che
entro tale orizzonte vede la necessità di quella che un tempo si
chiamava rivoluzione, ovvero la necessità del mutamento a partire dalla
coscienza dell’incompiutezza umana, ecco che si va sempre lungo un
cammino che ogni volta aiuterà di più a registrare qualcosa che si deve
riconoscere per capire come proseguire, che salto fare e verso dove. Il
termine non è assunto solo rispetto all’analisi empirica delle
esperienze politiche ma vuole avere un approccio metodologico diverso
rispetto ai problemi di fondo della condizione umana.
C – Scrivi ancora «non è sotto il segno del pentimento ma sotto
quello dei rimpianti necessari […] per continuare a voler cambiare se
stessi perché cambi il mondo». Una riflessione sulle cause della
sconfitta è importante, allora, non perché ci si debba pentire di ciò
che si è fatto, ma per ritrovare il nesso tra il cambiamento di sé e il
cambiamento del mondo. Puoi spiegare in cosa consista questo nesso?
G – Cambiare se stessi è una questione che ha
sempre un risvolto esteriore, sul piano pratico. Non può essere visto
solo come un cambiare “dentro”: di questo non m’ importa perché so che
le “idee” possono essere solo una maschera di ciò che si è, una pura
autorappresentazione. Quando parlo di cambiare se stessi, intendo un
cambiamento nella vita reale, ad esempio nel rapporto con gli altri uno
è cambiato perché non fa il “giudice”, perché cerca di costruire
relazioni di vita alternative a quelle dominanti. Abbandono il terreno
filosofico per passare a quello della critica del proprio ruolo sociale
che apparteneva alle origini, all’atto fondativo del movimento operaio,
quando si voleva un mondo in cui non ci fossero più i lavoratori ma
degli esseri umani e basta. In tutto questo c’è una critica alla
visione riduttiva, economicista dell’idea del cambiamento, critica che,
in fondo, era patrimonio almeno riaffermato nelle intenzioni già negli
anni Sessanta-Settanta. Quando dico che il cambiamento deve essere in
questi paesi di tipo antropologico-culturale, non dico niente di nuovo,
ma riprendo e approfondisco temi antichi, presenti col primo movimento
operaio, risollevati dal ’68 e parzialmente intuiti dalla cosiddetta
sinistra rivoluzionaria massacrata dagli esiti dell’esperienza
sovietica.
C – Scrivi che laddove i conti con la
sconfitta non si fanno rimangono due vie: la possibilità della patetica
nostalgia o dell’indecoroso ritorno all’ovile. Dove vedi la patetica
nostalgia e dove l’indecoroso ritorno all’ovile?
G – La patetica nostalgia è tipica di ogni
reducismo, di ogni arroccamento mentale. È una storia antica, è il
vecchio che dice “tu non sai quello che ho passato io” e racconta
sempre fino a cent’anni quei tre mesi di guerra in cui ha vissuto in
una storia sempre più eroicizzata. Forse è l’atteggiamento umano
storicamente più diffuso. L’altro è quello che parte da Giuda, in modi
più o meno mascherati. È facile da individuare ma è molto cambiato. Su
questo ho scritto Resistenza e suicidio che va a vedere in che modo si
può aggirare la verità dei fatti per rovesciarla, presentarla in modo
molto più sofisticato.
C – A proposito del rapporto tra Il Pci e le
Br scrivi che «rispetto al Pci noi eravamo convinti di essere degli
eretici». Credo che tutto il movimento rispetto a quella tradizione si
percepisse come eretico. Che cosa ha rappresentato il Pci per la nostra
generazione?
G – Discorso complicato. Ci sono due livelli.
C’è quello dell’avversità politica immediata: il Pci è
l’antiestremista, si sa che il Pci ti darà del provocatore, che non
vuole nulla alla sua sinistra. D’altra parte però c’è una storia che
può essere vista così: per chi sta dentro a una visione che non mette
in discussione nulla di tutto ciò che in questo momento epocale deve
essere messo in discussione, il Pci è quello che “tradisce”. Qui, anche
se magari non lo si dice in modo così banale, nello stesso tempo, però,
il critico del Pci diventa colui che è ortodosso. Se non si mette in
discussione la stessa idea di rivoluzione che si sviluppa dal 1789 fino
alla storia che ne segue con l’epilogo attuale, in realtà si rimane
schiavi di alcuni paradigmi di fondo che ti votano alla sconfitta.
Allora diventa importante riconoscere la “sconfitta”, ovvero la fine di
quel tipo di ipotesi rivoluzionaria, perché altrimenti non se ne esce
più.
C – D’altronde non c’è stato gruppo che non
abbia cercato di scimmiottare il Pci.
G – Infatti c’è stato un meccanismo molto
noto: subito la nuova sinistra si trasforma in gruppuscoli che
diventano la caricatura della vecchia sinistra, di cui la lotta armata
lì per lì vuole essere l’alternativa, non cambiando, però, la sostanza
teorico-filosofica del proprio discorso: ce l’ha con i parolai, non ce
l’ha con i contenuti.
C – Su questo sei molto chiaro: «Chi accusa
l’altro di aver tradito non è più qualcosa di nuovo rispetto a lui, un
vero eretico, ma l’ortodosso: è il difensore di un antico patrimonio la
cui validità non è messa in discussione». C’è un’altra questione che
emerge leggendo il tuo libro: tu metti in rilievo con grande lucidità
come lo scivolamento delle categorie etiche in quelle politiche o
viceversa non fa che produrre confusione. “Pentimento”, “tradimento”,
“colpa”, “pena”, ad esempio, sono categorie sospese tra l’ambito
religioso e quello giuridico-politico.
G – Nascono già con l’ortodossia cristiana,
dai “dissociati” dell’epoca. Ciò che noi conosciamo come cristianesimo
storico è il risultato dei falsi innovatori, dei dissociati dell’epoca.
E da allora è un meccanismo fondante e ignorato che si ripete sempre.
Tutta questa storia di tradimento o dissociazione c’è sempre stata ma
viene sempre oscurata, tant’è vero che molti credono che ciò che
riguarda la lotta armata sia una degenerazione di questi tempi, ma non
è vero. Se ti leggi certi libri sulla rivoluzione bolscevica o quelli
sulla storia delle eresie dei primi secoli fino al Cinquecento e su
come è nata la civiltà cristiana, puoi riconoscere ogni volta lo stesso
meccanismo lealizzatore di massa, molto diffuso e ogni volta però
esorcizzato e rimosso, perché poi chi racconta la storia lo nasconde e
lo presenta diversamente.
C – Nel libro si legge, a proposito
dell’esperienza brigatista, «io non credo all’obiettività della
storiografia come scienza ma all’utilità della testimonianza di storie
soggettive», con un’avvertenza che non si tratta però tanto della
testimonianza oggettiva autobiografica. Che tipo, allora, di
testimonianza?
G – Non c’è una scienza se ogni volta non c’è
un dibattito, un confronto, come metodologia. A me non interessa chi
racconta le proprie memorie, quella è un’altra metodologia, di chi
ritiene importante la propria storia di individuo. Ma questo non ha
niente a che fare né con i criteri della storia ufficiale, né con i
criteri di altre metodologie storiche fondate sul recupero delle storie
orali, o cose simili. Questo genere di testimonianza riguarda
l’illusione del protagonismo personale: si tratta più di letteratura
che di storia, utile magari, ma in un ambito ben delimitato. Un’epica
pseudostorica: è presentato sotto forma di romanzo ciò che dovrebbe
avere il rigore di una ricerca storiografica: e questo va anche bene,
viceversa è un disastro.
C – Prima parlavi di insofferenza rispetto ai
“parolai”. E’ possibile che questa insofferenza abbia costituito uno
degli impulsi che ha spinto a scegliere la lotta armata, insieme, ad
esempio, alla valutazione che in Italia vi fossero le condizioni
politico-sociali per esercitare quella scelta.
G – Può esserci un limite teorico
nell’accusare uno perché offre solo parole, però è un passo necessario
perché quello che fai deve essere autentico e sincero, altrimenti di
che cosa discutiamo? In quegli anni “sentivi” che non potevi stare alla
finestra e questa, in sé, era una sensazione necessaria e giusta.
Questo spirito lo voglio salvare. Se si vuol mettere in discussione la
propria vita non per se stesso soltanto ma per gli altri, questo è da
difendere sempre e da valorizzare. Puoi criticare il modo in cui lo si
fa: violenza, non violenza, obiettivamente collaboratore e ingenuo
rispetto al pensiero dominante e alle sue regole oppure no.
Quest’errore ci sarà sempre, è inevitabile nella vicenda umana. Però,
questo tipo di spinta, credo che tutti noi la riconosciamo come
eternamente valida, la spinta, cioè, a non essere indifferente alla
sorte altrui. Almeno quello…
C – Quando la dimensione militare prevale su
quella politica? Tu fai un’analisi molto lucida su questo rapporto. La
dimensione politica-militare svelava una pratica politica – e non solo
politica – consolidata: c’era un capo, circondato da una corte di
fedeli, parlava in assemblea e poi se ne andava “senza sporcarsi le
mani”. Nell’altra dimensione, invece, - quella “politico-militare”
- tendenzialmente spariva la divisione sociale del lavoro. Tu
scrivi: «l’intellettuale si proletarizzava di fatto,..
G – All’inizio della lotta armata…
C – … non si era più potuto tornare indietro, facendo rientrare
dalla finestra quello che cacciavamo dalla porta». Non si può
intervenire in assemblea, pronunciando parole di un certo tipo, godendo
della protezione del proprio status sociale e professionale. Quando ha
luogo il pervertimento? Quando il militare prevale ed era inevitabile
che prevalesse?
G – Storicamente, almeno nelle BR, ciò non
avviene per scelta ma attraverso i colpi che dà il potere, col numero
degli arrestati e quindi con l’intellettualizzazione di fatto della
condizione del carcerato in cui non c’è più un rapporto personale
diretto con la lotta armata ma si crea un meccanismo politico in cui tu
vuoi rivedere le teorie esterne al carcere perché devi dare a qualcun
altro la colpa delle difficoltà… A partire dalla seconda metà degli
anni Settanta questi meccanismi cominciano a svilupparsi perché di
fronte alle sconfitte tu cominci ad avere la reiterazione del rito del
capro espiatorio che ti porta a individuare i soliti meccanismi
pervertitori della crisi. Lì nasce una spiegazione politica che pian
piano per autodifesa non si rende conto di mettere in discussione
elementi del proprio atto di nascita. L’aspetto militare favorisce
questo meccanismo, quando cominci a subire dei colpi è perché il
terreno della discussione te lo fissa l’avversario che è più forte su
quel terreno, più forte a priori.
C – Scrivi: noi eravamo antisettari, antidottrinari: avevamo
provenienze diverse.
G – Poi, però, dal carcere proviene sempre di
più un atteggiamento settario, come dicevo.
C – C’è un’altra questione di fondo: il
cosiddetto “doppio tempo”, cioè quella contraddizione che tu registri.
G – Rimandi ogni discussione, per stare sul
banale, di tipo antropologico-culturale – tu sei una novità su questo
piano, ogni “rivoluzione” ha qualcosa di nuovo – ci pensi, ma ne
discuti poco, discuti invece o dell’economico o del politico. Invece
tutto ciò su cui dovresti avere il tempo di riflettere a lungo lo
rimandi a un secondo tempo perché dici: come faccio in queste
condizioni? Sarà l’uomo di domani che lo farà. Io sono l’uomo vecchio
che agisce per l’uomo di domani. Questo fa parte della vecchia visione
comunista, socialista e giacobina.
C – È un paradosso che tu hai sentito
immediatamente o di cui hai preso consapevolezza nel tempo? Lo
avvertivi come un limite già nel corso dell’esperienza che stavi
vivendo oppure lo hai capito retrospettivamente?
G – No, lo vedevo anche allora, lo vedevo che
questa riflessione era scarsa perché venivo da un’esperienza che poteva
permettersi il lusso di riflettere di più di queste cose negli anni
pre-lotta armata. Avevo consapevolezza, però, di interrogarmi e basta.
Su come tradurla in pratica, ancora adesso ce lo chiediamo. Sappiamo
che c’è questa esigenza, ma ci chiediamo che cosa poter fare di
alternativo. L’importante comunque è averne anzitutto coscienza, almeno
per aver consapevolezza del limite di quello che stai facendo. Ma se tu
poi ti dimentichi di questo limite e lo esalti, lo assolutizzi, ti sei
alienato la tua stessa coscienza.
C – È una condizione tragica.
G – Io in Di sconfitta in sconfitta
schematizzo e semplifico al massimo le cose, spiegando qual è
oggettivamente il risultato finale di tutto uno sforzo politico e
mentale. Tutto questo cammino non è così lineare come appare in quella
affermazione: è sempre pieno di dubbi, di tormenti personali. Però i
tormenti e i dubbi personali che sempre ci sono rimangono solo nella
coscienza individuale e non trovano le condizioni, dentro quel
meccanismo, di riuscire a far parte di una politica. Quello che scrivo
perciò è una banalizzazione, è utile ricorrerci per riuscire a
spiegarci per iscritto, però non dà conto della complessità che c’è
dietro.
C – Hai già fatto cenno più volte alla
questione della violenza. Poco prima di morire G. Anders in occasione
del disastro di Chernobyl sostiene che, quando la vita, non solo della
generazione presente ma anche di quelle future, rischia di scomparire
perché preda della minaccia del nucleare, è legittima la resistenza,
anche violenta, come perfino lo stesso diritto canonico autorizza. Lo
dice con parole inequivocabili. Anders approda a questa posizione
abbandonando il suo pacifismo radicale. Come si può reimpostare,
allora, un discorso di critica alla violenza? Tu scrivi che la non
collaborazione, la non-violenza per essere credibile deve essere più
radicale della pratica violenta. Il nonviolento non deve transigere,
deve rischiare.
G – Questo vuol dire che la non-violenza deve
diventare più efficace della violenza. In termini politici la violenza,
la storia degli oppressi, il primo passo della presa di coscienza, è
comunque una autodifesa che serve a conservare o a difendere
l’esistente o, anche quando non ci riesce, ad affermare una dignità
come patrimonio ideale di colui che preferisce morire col fucile in
mano piuttosto che, ad esempio, di diarrea. Se invece devo discutere di
qualcosa che cambi il mondo, non che serva solo a difendersi o a
sopravvivere in situazione estreme, come fa il gatto che quando lo
chiudi in una stanza allora attacca perché non gli rimane altro da
fare, la risposta essenziale e più efficace è quella che riesce a
mobilitare le coscienze sulla base di una non-collaborazione. E’ chiaro
che se accetto la violenza ma poi collaboro a quel sistema che
combatto, là dove non si è arrivati alla condizione estrema della
difesa immediata della propria vita e della propria dignità, allora
ecco che lì il ricorso alla violenza può diventare l’alibi della non
messa in discussione di tutto ciò che pretendi di combattere. Questo è
il ragionamento che propongo. Infatti della non violenza parlo più che
in termini etici – non so neanche se qui sia ora la parola giusta – ne
parlo come di una sorta di strategia militare che sia adeguata alla
volontà di cambiamento reale. Oggi a me non interessa chi vuole fare
l’antifascista nostalgico che combatte contro il fascista nostalgico,
quando invece è la legge Turco-Napolitano che devi criticare. C’è pure
da notare che chi parla di violenza in Occidente spesso non la pratica,
non va a rischiare la propria vita in prima persona, mentre nella
non-collaborazione o parti dalla prima persona o non parti del tutto.
Anche su questo meccanismo bisognerebbe riflettere. È rivelatore, no?
C – Sottolinei che ogni violenza scatena la
reciprocità, quindi la non collaborazione dovrebbe bloccare questo
meccanismo mimetico. Ad esempio tu affermi che la vostra esperienza era
gravata dal meccanismo della delega. Eravate circondati da tifosi che
applaudivano le vostre azioni. Segno, semmai, non tanto e non solo di
consenso quanto di una dissociazione interiore delle persone che
assistono passivamente agli eventi come se si trattasse di uno
spettacolo televisivo. In questo modo capovolgi la posizione dei
patetici nostalgici che traggono la legittimità delle loro azioni
proprio dall’applauso dei tifosi. Meglio sarebbe stato se non vi
avessero applaudito.
G – Meglio sarebbe stato se si fossero
preoccupati tanto da aver paura. Ho avuto in fabbrica molti amici che
di fronte alla proposta della lotta armata, pur condividendola,
ammettevano di aver paura per sé e per la propria famiglia. Questo tipo
di atteggiamento l’ho sempre trovato comprensibile e umano. Quando un
giovane fa la sua azione “antifascista” per bisogno identitario e però
si prende la sua laurea per diventare un giorno, che ne so, “esperto”
in un qualunque esproprio di relazione sociale fino ad allora
appartenuta alla convivialità umana che invece bisogna sempre difendere
e espandere, crea un meccanismo simile a quello in cui prevale nel
collettivo politico chi parla meglio. Non si costruisce nulla, ma si
distrugge molto senza saperlo. Invece io vorrei oggi che ci fossero
scambi di attività, di tempi, tra un idraulico, un elettricista, un
informatico, un falegname, un carpentiere, un laureato in medicina ecc.
Che contino tutti quanto quello che parla bene, in un’attività in cui
uno ripara il televisore all’altro, l’altro porta da mangiare a un
vecchio, anche quello che non sa fare altro che cucinare bene ecc. E
che si creino delle relazioni di questo tipo in questo nostro tempo,
relazioni che proletarizzino non nella miseria ma, al contrario,
cercando di costruire un’alternativa a ciò che questo capitalismo sta
letteralmente distruggendo per non farti sopravvivere. In quel mondo
alternativo il carpentiere semianalfabeta conta quanto il laureato: ciò
che conta è lo scambio di attività sociali, conviviali, lavorative
anziché il dominio politico, inteso come logica del dominio.
C – Nei gruppi degli anni Sessanta-Settanta,
però, l’atteggiamento era diverso da quello che hai descritto.
G – Sì certo. Per esempio a Torino, nel 1968-69 in fabbrica c’era
una struttura di lotta, che si chiamava “Lotta continua”, che aveva
prodotto dei volantini fatti dagli stessi operai con degli studenti,
che venivano diffusi tra i vari reparti della fabbrica dagli operai o
ai cancelli dagli studenti. A un certo punto, un gruppo che ne aveva i
mezzi ha denominato “Lotta continua” un giornale e si è appropriato di
quella esperienza e diceva di rappresentarla. E tutta quella complessa
realtà che si esprimeva attraverso quei foglietti è stata messa da
parte.
C – Ma non pensi che questa sia una maledizione della tradizione
comunista, la sua eredità giacobina?
G – Questa è l’antica maledizione
dell’intellettuale che non sa mettere in discussione il proprio ruolo.
Anzi, lo esalta e lo conferma perché da declassato in via di
proletarizzazione nella società si ritrova leader nella presunta
contro-società, presunta perché vive solo nel politico, ma poi ciascuno
a casa sua e ciao. Già gli studenti dicevano di non voler diventare
pezzi del sistema, ingranaggi per il rinnovo della classe dirigente.
Invece scopri che l’intellettuale, anziché mettere in discussione il
proprio ruolo, lo esalta e ricrea dentro il movimento politico la
divisione sociale del lavoro che dice di combattere nella società. Ciò
discende di nuovo da uno schema di tipo giacobino-illuminista, cosa che
il ricorso alla violenza non è riuscito a far superare, aiutando semmai
a trasformare le rivoluzioni “vincenti” del Novecento in nuove forme di
controrivoluzione sugli oppressi. Guai ai vincitori!
C – E’ l’intellettuale che spiega agli altri
dove va e come va il mondo.
G – Ritenevo che la lotta armata lo mettesse
in discussione e su questo ho dovuto fare una sincera autocritica,
perché non c’è stata. Adesso vediamolo rispetto al lavoro. Occorrerebbe
recuperare tutta quella parte di vita sociale o di economia, comunque
la si voglia chiamare, che viene ignorata a priori da questa vecchia
visione matematica calcolante, ora esasperata dalla nuova finanza con
gli esiti catastrofici da resa dei conti che conosciamo, e riprendere i
fini della vita da lì. Per questo ritorno paradossalmente a certe
caratteristiche del primo movimento operaio ma che ancora ritorna nel
Novecento. Nel primo Novecento era normale che i bambini degli
scioperanti venissero accolti da famiglie di operai non scioperanti,
anche a diverse centinaia di chilometri di distanza e per i bambini era
pure una bella vacanza altamente autoeducativa.
C – Probabilmente in quel momento storico il
movimento operaio pensava a una forma alternativa di civiltà, la
pensava e l’aveva. Era un modo alternativo di vivere, almeno fino alla
prima guerra mondiale. Su questo punto la Luxemburg è stata molto
chiara, individuando in quella guerra una frattura storica e una
catastrofe per il proletariato. E’ stata unica delle poche a capirlo e
sottolinearlo. Quindi neanche un’esperienza così radicale come la lotta
armata ha messo in discussione la divisione sociale del lavoro: chi era
intellettuale è rimasto tale.
G – Magari non è rimasto tale ma, purtroppo,
non ha importanza. Quello schema di tipo giacobino può averlo chiunque,
lo può avere anche un operaio, è uno schema culturale che può essere
adottato - o meglio subìto - da chiunque. Comunque quello è solo un
aspetto della questione. Dietro c’è una filosofia e una storia
plurisecolare. Bisognerebbe dire, come fa uno scrittore dell’Angola,
dove si viveva questo problema durante la rivoluzione: devo mettere in
discussione me stesso per mettere in discussione il tribalismo, se no
il tribalismo ti rimane sempre. Il codice da cui si ricrea tutto è
ancora intatto e nessuna rivoluzione l’ha messo in discussione.
C – Sono quelli che tu chiami i limiti
esistenziali, i limiti della condizione umana, ossia la sua
incompiutezza.
G – Sì intendo quello. Anche la religione
rivelata serve allo scopo di farti sempre vivere con angoscia quella
incompiutezza invece che come riconoscimento della condizione umana,
che deve diventare invece il tuo punto di forza perché è quello che
rende possibile il tuo mutamento.
C – Infatti tu dici che la fede è un’apertura
a ciò che è sconosciuto, quindi tutte le istituzionalizzazioni
l’uccidono. Tu parli d’inconscio espiatorio: è un inconscio collettivo,
individuale o tutti e due insieme?
G – Quando una cosa diventa cultura va a far
parte di un automatismo, quindi dell’inconscio. L’inconscio è sempre un
immaginario collettivo incorporato. Anche il dio non è una bugia, ma
era una rivelazione che ti appariva e che era l’immaginario collettivo
che ti dava la sua risposta nel momento della crisi.
C – Il pentito chi? Tu ne dai questa
definizione: «il pentito non è la vittima che paga per tutti, ma il
colpevole che fa pagare tutti gli altri».
G – Oggi sì, questo è il pentito di
quest’ultima epoca, frutto del cambiamento nel meccanismo del pentito,
che è stato fatto legge. Prima c’era soltanto un meccanismo
inquisitoriale, ma la società non l’aveva sancito come legge di stato,
diffusa attraverso i mass media come rivoluzione del vocabolario. In
fondo ora è una definizione molto banale che si riferisce alla cronaca,
neanche alla storia, proprio alla cronaca di questi ultimi decenni.
C – Però il pentito è una figura
dell’esperienza politica che ha preso rilievo, è diventato una figura
di riferimento, ci sono i pentiti giudiziari, i pentiti culturali…
G – Questo è il pentito contemporaneo. Un
tempo era una figura diversa, che non faceva mercimonio. Ho anch’io i
miei pentimenti. Provo persino ancora un senso di vergogna per delle
piccole azioni che ho commesso nella mia infanzia per motivi poco
nobili. Credo che questo faccia pure bene. Marx diceva che l’unica vera
pena è quella che ti porti dentro. Il pentito c’era sempre stato, ma
non era diventato ancora istituzionale come è diventato con la legge.
Leggi dello stato come certificazioni di “buon cittadino” non ce
n’erano mai state. Ti dicevano cosa non fare e cosa ti sarebbe successo
se… E’ chiaro che il delatore ha sempre avuto il suo vantaggio – i
trenta denari – però non era stata costruita tutta una legislazione
come forma di santificazione del “buon cittadino”.
C – E’ scandaloso che una persona possa
barattare la propria libertà con quella altrui, garantito e premiato
dalla legge.
G – E i mass media presentano questo come
esempio di buon cittadino, questo è un uso abnorme di una cosa che c’è
sempre stata.
C – Intendevo proprio questo, cioè che venga
premiato dalla legge, confondendo la sfera interiore e quella esteriore
dei comportamenti. Il diritto non può intervenire sulle interiorità,
qui invece è come se avesse messo le mani dentro l’anima delle persone.
G – E’ la politica dell’anima.
C – Però, leggendo dall’altro punto di vista,
ci sono stati almeno tremila dissociati politici. E’ fisiologico che
ogni movimento rivoluzionario possa avere dei pentiti, però il numero
dei pentiti della lotta armata “recente” non ti sembra enorme?
G – No, i “pentiti”, qui ora intesi come
abiuranti e non come semplici delatori, sono sempre stati molti, però
nascosti, non riconosciuti come tali.
C – Però a me sembra che sia un dato
inquietante che la gran parte di chi ha vissuto quell’esperienza si sia
pentito o dissociato.
G – Ma è sempre stato inquietante, però rimosso, nascosto o
censurato e poi “ripresentato”. Bisogna rivedere tutta la storia che
conosciamo delle cosiddette rivoluzioni perché questa storia è sempre
falsificata e nasconde da sempre questo aspetto incredibile della
realtà.
C – Quindi tu non vedi una peculiarità
italiana.
G – No, non la vedo, la peculiarità la vedo
nell’uso dei “pentiti”, nel nuovo vocabolario dato alle vecchie voci
“delatore” o “abiurante”. Ma perfino quando non c’era l’uso così
abnorme di oggi, questo fenomeno è sempre stato rilevantissimo e su
questo c’è da fare un lavoro storico che sarà difficilissimo. Si deve
pensare infatti che il lager nazista che prometteva solo la morte si è
basato in maniera rilevante sulla collaborazione dei prigionieri. In
alcuni campi di lavoro sovietici i “comuni” erano usati come kapò
contro i “politici”, altrove, in Germania magari, dei politici erano
organizzati come dei privilegiati rispetto agli altri internati. C’è
un’altra storia che è stata contrattaccata, come è accaduto al libro di
Rassinier La menzogna di Ulisse. Rassinier è stato attaccato
come
falsificatore. Andando in fondo nella storia del Cinquecento, nella
storia delle eresie, nella storia dei primi cristiani si vede come il
meccanismo del pentitismo e della collaborazione sia sempre esistito,
per non parlare della rivoluzione russa, della storia dei Pc, di
quell’immenso processo “pentitorio” che fu lo stalinismo…
C – Quindi la mia convinzione è errata.
G – Ritengo di sì. Questa volta al pentitismo
è stato dato rilievo non solo mediatico, ma anche a livello di
rielaborazione della stessa politica statale, fino a farlo diventare
pervasivo e lealizzatore persino nei rapporti di lavoro, cosa che prima
non si era mai vista. La novità non sta nella debolezza del soggetto
umano nel momento di cambiamento e di lotta; la novità sta nell’uso
abnorme e strategico, davvero nuovo e originale per molti aspetti, che,
in particolare in Italia e in parte altrove, è stato realizzato su
questa realtà umana, che però, ripeto, è sempre esistita e
contraddistingue anche la nascita del cristianesimo ortodosso.
C – La peculiarità, quindi, sarebbe
l’istituzionalizzazione dell’emergenza. Pensavo, invece, che ci fosse
una sorta di deriva italiana tragica.
G – Anch’io l’ho pensato per molto tempo.
Poi, andando a informarmi per anni su storie di lotta per il
cambiamento, ho cambiato idea. D’altra parte il libro di Grossman Vita
e destino parla senza pudore di questo per la Russia. Perché Rassinier
viene attaccato, (lasciando perdere il fatto che il libro è scritto con
troppa risentita amarezza), perché viene censurato, perché lo stesso
Primo Levi, pur ammettendo il fenomeno, lo dice, giustamente e
comprensibilmente, in modo pudico, e anche così riesce a pubblicare il
suo libro solo dopo anni? La zona grigia, la collaborazione ecc. sono
fenomeni che ci sono sempre stati ed è molto difficile parlarne.
C – A me colpiva oltre alla percentuale dei
pentiti anche la dissociazione che è ben più insidiosa del pentitismo.
G – Di quella soprattutto io parlo.
C – Mentre il pentito è solo nella sua
miseria, la dissociazione crea cultura. Diventa una soluzione politica.
Come sei entrato nell’esperienza, ne esci e giustifichi davanti a te
stesso questa uscita come un’uscita di massa, politica.
G – Questa è la dissociazione italiana che ha
prodotto poi la legge ad hoc. Ma successivamente moltissimi altri sono
usciti non con la legge della dissociazione, che era scaduta, ma
potendo o dovendo applicare individualmente la stessa logica. In
pratica, sulla dissociazione di brigatisti dal carcere ne sono usciti
pochi, la maggior parte dei brigatisti sono usciti “applicandosi”
individualmente questa legge diventata nel frattempo legge
penitenziaria. Se ora sono semilibero è perché ho “individualizzato” il
mio caso davanti alla legge attuale, ormai uguale per tutti i detenuti,
e basata sulla contrattazione del singolo. Perciò diseguale per ognuno
rispetto a una controparte che è invece sempre l’Uno.
C – Perché c’è una logica premiale nella
dissociazione, che è quella che vi fa contestare la Gozzini.
G – Che gli ex brigatisti hanno utilizzato
individualmente, non come fenomeno organizzato. Adesso non c’è più
bisogno della dissociazione per dissociarsi perché c’è il meccanismo
penitenziario che è riuscito ad appropriarsi di ciò che allora era
stato necessario predisporre per legge. Non lo si viene neanche più a
sapere. La storia è questa: prima nasce la legge sulla dissociazione,
perché la legge non permette di uscire di galera in quel modo, bisogna
fare una legge apposta. A quel punto nasce la nuova legge penitenziaria
che recepisce la realtà costruita da quella legge, la incorpora
nell’ordinamento penitenziario e da allora c’è un altro meccanismo in
cui tu formalmente non sei né dissociato né niente, sei uno che ha la
condotta ritenuta giusta dal magistrato, dal personale penitenziario,
dallo psicologo, dal criminologo, dall’assistente sociale,
dall’educatore ecc. Quindi tu puoi anche fare, se vuoi, il dissociato
senza essere dichiarato tale. In questo senso i dissociati ti dicono,
per certi versi giustamente, di essere stati loro ad aprire la strada
perché tutti potessero usufruire di questi frutti adesso, anche tu che
parli male di me dissociato. Io, però, la legge non la volevo. Tu,
dissociato, hai ragione, ma è proprio questo che ti rinfaccio, perché
tu vuoi liberare il mio corpo, ma non ti rendi conto dell’inferno che
hai costruito nell’anima per tutti. Un sovra-pena non dichiarata per
una pena non più certa ma fluida: indefinibile e tesa verso l’infinito.
C – D’altra parte questo nasce da una
coscienza di sé, come tu dici, frammentata. Lo fai perché rinneghi una
parte di te: io ero un altro. Questo è proprio l’esito di una visione
“oggettiva” della storia, cioè la storia ha autorizzato a fare certe
scelte, quando la storia ha smesso di farlo, allora i soggetti si
adeguano. Non c’è assolutamente consapevolezza di sé.
G – Ciò significa che avere tanti io è come
non averne nessuno, eccetto quello degli altri.
C – E’ la pratica di affrontare
individualmente problemi che sono collettivi. Si agisce da soli,
nonostante che i problemi siano comuni. Rotto il legame sociale,
ciascuno è affidato a se stesso.
G – Ci sono cose che nascono sui tavoli di
tortura del Duecento e pian piano si sono sviluppate. Per questo
m’interessa la storia degli eretici, perché quella fu la più grande
resistenza umana al nuovo tipo umano che la logica del dominio voleva
costruire e che alla fine del XX secolo ha ottenuto con un altissimo
grado di istituzionalizzazione che la stessa Inquisizione non si
sognava. Ma quello era un tribunale ecclesiastico, qui invece abbiamo a
che fare con una logica di stato che permea con i suoi regolamenti
persino il lavoro d’ufficio.
C – Quindi l’Italia è stata un laboratorio non tanto del
berlusconismo quanto della promozione e dello sviluppo di questi
dispositivi.
G – Il berlusconismo è tutto successivo ed è
interno a questo stato di cose.
C – Nel tuo libro a un certo punto a
proposito dell’esperienza lottarmatista tu scrivi che c’era un’idea
violenta di una giustizia punitiva, la creazione di uno stato
parallelo, la vittima colpita era ridotta a un simbolo. Da qui la
riflessione sulla servitù volontaria. Questa tua riflessione sulla
giustizia punitiva, sui tribunali del popolo, pensi che mantenga ancora
validità? Pensi ancora che costituisca un limite di quell’esperienza?
G – Sì. Mi ricordo come mi “aggiustavo”
rispetto a queste cose: il tribunale “del popolo” è un momento di
controinformazione, il rapporto col nemico non è quello di un giudice,
ma quello di un soldato contro l’avversario. Un momento di guerra e non
un vero processo. Aggiustamenti mentali che toglievano poco alla realtà
dei fatti.
C – La tua riflessione sulla vittima come
simbolo sembra una critica a una certa visione dell’ anarchismo oltre
che a una certa interpretazione del marxismo.
G – Non è solo anarchica. Gli anarchici hanno
nella loro riflessione libertaria elementi molto validi, però
l’anarchia è un movimento molto vasto, pieno di posizioni diverse. In
realtà nel colpire il simbolo c’è qualcosa in comune fra tanti, anche
se lo fanno in modi diversi. Insomma quando i bolscevichi decidono di
ammazzare lo zar con tutta la famiglia, oppure anche Luigi XVI…
C – Però quelle erano epoche in cui il re
decideva veramente, è con la società burocratica che le cose cambiano.
G – Va bene. Allora facciamo il nome di
Gentile, di via Rasella, possiamo fare un sacco di esempi in cui ci
sono punti in comune che però poi, siccome ci sono strutture
organizzative diverse, vengono tradotti in modo diverso dalla tecnica
dell’agguato individuale. Appartengono sia al rivoluzionario borghese,
sia a certi momenti di ricorso alla violenza organizzata della
tradizione comunista, che, anche se meno, al movimento anarchico.
C – Il contadino del Seicento polacco che taglia la testa al
latifondista si accanisce contro quello da cui patisce il dominio
individuale. In una società burocratica è un’altra cosa.
G – Certo, ma era anche quello sotto cui mi
riparavo io: ero un soldato non un giudice.
C – Qual è stata e qual è la tua valutazione
sul movimento del Settantasette? Percepivi un senso di discontinuità
oppure lo ritenevi una riproposizione di ciò che era già stato? Un
Sessantotto senza la stessa intensità e la stessa estensione
geografica?
G – In carcere cercavo di capire. Quando sono
uscito ho visto i suoi limiti. Ho visto il soggetto che sulla violenza
la faceva facile, in realtà era molto fragile, riassumendo in poche
parole.
C – Quindi una generazione più fragile.
G – Mettiamola così. Per me la scelta della
lotta armata veniva dopo una lunga maturazione politica, anche del
singolo. Qui data la situazione oggettiva diversa, diventava la
“condizione per” . Da questo derivava un forte limite.
C – Non è proprio lì che si incardina la
dissociazione? Cioè in persone che non avevano una storia personale
consolidata?
G – Però si è incardinata anche in
Franceschini e tanti altri come lui pre-’77. Anch’io pensavo così, come
dici tu, perché istintivamente cercavo di dare una spiegazione comoda a
un atto che esorcizzavo. Poi, però, se ci rifletti di più, scopri che
in tutta la storia questo meccanismo c’è sempre stato. E’ uno degli
strumenti classici di ogni politica di dominio, che però non viene
parlata, viene agita. Si nasconde dietro delle pratiche, delle
strutture, dei riti. E’ solo allora che sono arrivato a leggere La
Boétie, il suo discorso sulla “servitù volontaria”, non prima, e anche
Thoreau e anche Gandhi. Perché lì c’è un pensiero che si concentra
sulla non collaborazione. Capivo che la fabbrica aiutava un tipo di
coesione dove il tuo maestro era il tuo compagno di lavoro anziché uno
che inculcava certi schemi e che, rendendoti obbediente, rinnovava la
servitù volontaria. Allora pian piano capisco che c’è un meccanismo in
cui è diverso l’uso, è diversa la mediatizzazione del fenomeno, è
diverso il contesto a partire dal quale viene utilizzata questa
esperienza, però è una storia che c’è sempre stata e la scopro a pezzi.
Ci sono le vicende dentro i campi di confino, nelle carceri fasciste,
nelle carceri in Grecia, nei campi nazisti, nel Cinquecento, nei primi
secoli della nostra era. La reazione volta a delimitare il fenomeno del
pentitismo è comprensibile, ma non tiene conto del fatto che tutto
quello che succede fa parte della storia dell’umanità. E solo se lo si
riconosce, si riesce poi a capirlo e, in seguito, a superarlo.
Rimanendo pulito, ma arroccato e nostalgico, senza volerlo, costruirò
degli “intoccabili schifosi”, quando parlerò con altri, anziché
aiutarli a liberare la loro coscienza.
C – Nel libro si legge «ogni affermazione di
identità che pretenda di differenziarsi riduttivamente rispetto alla
generica appartenenza al genere umano tende ad avere conseguenze
assassine. Non si può allora non vedere in questa deriva identitaria
prodotta dalla moderna disgregazione sociale una dinamica paranoide,
aggressiva verso colui sul quale si proiettano i propri fantasmi». Io
in questa affermazione riconosco un possibile significato del termine e
dell’esperienza del comunismo.
G – Rimane l’aspetto tribale del comunismo,
del comunismo come movimento, non dell’idea comunista, ma del comunismo
storico.
C – Per te ha ancora senso quella parola e,
se ce l’ha, qual è? Siamo partiti dalla Luxemburg la quale diceva:
socialismo o barbarie.
G – Anch’io per certi versi sono ancora fermo
lì.
C – Quindi ha ancora senso.
G – Quando si devono cambiare tutti i paradigmi, esistono
problemi di vocabolario. Bisogna fare attenzione al significato da dare
ai termini che si usano, perché possono essere interpretati
diversamente dall’interlocutore. Allora bisogna usare poco la parola e
rispiegare i fenomeni che stanno sotto alla parola che finora li ha
riassunti. Uno come me viene dai discorsi in cui se lotti solo per te
stesso sei niente, devi invece lottare anche per gli altri se lo vuoi
per te, sei per l’internazionalismo, sei per la fratellanza universale,
l’unica identità che riconosci è quella del genere umano e magari
scopri un cuginetto nel cane. Per me, nella mia esperienza, tutto ciò
ha sempre avuto a che fare con la parola comunista, anche perché la mia
critica ai partiti comunisti non parte da questi anni recenti ma da
molto prima. Sto parlando di un movimento carsico che ha millenni di
storia, che rappresenta sempre questo tipo di scossa di terremoto in
cui si affaccia il desiderio di verità e di amore, di superamento dei
confini che ogni dominio impone. La mia concezione di comunismo era
quella lì. Quando parlo degli eretici ci vedo dei fratelli di un tempo.
Allora, quando parlo di questo movimento, tendo a usare questa parola
“comunismo”, però ogni volta tendo con l’interlocutore a spiegare che
parlo di un movimento di secoli e secoli, cioè di un aspetto costante
della storia dell’umanità che va liberato. Devo dire, allora, che i
miei ultimi amici sono quelli che nel Duecento venivano combattuti dai
cattolici dell’epoca e i loro re. Questo movimento radicale che aspira
a realizzare le parole come amore, verità, solidarietà, fratellanza è
un movimento che non muore, non può morire perché fa parte della storia
umana. Io quel movimento lo chiamo comunismo.
C – Tu spesso hai detto a proposito del
carcere che a partire dalla situazione-limite si può giudicare la
quotidianità. Il carcere diventa una specie di prisma attraverso cui
leggere la società. Dietro ogni carcere, c’è una società.
G – Mi ripeto per riassumere: oggi tutta una
serie di ceti che possiamo definire ceto medio in crisi o proletariato
intellettualizzato però contraddistinto ancora dalla fluidità e dalla
precarietà, cioè i laureati in sovrappiù, tendono - e non se ne rendono
conto e pensano che questo sia essere di sinistra – a diventare dei
controllori sociali, degli esperti esproprianti di relazioni altrui.
Ora, questo ha molto a che fare con il penale, perché è la filosofia
penale che si estende, così come il carcere è in vitro il laboratorio
pronto all’uso per diventare il lager, né più né meno. Finché
non ti
rendi conto di questo non capisci quanto sei complice involontario,
ovvero “servo volontario” nel senso di La Boétie.
C – In che misura è cambiato il
carcere?
G – Cambia come la società però in modo più
estremizzato e disperato. Riflette la società, perché è quel
laboratorio che dicevo, da dove nascono quelle tecniche che riguardano
l’intera società e dunque tutto è portato all’estremo, perché comunque
la sua base è sempre infliggere sofferenza legale. Da quel lato, ormai
quello che vedi sempre di più è che la legislazione premiale, il suo
arbitrio, l’inferno dell’anima aumenta a livelli incredibili e investe
uffici, fabbriche, viaggiare in auto, andare al bar, fa braccare i
ragazzini. È molto più disperante un carcere che apparentemente lo
sembra meno, però al tempo stesso lascia ognuno solo, impedisce di
avere quegli spazi in cui, anche quando stavi peggio, stavi meglio
perché non eri solo, avevi i tuoi compagni che ti sostenevano, che
trovavano normale, appena tu arrivavi, saputo che non eri un infame,
farti arrivare quello che di meglio aveva in cella da mangiare.
C – Secondo te una battaglia sul penale che
cosa dovrebbe avere al suo centro?
G – Questo l’ho spiegato in vari interventi.
Finché non si tocca la punta massima, cioè l’ergastolo, tutto quello
che fai più sotto è provvisorio. Perché il carcere è un cancro e si
sviluppa per metastasi. Quindi o prendi la testa del problema, cioè
l’ergastolo, e da lì avrai quasi automaticamente una tendenza alla
diminuzione delle pene, che sull’ergastolo sono tarate, o non
risolverai mai nulla. E poi l’altro punto assolutamente fondamentale è
quello di creare meccanismi oggettivi nella punizione e mai premiali.
Questa non è né una proposta rivoluzionaria né comunista, ma dovrebbe
essere trasversale. Così come è stato giusto per prima cosa abolire la
pena di morte, adesso diventa fondamentale abolire l’ergastolo,
proponendo meccanismi oggettivi e non premiali di punizione, che
abbiano come obiettivo quello di abolire le “sovra-pene”. A partire da
lì può svilupparsi una battaglia abolizionista, perché ormai siamo in
un periodo in cui il corto circuito di questa logica penale comincia a
mostrarsi, permette di andare oltre l’idea di punizione e di pensare
alla riparazione. Tu vedi da una parte il lager per gli innocenti, i
migranti, e dall’altro uno che riesce a prendere in giro da quindici
anni i magistrati senza fare un giorno di galera e che per di più è il
capo del governo: cosa si vuole di più per capire che è un meccanismo
che non funziona più, che la pena e il delitto sono due concetti che
non c’entrano più niente l’uno con l’altro? Non voglio la galera per
Berlusconi, voglio meno galera per tutti.
C – Perché la sinistra è diventata il partito
dei magistrati?
G – Perché c’è sempre stata dentro. Prima di
tutto c’è una lunga storia del Pci che ha un’idea punitiva della
giustizia, secondo la quale bisogna punire i ricchi per quello che
hanno, poiché ci si vuole appropriare della ricchezza invece di volere
qualcosa di diverso. Per quella via dove vai? Questo è il punto di
partenza, poi ci sono sviluppi storici ormai conosciuti. Pensa a
Togliatti.
C – Sono moltissimi i magistrati eletti nel
Pd, la Finocchiaro per esempio.
G – La Finocchiaro era la meno peggio perché
almeno se ne intendeva e all’inizio era favorevole al nostro indulto,
poi è stato messo da parte. Pensa poi al giudizio del Pci da sempre sui
movimenti alla sua sinistra.
C – Sì però l’idea di un potere giudiziario che possa essere
piegato al raggiungimento di un’ipotesi riformista è penetrata
profondamente.
G – Non sono più riformisti visto che hanno
sancito il razzismo istituzionale. E l’idea del “socialismo”, o
riformismo, per via giudiziaria è l’illusione che ha permesso il
successo di Berlusconi.
C – Però loro si percepiscono come
riformisti.
G – Ma allora lo stesso si dovrebbe dire dei
ragazzi della sinistra antagonista che collaborano controllando le reti
sociali, vogliono processi contro neofascisti di quarant’anni fa. E’
gente che non si percepisce più. Bisogna che si abbia coscienza dei
propri limiti. Bisogna avere coscienza del proprio ruolo sociale per
limitare i danni del tuo lavoro. Poi, se puoi, cerchi un’alternativa;
almeno ti metti nelle condizioni “personali” perché possa esserci e
vederla. In Francia ci fu una campagna antirazzista che diceva “in casa
di ognuno di noi uno straniero”, che è una forma di disobbedienza
civile, oltre che di solidarietà, che fa sempre bene perché migliora il
tuo cervello a partire dal fatto di capire gli altri e i problemi che
hanno.
C – E’ vero che c’è stato un equivoco perché
si sono creati quelli che sembravano i saperi - psicologi, assistenti
sociali - che avrebbero dovuto aiutare i più deboli a emanciparsi e
hanno finito, invece, per controllarli e disciplinarli di più.
G – Sono i controllori. Quei saperi non
servono. Ti faccio un esempio. La cooperativa di cui faccio parte ha
preso dei casi psichiatrici a fare gli operai. Funziona! Uno
schizofrenico è diventato il capo di questi, ma capo solo nel senso che
è capace di spiegare loro il lavoro che lui stesso fa, e lui si sente
quasi felice perché ha la possibilità di avere un lavoro e dei soldi
che probabilmente gli consentiranno di avere cose che non ha mai avuto,
una casa, l’indipendenza: i suoi nuovi sogni. Quello lì non ha avuto
bisogno dello psichiatra. Paradossalmente anche un lavoro indubbiamente
alienante gli ha dato una pace e una soddisfazione in cui si sente, per
la prima volta in vita sua, autonomo e utile.
C – Quello che volevo dire è che c’è stato un
rovesciamento per cui molti di quelli che negli anni Settanta volevano
fare i sociologi, gli assistenti sociali, gli psicologi poi si sono
trasformati in controllori. Ne è nato il business della sofferenza.
G – È l’espropriazione della relazione
sociale. La risorsa più produttiva della condizione umana è proprio la
convivialità. È quella cosa banale per cui se hai fame non hai bisogno
del medico ma di qualcuno che ti aiuti senza neanche il bisogno che chi
ti aiuta sia un cuoco specialista. Il ruolo sociale, che ha dato alla
gente in sovrappiù di ruoli, è quello di essere i controllori di coloro
che sono in sovrappiù da povertà. È la stessa logica del Kapò ma
mistificata attraverso lo sviluppo della divisione sociale del lavoro.
Tutti questi ruoli sociali hanno perso la fisionomia che avevano nel
Welfare State, già di per sé criticabile, ma questa persavisità
“penale” ridefinisce tutti i luoghi di relazione umana, a partire dal
lavoro fino al lavoro-ombra non riconosciuto, alla stessa convivialità.
C – Costoro diventano obiettivamente dei
custodi, anche al di là delle loro intenzioni.
G – Adesso ci sono interi popoli che sono
nelle mani di ONG.
C – Qui c’è un limite culturale della
sinistra.
G – La sinistra dentro il suo schema
illuminista ha costruito il ceto, da sempre, che è stato sempre
denunciato come burocrazia oppressiva nelle migliori analisi di estrema
sinistra, che faceva da “cervello per”. Il proletariato invece ha già
il suo cervello. La libertà non è il “nuovo” da creare ma il passato da
liberare. La sinistra ha sempre coinciso con la formazione del ceto
dirigente. Dunque bisogna arrivare a una critica dentro la sinistra del
ruolo intellettuale.
C – Riflettevo sul fatto che questi processi
si siano avviati senza consapevolezza critica.
G – Anche la cosiddetta nuova sinistra ha
fatto parte di questo meccanismo, anzi ha cercato di rinnovarlo.
C – Ne è stata all’avanguardia, nonostante ci
fossero tutti gli strumenti per capire dove avrebbe potuto portare
questo atteggiamento. Ad esempio la chiusura del manicomio in taluni
casi ha provocato la “manicomializzazione” del territorio.
G – Mentre i primi discorsi erano fondati sul
riconoscimento della malattia mentale ma anche sul dover scegliere se
essere psichiatrici o antipsichiatrici. Poi si è arrivati alla
psichiatria democratica, che è un altro ossimoro come i Centri di
permanenza temporanea. L’ossimoro, nella sua minaccia, è più pervasivo.
È per questo che bisogna andare oltre la sinistra. Per fare una
battuta: a chi mi chiede se sono di sinistra, rispondo di non saperlo.
Comunista in un certo senso rimango. Però forse sono più vicino agli
eretici del Duecento che alla sinistra di oggi. Se uno deve proprio
definire se stesso, mi devo etichettare nel modo meno riduttivo
possibile.
C – Qual è stata la tua formazione politica?
Come arrivi a maturare una visione critica della società?
G – Un ragazzo arrivato dalla Tunisia a
quattordici anni.
C – Tuo papà lavorava in Tunisia.
G – Faceva il fabbro. Arrivato in Italia, è
andato in fabbrica. Siccome non sapeva bene l’italiano, mi portava i
volantini e i giornali di fabbrica. Li leggevamo insieme e lui mi
chiariva i problemi di fabbrica e io quelli d’italiano. Da lì,
attraverso mio padre e i suoi amici, in quel nuovo mondo operaio e
leggendo tutti questi giornali mi sono formato. Dopo vari lavoretti,
sono entrato in fabbrica abbastanza tardi, verso i diciannove anni.
Alla Fiat mi hanno subito sbattuto fuori, sapevano tutto di me.
C – Quindi hai iniziato a far politica presto.
G – Mi sono iscritto alla Fcgi a sedici anni.
Ma dopo pochi mesi frequentavo già i Quaderni rossi. Quelli della Fgci
ci hanno pedinato, me e altri compagni. Eravamo un gruppo di ragazzi,
abbiamo letto dei libri e abbiamo capito che il Pci forse non c’entrava
con il marxismo. Ci siamo incuriositi dell’esperienza dei Quaderni
rossi e siamo andati a sentirli. Lì era facile instaurare rapporti non
burocratici, alla pari. Uno di noi si accorge che quelli del Pci ci
stavano pedinando e poi ci hanno pure convocati. Sono rimasto così
stupito, prima ancora che indignato, che me ne sono andato dalla Fgci
per non rientrarvi mai più. Questi – mi dicevo - sono ancora come la
caricatura borghese che li rappresentava. Altro che via italiana al
socialismo: questi erano fermi alla Russia!
C – Dove hai lavorato dopo la Fiat?
G – In fabbrichette, poi alla Magneti Marelli
a Milano. Poi sono entrato in clandestinità. Poi mi hanno arrestato.
C – Quando sei stato arrestato la prima volta?
G – 18 gennaio 1976.
Giugno 2010
[29 ottobre 2011]
home> interventi/interviste> "Di sconfitta in sconfitta". Intervista a Vincenzo Guagliardo