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Fine della storia e ideologia postmoderna
Fine della storia e ideologia
postmoderna
Marco Gatto
Discorrendo di “fine della storia”, possiamo sin da subito rilevare
l’appartenenza di questa espressione alla congerie di crisi, fini e apocalissi
che caratterizza, ormai da un trentennio, l’estetica e la politica del
postmoderno. Sin dagli anni Settanta, attraverso l’insistenza della French Theory
sulla scomparsa del soggetto – riassunta perfettamente dalla “morte dell’autore”
di Barthes e anticipata dal finale de Le
parole e le cose di Foucault, secondo il quale all’uomo non restava che
scomparire «come sull’orlo del mare un volto di sabbia»1 –, si
assiste a un’efflorescenza di
finismi, che concerne vari oggetti, tra
i quali la memoria, l’impegno, il testo letterario, l’ideologia, l’utopia, e via
dicendo. Al di là delle posizioni politiche espresse in merito, che oscillano
tra l’entusiasmo (lo strutturalismo prima, il pensiero debole dopo) e la critica
(principalmente il neomarxismo), vorremmo soffermarci sul fatto che le numerose
occorrenze segnate dalla parola “fine” sono il diretto sintomo di una condizione
storica più generale, e che potremmo assumere come il riflesso di una svolta più
profonda verificatasi in un certo momento specifico del Novecento. L’estetica
della fine si presenta, in tal senso, come una delle ideologie attive nel
corroborare una nuova fase dell’agire umano, che per comodità riassumiamo come
postmoderna, rimandando a fra poco la problematizzazione di questa etichetta
storica. Volendo anticipare le conclusioni, il finismo verrà qui letto come
l’intima necessità del pensiero di far fronte a un’incapacità pervenuta al
parossismo nella nostra contemporaneità, quella che riguarda il nostro rapporto
con la morte, divenuto privo di qualsiasi simbolicità e caratterizzato dalla
mancata accettazione dei limiti biologici e sociali. Eludendo il rapporto con la
morte e con la propria finitezza, l’uomo contemporaneo si mostra come
l’espressione più diretta di quell’astrazione non-umana che lo domina sin dalla
modernità e che si sostanzia proprio nella sua tendenza illimitata
all’accumulazione: il capitale. Occorre pertanto leggere il finismo come una
costruzione ideologica compensativa, una sorta di illusione che svuota la
concretezza dell’agire umano e della sua finitezza, proiettandolo verso
l’illimitato, sia sul versante della vita pratica, sia sul versante del
desiderio. Vedremo a breve le conseguenze politiche di questa ideologia (qui
intesa nell’accezione di “falsa coscienza”, legata a una strategia epocale ben
definita e gestita da uno specifico modo di produzione).
Desta quantomeno curiosità che l’ideologia della fine della
storia trovi una sua epifania in una data incontrovertibile: il 1989. E appare
ancor più significativo che la sua riproposizione avvenga nei momenti storici in
cui la virtualità della nostra esperienza – tanto declamata a piena voce dai
postmodernisti – cede il passo al realismo spietato della storia, allorché un
evento catastrofico sembra svegliarci dal sonno dell’irrealtà – è avvenuto quasi
dieci anni fa con la caduta delle Twin Towers. Dal momento che Adorno non
sbaglia nel credere che la letteratura e le arti siano il sismografo più
affidabile nel diagnosticare le peculiarità di un momento storico, testimonianza
di questo riflusso della fine sono i recenti romanzi di Don DeLillo, Michel
Houellebecq, Cormac McCarthy, o persino un libro come Gomorra;
prodotti letterari che vanno di pari
passo con il diffondersi di una letteratura distopica2, che elegge a
sua privilegiata rappresentazione la catastrofe, riprendendo così modi e temi
già attivi nel modernismo – del resto, la medesima funzione avevano avuto,
qualche anno prima, i romanzi di Vonnegut o quelli di Doctorow. Ad ogni modo,
quel che importa sottolineare è che la fine della storia trova nel postmoderno
un ancoraggio estetico che ne potenzia l’intento ideologico e che tuttavia ne
svela il carattere fittizio. Come ha mostrato per prima Linda Hutcheon, il
rapporto con la storia, nel postmoderno, è attraversato da una rappresentazione
parodica, in cui ciò che ci precede viene manomesso e posto in un’accozzaglia di
date ed eventi senza alcuna connessione logico-causale3.
Eppure, si diceva, le riflessioni sulla fine della storia restano avvinghiate,
di riflesso, ad alcuni eventi ben precisi. Sul piano intellettuale, il 1992
rappresenta un anno decisivo. Spesso si dimentica che l’ormai noto e abusato
libro di Francis Fukuyama era stato anticipato di tre anni da un testo
altrettanto decisivo, pubblicato dapprima in tedesco e tradotto in inglese solo
due mesi prima dell’uscita de La fine della
storia e l’ultimo uomo – Perry Anderson, in A Zone of Engagement,
lo ha ribadito con forza4. Si tratta
di un libro a firma di Lutz Niethammer, che, riprendendo la nota
espressione di Gehlen, ha scelto di dare alla sua analisi un titolo
eloquente: Posthistoire. Ist die
Geschichte zu Ende? (la traduzione
inglese del sottotitolo recita Has
History Come to an End?)5. L’autore, storico di professione,
liquida come strumentale l’affermazione che il suo oggetto di studio possa
essere divenuto evanescente. È una reazione che troviamo espressa in un libro
che l’anno seguente sarebbe uscito in Francia, Spettri di Marx
di Derrida, in cui il filosofo della decostruzione così scherniva le
argomentazioni espresse dagli apologeti del liberalismo come Fukuyama: «Invece
di cantare l’avvento dell’ideale della democrazia liberale e del mercato
capitalista nell’euforia della fine della storia, invece di celebrare la “fine
delle ideologie” e la fine dei grandi discorsi di emancipazione, non trascuriamo
mai questa evidenza macroscopica, fatta di innumerevoli sofferenza individuali:
nessun progresso consente di ignorare che mai, in cifra assoluta, mai così tanti
uomini, donne e bambini sono stati affamati, asserviti o sterminati sulla terra»6.
A problematizzare sul piano filosofico le asserzioni sulla fine delle ideologie
e delle “grandi narrazioni” di Lyotard e, probabilmente, quelle di Fukuyama –
già espresse in un articolo uscito nell’estate del 1989 (l’anno dell’edizione
tedesca del libro di Niethammer)7 –, è però un testo di Jean
Baudrillard, sempre del 1992, su cui vorremmo soffermarci.
L’illusione della fine o Lo
sciopero degli eventi
rappresenta degnamente le dirette conseguenze delle idee che
Baudrillard aveva esposto nel suo testo più famoso, Lo scambio
simbolico e la morte (1976), nel quale diagnosticava che la scomparsa
della relazione sociale simbolica – che, come aveva dimostrato Mauss, si fondava
su un’economia del dono – aveva condotto, nella società capitalistica, a un deficit
delle forme di scambio, e successivamente a un’assenza vera e propria del lavoro
e della produzione nella società postmoderna. Baudrillard dunque coglieva la
fine dell’economia politica e della produttività proprio a partire da una
simulazione di tutto ciò che aveva contrassegnato la realtà della produzione: al
“modo di produzione” marxiano andava pertanto a sostituirsi, nell’ottica di una
rottura epocale, un “modo di simulazione”, capace di governare, entro
un’astrazione nullificante, tutte le vite. Leggendo il lavoro come un segno fra
i tanti, il filosofo francese era giunto a pensare che, in un’iperrealtà
priva di socialità, l’unica possibilità antagonistica potesse essere
rappresentata da ciò che era stato espulso, come significato, dallo spazio
virtuale postmoderno, privo di limiti e differenziazioni, e al contrario colmo
di immaterialità e di de-identificazioni: vale a dire, la morte. All’indomani
della caduta del muro di Berlino e della prima Guerra del Golfo (1990-1991),
Baudrillard radicalizza questa visione e la proietta su uno sfondo in cui la
virtualità delle esperienze e la crescente mediatizzazione della vita attraverso
il dominio dell’informazione risultano le nuove forme di un totalitarismo più
sottile dei precedenti.
La prima ipotesi formulata ne L’illusione
della fine è che qualunque evento o fatto «politico, storico, culturale,
è dotato di un’energia cinetica che lo strappa al proprio spazio e lo proietta
in un iperspazio in cui perde tutto il suo senso, poiché non tornerà mai
indietro»8; tale iperspazio è, per Baudrillard, quello della rete
informazionale e mediatica, che dissipa, attraverso la propria velocità, la
realtà stessa degli eventi. Siamo costretti a dichiarare la fine della storia
perché essa si muove, nell’orizzonte di una realtà simulata, troppo velocemente,
oltrepassando il limite che imponeva alla storia stessa di non superarsi.
Eppure, in questo movimento troppo rapido per essere percepito, la storia è
vittima, allo stesso tempo, di un rallentamento: neutralizzata nella sua
dinamicità, essa non diventa altro che una massa di dati assorbiti e cooptati
all’interno di una rete, privi cioè di un’energia autonoma. Per dirla con le
parole di Baudrillard, gli «effetti» della storia «vanno accelerando, mentre il
suo senso rallenta, inesorabilmente» (13). Possiamo dunque acquisire, per ora,
che la scomparsa della storia va di pari passo con l’oltrepassamento di un
limite: vale a dire che la sua morte si ottiene nel momento in cui viene negato
il diretto e cosciente accesso all’evento, fuori dalla macchina informazionale
che lo dissipa e lo velocizza. La smisuratezza infinita produce la scomparsa di
ciò che aspira a comprendere o rappresentare, con il risultato di simulare,
attraverso il ricorso a una falsa distanza critica, l’oggetto storico di
conoscenza. E, più radicalmente, secondo Baudrillard, si tratta di una
simulazione tanto pervasiva da rendere impossibile il ritorno all’originale: ci
muoviamo, insomma, all’interno di una realtà costituita essenzialmente da
simulacri, da copie dalle quali è stato espunto il dato materiale originario,
entro cui poter condividere il senso. Per paradosso, nell’iperrealtà non c’è
nulla di vero; e tale assenza di verità diventa ancor più radicalmente pervasiva
nel momento in cui nasce il sospetto che lo stesso lavoro di demistificazione e
critica della realtà non riesca a raggiungere una meta di scoperchiamento
effettivo del dato materiale su cui la macchina informazionale ha agito per
svuotarne la concretezza – ad ogni modo, siamo immersi nella possibile illusione
che sia la storia stessa a esibirsi in quanto simulazione. Scrive il filosofo
francese: «La scomparsa della storia è del medesimo ordine [della scomparsa del
suono, superata una certa soglia]: anche qui, abbiamo superato il limite in cui,
a forza di sofisticazione evemenenziale e informazionale, la storia cessa di
esistere in quanto tale» (15); ed è ciò che permette a Baudrillard di affermare,
con la consueta radicalità che gli è propria, una delle ragioni profonde della
rottura tra moderno e postmoderno: l’uscire dalla storia (vale a dire dalla
modernità, intesa come momento in cui gli eventi storici possono essere compresi
nella loro catena logico-causale) e l’entrare nella simulazione (nella
postmodernità come momento contrastivo di dissoluzione delle istanze moderne)
costituiscono «la conseguenza del fatto che la storia stessa non era in fondo
altro che un immenso modello di simulazione» (17).
A quest’altezza, la fine della storia diventa la fine della linearità – e,
insieme ad essa, la fine della modernità (per Baudrillard non si dà passaggio
indolore tra moderno e postmoderno, piuttosto una sospensione radicale di ciò
che ci ha preceduto). A breve vedremo come ciò diventerà la fine della filosofia
stessa in quanto scomparsa della critica – e la posizione del filosofo
Baudrillard rispetto al suo oggetto di studio diventa fondamentale. Occorre però
soffermarsi su un dato: se la linea su cui tracciamo la storia non esiste,
diventa inefficace e insensata, a non esistere è pure la dimensione che rende
possibile il pensiero del futuro e della fine. Paradossalmente, ciò che
chiamiamo fine altro non è che un processo di reversione, il raggiungimento di
un limite oltre il quale si può solo regredire. È il momento in cui la modernità
raggiunge, senza oltrepassarlo, il suo culmine speculativo (il punto, si
potrebbe dire, in cui Kojève aveva visto esemplificare l’esaustività del sistema
hegeliano) per ritornare su se stessa sotto forma di tracce disintegrate, nella
maniera in cui noi vi accediamo nelle sembianze di frantumi che talvolta
rientrano nel tempo presente, come veri e propri revival.
Tale apparizione, come ha mostrato Fredric Jameson, altro non è che un “tropo”
della postmodernità, con la sua capacità di ripresentare istanze moderne in
forma di pastiche, solo per relativizzarne – con un intento politico sempre
celato – le inattuali potenzialità sovversive9. Ciò che costituisce
l’ideologia che una simile visione si porta dietro è, per dirla con
l’espressione di Appadurai, una polverizzazione della
modernità, a causa della quale ci è negato l’accesso al passato, se non
in una forma regressiva e parodistica. Ciò che storicamente è alle nostre spalle
diventa non solo inaccessibile ma inesistente e inefficace perché ha perso la
sua «violenza evemenenziale» (24). Così scrive Baudrillard per esemplificare
questa nuova condizione (che per i postmodernisti rappresenta un tratto
ontologico e linguistico10, ma che qui si vorrebbe dimostrare – come
del resto lo stesso filosofo francese ammette – essere primariamente ideologica
e storica): «Se c’è un tratto distintivo dell’evento, di ciò che fa evento e
quindi ha valore di storia, è il suo essere irreversibile, è il fatto che
qualcosa in esso eccede sempre il senso e l’interpretazione. Ora, è esattamente
il contrario che vediamo oggi: tutto ciò che è successo in questo secolo, in
termini di progresso, di liberazione, di rivoluzione, di violenza, è sul punto
di essere sottoposto a revisione, nel senso buono» (25) – vale a dire nel senso
di una revisione non ideologica, ma regressiva, storica. Tanto che il problema,
correttamente, si gioca sul piano dei limiti di una condizione storica, salvo
poi consistere, come vedremo, sulla possibilità effettiva di leggere il nostro
presente come estremizzazione ideologica di quegli elementi che hanno dominato e
reso tale la modernità. Si chiede dunque Baudrillard: «il movimento della
modernità è reversibile? E questa reversione è per sua parte irreversibile? Sin
dove può arrivare questa forma retrospettiva, questo sogno di fine millennio?
Non c’è forse un “muro della storia”, analogo a quello del suono o della
velocità, e un muro che la storia non potrebbe superare nel suo movimento palinodico?» (ibidem).
Probabilmente queste domande diventano retoriche se consideriamo, con
Baudrillard, il rovesciamento a cui la postmodernità sottopone l’accessibilità
agli eventi storici. La macchina dell’informazione produce una “perturbazione”:
non è più l’evento a generare l’informazione, bensì il contrario. A essere elisa
è la coscienza critica, «il lavoro del negativo» (28), delle mediazioni che si
attuano nel momento della rappresentazione e della comprensione – e qui il
filosofo trova un parallelo nella scomparsa del lavoro in seno alla produzione
capitalistica postmoderna, dal momento che è il capitale ora a produrre lavoro,
in una specie, come ha visto André Gorz, immateriale, e secondo una logica che
agisce persino nello spossessamento capitalistico dei corpi, ora chiamati a
prodursi e a spendersi in un’inesausta promozione del Sé e delle proprie
conoscenze attraverso l’immagine (che, ricordiamolo, rappresenta per Guy Debord
l’ultimo stadio della reificazione)11.
La fine della storia è pertanto la fine della nostra razionalità di fronte
all’evento, la scomparsa di una “ragione storica” che si pone in antitesi e in
mediazione rispetto a ciò che accade. Gli eventi non sono più inseriti in un
circuito ermeneutico, non eccedono più rispetto a un significato univoco; se ne
stanno, al contrario, in solitudine, senza significare nulla; si ha
l’impressione, scrive Baudrillard, «che vadano imprevedibilmente alla deriva
verso il loro punto di fuga – il vuoto periferico dei media»
(33). Ciò è ovviamente il segno di una condizione storica in cui versa il
soggetto, che paradossalmente non solo si spinge a dover certificare,
giocoforza, la scomparsa della storia, ma che è costretto ad alimentarne la sua
fine contribuendo all’accumulazione di segni senza referenza.
Ci illudiamo, insomma, di dare un significato politico e storico a eventi o
dati, ma, in fondo, non facciamo altro che “gestire” la fine della storia: siamo
responsabili, in quanto individui del tardo capitalismo, di un’accumulazione
referenziale fasulla, che è espressione di quell’accumulazione permanente che
riduce il soggetto a immagine attraverso lo svuotamento dell’esperienza storica
e materiale. In questo senso, il revisionismo diventa semplicemente
un’operazione intellettuale che, in apparenza costruendo un nuovo significato,
in sostanza non fa altro che allontanare gli eventi, dispensandoci dalla loro
effettiva realizzazione: il secolo che Alain Badiou ha interpretato come quello
della “passione del reale”, si scopre, in Baudrillard, intellettualizzato,
pronto a degradare, sotto le forme di una falsa rappresentazione culturale e
intellettuale, la realtà. Il nostro rapporto col passato è fondamentalmente
costituito da un atteggiamento necrofilo, nella sua tendenza a esaltare, col
culto delle immagini, ciò che ci ha preceduto. Produce una nuova memoria
sintetica che annichila gli elementi di sovversione sociale, relegando gli
eventi alla loro non-rapportabilità col presente. Non possiamo altro che dar
vita a un’anticipazione negativa: preannunciamo un futuro che non sarà nuovo,
sulla scorta della lezione del passato, e neppure prestigioso, ma soltanto una
riproduzione parodica di ciò che è già stato, ma ora svuotato della sua
materialità. È il «confort intellettuale post-moderno» (38), un sinonimo
dell’incapacità dell’intellettuale contemporaneo di riempire di contenuti la
prassi politica, come se fossimo condannati, in un diniego assoluto dell’azione,
a una «retrospettiva infinita di tutto ciò che ci ha preceduti» (41). Quel che
rimane all’intellettuale postmoderno – o, più giustamente, ciò che
l’intellettuale, sposando la causa del postmoderno, ritiene che gli sa concesso
– è un tentativo di riscrivere la storia attraverso la retorica della propria
specializzazione, concependo così il passato come una pattumiera (l’immagine è
baudrillardiana) in cui saccheggiare a suo piacimento anticaglie e stilemi, per
assemblarli in un nuovo
bricolage culturale che risponde al
motto “l’essere è il linguaggio” o “non esistono fatti ma solo interpretazioni”.
In questo contesto è stato possibile, ad esempio, un libro come quello di Hayden
White,
Metahistory, che interroga la storia
attraverso le modalità narrative e retoriche che l’hanno tramandata.
L’intellettuale postmoderno, allora, gioca un ruolo deciso dalla sua stessa
condizione storica di individuo passivo – può forse solo diagnosticare, come del
resto lo stesso Baudrillard sembra suggerire, ma non può trasformare la sua
comprensione in opposizione. È, d’altra parte, l’informazione stessa, entro cui
rientra il lavoro intellettuale, a incarnarsi oggi in una sorta di «produzione
escremenziale dell’evento come rifiuto […]. Nulla si oppone a questa regola
implacabile per la quale il virtuale deve produrre il reale come rifiuto» (109).
Il punto è che questa produzione è illimitata così com’è illimitata
l’accumulazione del capitale che spossessa lo stesso soggetto pensante in uno
spazio che non conosce più frontiere.
Ma l’acquisizione fondamentale del testo di Baudrillard è la connessione che
egli trova, come anticipato, tra la fine della storia e la trasformazione del
desiderio d’immortalità. È su questa intuizione che si struttura il significato
politico della sua proposta e la possibilità di osservare come in Baudrillard
lavori, per quanto da lui stesso negata, una necessaria pretesa demistificante.
Ciò che il soggetto postmoderno – già di per sé frammentato, decostruito,
liquido – non sente più come propria è un’idea di immortalità che implica la
trascendenza, e dunque il superamento, della fine, di un limite. Al contrario,
ciò che oggi desideriamo maggiormente è la realizzazione immediata
dell’immortalità – «noi vogliamo quell’immortalità hic et
nunc, quell’aldilà della fine in tempo reale, senza aver risolto il
problema della fine» (123). Siamo pertanto incapaci, ci sta dicendo
Baudrillard, di accettare il carattere finito della nostra esistenza, e
concepiamo come assurdo che possa esistere una barriera oltre la quale
soprassedere alla fine. Insomma, quel che caratterizza la postmodernità è il
rifiuto di simbolizzare la morte, vale a dire prenderne coscienza attraverso la
sua rappresentazione – e in questo senso potremmo dire che la morte, nell’epoca
della crisi del Simbolico, viene ricacciata nel registro dell’Immaginario, per
utilizzare i termini di Lacan. Eludendo l’operazione simbolica della morte – che
nasce dall’insopportabilità del limite e, dunque, dell’etica, e dalla
trasformazione dell’individuo in una merce che, per promuoversi e spendersi,
deve dilatare la propria soggettività mediante un’espansione della propria
immagine –, nessuna fine è più concepibile: eludendo il limite, ci portiamo
direttamente in un aldilà storico che non conosce la scomparsa, e dunque non può
essere rappresentato come “post-storia”. L’immortalità stessa, in quanto
concetto che incorpora l’idea di un superamento, cessa d’avere un significato.
Non esiste più una mediazione simbolica in grado di educare l’uomo alla morte
perché tutto, senza alcun contrasto, si ottiene immediatamente, ogni desiderio
viene goduto ancor prima di essere soddisfatto. È sulla scorta di questo
ragionamento che Baudrillard può affermare che «La scomparsa dei limiti
dell’umano e dell’inumano, dei limiti della vita e della morte ha fatto del
nostro stesso mondo un retromondo – questa volta definitivo, in quanto non ha
più alternativa in un mondo reale, perché è il mondo reale. È questo mondo a
esser divenuto il luogo della superstizione totale» (136). Caratterizzato da una
«coazione all’immortalità» (137), il soggetto postmoderno «non dispone più della
fine» (138), non riesce più ad accettare consapevolmente – perché a mancare è la
negazione, la mediazione – la sua finitezza.
L’abolizione della morte è, per Baudrillard, l’altra faccia dell’eccedenza
dell’Io, la sua totale culturizzazione, che ha come risultato la cancellazione
dei limiti del biologico. Ma dietro questo allontanamento da un’etica del limite
può leggersi una mancanza, una compensazione libidica cui soggiace una prigionia
sentita come insopportabile: essa consiste nell’assenza di un limite che sappia
regolamentare i rapporti umani e la stessa libertà, dal momento che «la
liberazione incondizionata è la via più sicura di dissuasione della libertà»,
essendo quest’ultima una «forma critica» (145). Quando Adorno afferma che la
libertà è sempre intrecciata alla non-libertà 12, non vuol altro che
suggerire aforisticamente quel che Baudrillard più estesamente ha spiegato
essere «un delirio di auto-appropriazione», che rappresenta, forse, la forma
postmoderna del superomismo nicciano. Quasi per paradosso, l’uomo contemporaneo
non resiste alla tentazione di applicare la categoria di “fine” alla fine
stessa.
Ora, la diagnosi di Baudrillard, che intreccia correttamente la fine della
storia con l’importanza di una misura limitativa capace di contrastare
l’eccedenza del soggetto e la sua coazione all’immortalità, ha delle conseguenze
sul piano etico, in particolar modo se la accostiamo al problema del
riconoscimento. Se una tale diagnosi rischia di cartografare il presente senza
contrastarlo sul piano dialettico, è pur vero che essa rappresenta una forma di
critica immanente al sistema della mercificazione della vita in forma
d’immagine. In particolare, essa sembra suggerirci la distanza che separa il
pensiero di Baudrillard – quasi freudiano nella sua cura a inserire il problema
della morte sullo scacchiere delle questioni – dalle acquisizioni teoriche
(questa volta antifreudiane) di un libro che si colloca nel contesto francese
del post-’68, vale a dire L’Anti-Edipo
di Deleuze e Guattari (1972). È difatti attraverso la critica serrata che i due
filosofi muovono alla psicanalisi e al “riduzionismo edipico” operato da Freud
che si può giungere alla costruzione di un apparato concettuale aderente alla
liquidazione del concetto di fine, capace, da un lato, di adeguarsi
perfettamente allo stato presente delle cose esistenti, e dall’altro, di
dimostrare come la posizione di Baudrillard sia contrastiva rispetto a
quest’ultimo. Concependo l’essere come un’illimitata produzione di energia
vitale e di desiderio, e annettendolo a un processo di produzione che non deve
essere bloccato da alcun limite, Deleuze e Guattari accordano un valore positivo
all’accumulazione e additano il limite come causa di un regime repressivo che
conduce al soffocamento delle perenni capacità desideranti. Esemplificano,
ovvero, uno spazio in cui i soggetti si intrecciano fra di loro senza la
possibilità di veder riconosciuta la propria soggettività e la propria libertà
di agire, mossi solo e soltanto dal proprio superomismo libidinale e dalla loro
tensione al soddisfacimento del desiderio. Nel far questo, Deleuze e Guattari
non si accorgono di riprodurre le istanze stesse del meccanismo capitalistico al
quale vorrebbero opporsi, nel senso che il capitale funziona proprio sulla
scorta di questa edonistica vitalità illimitata (che, per i due autori, la
psicanalisi freudiana, come un macigno, soffocherebbe), conquistata abbattendo
completamente il limite, la fine. Il piano immanente verso cui, spinozianamente,
i due filosofi tendono è però conquistato al prezzo di appiattire l’essere sulla
natura: l’uomo, senza i limiti imposti dalla legge, si comporta come una bruta
forza naturale, cosicché la produzione desiderante non ha né soggetto né
intenzione, ma si traduce in una generica lotta contro le limitazioni imposte
dall’esterno13.
Questa omologia tra la decostruzione del soggetto su un piano immanentistico e
l’aspirazione illimitata del capitale ci illumina sulla posizione del filosofo
rispetto alla presunta fine della filosofia. Baudrillard è un pensatore
radicale, e la sua radicalità va difesa al costo delle sue eccessività
teoretiche. Quando pare affermare l’inevitabilità di una fine della storia, in
realtà ci sta dicendo che si tratta di una macchinazione, di un’illusione
imposta dalla postmodernità. Cosicché rimane aperta la domanda se sia possibile
mantenere attiva un’istanza critica all’interno di un tempo che costringe gli
uomini al decadimento delle mediazioni e dei contrasti. Va da sé che è proprio
dal recupero della nozione di limite che si può riconoscere, attraverso
Baudrillard, la necessità di una critica al vitalismo edonistico della nostra
attuale società, al suo carattere agonistico e performativo, che si realizza
secondo lo spirito accumulativo del capitale.
Converrà ora esaminare la proposta di Jameson, che ha ammesso, in più sedi, di
aver utilizzato le diagnosi di Baudrillard per giungere a un’interpretazione
dialettica della postmodernità. Jameson, com’è noto, è di allineamento marxista.
La sua analisi del postmoderno si fonda sulla necessità, colta attraverso una
pesante influenza althusseriana, di studiare i rapporti tra l’emersione di un
nuovo modo di produzione e le sue espressioni ideologico-sovrastrutturali,
pensate non semplicemente come dipendenti dall’infrastruttura economica ma come
parti di un “tutto strutturato” entro cui esse trovano la loro autonomia di vita
e sviluppo. Il postmodernismo diventa, pertanto, la “dominante culturale” di uno
specifico modo di produzione, quello tardo capitalistico, che segna il passaggio
dall’imperialismo (secondo la definizione di Lenin) all’immaterialità della
finanza e della gestione multinazionale. La scansione dei modi di produzione è
dettata dall’influenza che su Jameson esercita un libro di Ernest Mandel,
intitolato appunto Late Capitalism14.
La novità dell’impostazione jamesoniana consiste, dunque, nel concepire il
postmodernismo non come uno stile fra i tanti, bensì come una “logica culturale”
afferente a una modificazione più profonda, che concerne i tempi e modi della
produzione: intorno agli anni Cinquanta, nel mondo occidentale, e
particolarmente negli Stati Uniti, una nuova sensibilità spazio-temporale e un
mutamento del sensorio suggerisce, secondo Jameson, una trasformazione della
società e dei rapporti fra le classi, dettata sostanzialmente dai nuovi criteri
secondo cui il capitale sceglie di organizzarsi: fra questi, un’accentuata
immaterialità ed evanescenza dell’esperienza; l’abolizione di qualsiasi distanza
critica; la frammentazione del soggetto, concepito ora come agente passivo in
uno spazio ipertrofico; la diffusione della cultura in ogni sfera dell’attività
umana, tanto da far pensare a una “seconda natura” di stampo culturale:
qualsiasi prodotto culturale è immerso in una rete di rapporti economici che ne
svuota completamente il carattere “auratico”, a conferma di un’accentuazione
estremistica di quei postulati di pianificazione sociale e creazione di una
«semicultura socializzata»15 che Adorno aveva intravisto attivi nel
sorgere dell’industria culturale16.
Seguendo Althusser e i suoi seguaci – secondo una costante che sarà centrale nel
marxismo culturale, influenzato più dagli strutturalisti francesi che da Marx
stesso –, Jameson può affermare che ciascun modo di produzione, pur vivendo fasi
di coesistenza con altre opzioni infrastrutturali, produce una sua propria
ideologia della temporalità. Quella del tardo capitalismo, che obbedisce a
un’ideologia postmoderna, è una temporalità repressa dalla persistenza di una
spazialità sentita come totalizzante. Come abbiamo già visto discorrendo di
Baudrillard, la storia vive un’ambiguità di fondo, dipendente dal suo essere
immersa nel movimento perenne della macchina informazionale e allo stesso tempo
neutralizzata nella staticità del suo valore evenemenziale, ormai reso passivo e
del tutto inesistente: per Jameson la contrapposizione binaria fra stasi e
movimento (entrambi illusori) rappresenta una delle formazioni ideologiche del
tardo capitalismo – la storia diventa la sede di un’antinomia in cui stasi e
movimento, tempo e spazio, sono sentiti come compresenti. La scomparsa degli
eventi deve essere letta, pertanto, «come la forma finale di un paradosso
relativo alla temporalità […]: vale a dire che una retorica del cambiamento
assoluto (o della “rivoluzione permanente”, in un senso ormai abusato) è, per il
postmoderno, non più soddisfacente rispetto al linguaggio largamente appetibile
dell’identità assoluta»17, e dunque della stasi perenne. Ma, dalla
posizione di privilegio che una visione “moderna” della storia come catena
logico-causale accorda al cambiamento, l’elemento di rottura e di passaggio a
una nuova dimensione del sentire storico è caratterizzato dalla repressione che
lo spazio postmoderno esercita sul tempo. È come se uno dei due poli dialettici
della forma binaria spazio/tempo avesse più peso. Ed è forse questo il motivo
per cui l’abolizione del passato e del futuro nel postmoderno assume l’immagine
di un “eterno presente”. Possiamo dunque formulare una prima ipotesi, seguendo Jameson e andando oltre le sue diagnosi (che non superano la proposta di una
mappa cognitiva come strumento di orientamento del soggetto): l’immagine della
fine della storia è il riflesso di un’ideologia dominante, che corrisponde a una
volontà politica e che si sostanzia nella netta supremazia della stasi sul
movimento, all’interno di un’illusoria dialettica paritaria. Ammettere che la
non-storia sia prevalente sull’incedere degli eventi significa spazializzare la
temporalità, renderla inefficace per occultare il potenziale rivoluzionario del
procedere storico; e significa, inoltre, annichilire le differenze, le
alternative, concependo lo spazio come modello unitario e totalizzante, in cui,
come nel piano deleuziano di immanenza, ciascun soggetto è intrecciato, senza
distinzione, uno con l’altro, rendendo impossibile il riconoscimento della
propria soggettività. Ciò equivale, nel tempo dell’espansione totalizzante del
capitale, all’ammissione – propria di Fukuyama – che il liberalismo sia l’unica
opportunità politica dopo la Guerra Fredda e che il capitalismo rappresenti la
sola opzione economica percorribile. Abbattere la temporalità significa
sostenere una nuova forma di totalitarismo spaziale, un’idea di mondo che è
orizzontale ed eternamente contemporanea a se stessa. In una formula: l’unicità
della storia (che è sinonimo di fine della storia) è l’unicità dell’impero
economico americano.
Ora, i rischi di una forma ideologica risiedono nel suo stesso proporsi come
strategia di chiusura, come totalità. L’occultamento dell’alternativa storica è
dunque funzionale all’imposizione di un’idea di realtà in cui si intende
proporre un solo modello di espansione sociale ed economica. Ecco perché occorre
insistere oggi sulla visione critica di un capitalismo che si presenta come
cieca volontà totalizzante, come soggetto non-antropomorfo il cui unico scopo è
quello di coprire interamente,
attraverso un movimento di svuotamento del concreto da parte dell’astratto18, la realtà intera,
mostrandosi in
qualità di totalità totalizzante, che mira cioè a totalizzarsi, a
togliersi (secondo una pulsione di
morte che gli è propria). Ma l’essere totalizzante implica l’esistenza di una
zona di resistenza, di uno spazio che produce la mancata totalizzazione del
capitale – è lo spazio in cui, attraverso la volontà diagnostica del soggetto,
la spazializzazione postmoderna viene convertita in illusoria macchinazione ai
danni della verticalità. L’incedere del capitale verso l’appropriazione
accumulativa di ciò che non è ancora asservito alle sue logiche rappresenta il
tentativo di elidere la coscienza critica dalle possibilità sovversive del
soggetto. È ovvio che una simile visione rifiuti il postulato foucaultiano
secondo cui può esistere un potere che sia nettamente pervasivo e non lasci
spazi di manovra al soggetto; né è accettabile l’idea secondo cui i “discorsi”
esercitino una violenza, un’imposizione tale da spossessare completamente la
volontà dei singoli19. D’altra parte, la possibilità stessa di
parlare del potere implica l’esistenza di una distanza critica dall’oggetto di
analisi.
Ad ogni modo, seguendo Jameson, abbiamo visto come l’ideologizzazione della
storia corrisponda a un disegno politico. Occorre però aggiungere un ulteriore
elemento, che è comune al destino di altre ideologie postmoderne (come la fine
stessa delle ideologie, o la fine dei grandi racconti, che nel Lyotard della Condizione
postmoderna trova un suo risultato nell’accettazione passiva della
specializzazione e della divisione delle competenze): l’idea, cioè, che il
postmoderno si fondi su una logica aporetica, che lascia convivere le
opposizioni non ammettendo una possibile trascendenza sintetica. Ad esempio,
l’abbattimento dei valori verticali postula un inganno di posizionamento del
soggetto stesso. Per teorizzare la fine, io devo poter osservare una fine.
L’osservazione di una fine agisce come compensazione del mio carattere di
finitezza. La fine è un sintomo della “crisi di presenza” del soggetto, una
reazione allo spossessamento ad esso imposto in un pervadente “orizzonte del
negativo”, per riprendere il lessico di Ernesto de Martino. Il soggetto
postmoderno vive dunque questa condizione aporetica di scissione tra la
partecipazione effettiva allo spazio in cui si muove e l’impossibilità di
accedere a un punto di vista condiviso che superi la sua condizione di individuo
frammentato. Illudendosi di accedere a una libertà incondizionata, in realtà il
soggetto è prigioniero della sua medesima inattività. Ciò spiega come i
postmodernisti più convinti – ad esempio, Vattimo e i debolisti, che si
collocano su una linea nicciano-heideggeriana – intravedano nella “de-realizzazione” e nell’esplosione di uno spazio virtuale illimitato una sorta
di liberazione estetizzante dell’individuo, ora compiutamente libero di muoversi
all’interno di un network sociale
“trasparente”20.
In una perdurante aporeticità, l’abbattimento delle istanze moderne diviene solo
illusoriamente un’istanza rivoluzionaria, in quanto adeguamento in realtà
reazionario a un tempo che distrugge la funzione politica del soggetto,
annegandola in una comunità indistinta. La rivoluzione è essa stessa parte
attiva di una macchinazione ideologica: e ciò certifica come le persistenze di
certo modernismo siano da imputare alle procedure di annichilimento e di
de-realizzazione cui esse incorrono. Da quest’altezza, è possibile rilevare
nuovamente come le istanze ribellistiche e antiumanistiche delle “macchine
desideranti” di Deleuze e Guattari siano la filosofia stessa del tempo presente,
diventino inconsapevolmente la sua armatura ideologica. Ciò perché una filosofia
antidialettica finisce per elidere il momento critico e il momento della
mediazione, appiattendosi supinamente sul tempo storico, senza che il suo valore
gnoseologico venga giocato, contrastivamente, sulla relazione tra pensiero e
realtà. Nel tempo della fine della storia, la compresenza di opposte visioni del
mondo, svuotate del loro carattere politico attraverso la virtualizzazione
dell’esperienza, produce la nostra distanza dall’idea di cambiamento – la nostra
tendenza alla stabilità altro non è che un rifiuto del movimento, senza la
coscienza che la precarietà imposta al soggetto dal tardo capitalismo si nutre
di quel movimento stesso, lo domina a suo piacimento.
Nel suo libro sulle Illusioni del
postmodernismo, il critico letterario
inglese Terry Eagleton coglie perfettamente questo punto. Vale la pena
citarlo per esteso:
[…] l’elogio che Marx fa del capitalismo è sicuramente ben fondato. Il
capitalismo, come egli non si stanca di dire, è il sistema sociale più dinamico,
rivoluzionario e trasgressivo che la storia abbia conosciuto, un sistema che
liquefa le barriere, decostruisce le opposizioni, accomuna promiscuamente forme
di vita diverse e scatena un’infinità di desideri. Caratterizzato dalla
superfluità e dall’eccesso, costantemente travalicante la misura, è un modo di
produzione che genere una ricchezza prima mai sognata di energie umane, portando
l’individuo a un culmine di sofisticata complessità. È il capitalismo, massima
accumulazione di forze produttive mai vista nella storia, a rendere realizzabile
per la prima volta il sogno di un ordinamento sociale libero dal bisogno e dalla
fatica. Primo modo di produzione veramente globale, il capitalismo abbatte ogni
ostacolo particolaristico alla comunicazione umana e getta le basi di una
comunità internazionale […].
Tutto ciò, come sappiamo, viene ottenuto a un costo spaventoso. Questa
liberazione dinamica ed esuberante di potenziale è anche una lunga indicibile
tragedia umana, in cui le facoltà vengono paralizzate e sperperate, vite
schiacciate e distrutte, e la grande maggioranza di uomini e donne è condannata
a una fatica infruttuosa a beneficio di pochi. Il capitalismo è certissimamente
un sistema progressista, e altrettanto certamente non lo è affatto. […] Il
capitalismo, insomma, decostruisce da sé la differenza tra sistema e
trasgressione, sia pure in modo parziale; ed è il linguaggio del materialismo
storico che tradizionalmente ha cercato di cogliere questo insieme quasi
impensabile di aporie. L’idea di un sistema che la sua stessa logica mette in
contrasto con sé medesimo […]21.
Il capitalismo si presenta, insomma, come un’astrazione sistematica che riesce a
manifestarsi attraverso la compresenza degli opposti, senza che questa diventi
problematica. Il capitale riesce a essere, nel suo sforzo di totalizzazione, anche
le sue contraddizioni, perché in ciò risiede la sua forza, nell’assorbire
continuamente la negazione, mutandola in un suo stesso prodotto. Come accade per
la fine, l’orizzonte del limite diventa una negazione precostituita all’interno
di una dialettica che utilizza il limite solo per mostrarne la sua inefficienza.
La fine della storia è dunque una formazione ideologica il cui apparato
concettuale contrastivo risulta già inserito e inscritto in una logica di
neutralizzazione delle negazioni. Ciò che contraddice e contrasta viene
neutralizzato in quanto negatività che appartiene a ciò che essa stessa nega. In
tal caso, l’approccio critico al sistema rischia di diventare, ogni qualvolta
viene assorbito e neutralizzato, non più una negazione della
negazione, bensì una
negazione nella negazione.
Sulla scorta di ciò, possiamo spingerci ad affermare che il
capitale lavora dialetticamente alla neutralizzazione della sua stessa fine,
ponendosi come illimitato e immortale, nel senso, come voleva Baudrillard, che
il limite viene svuotato del suo valore contrastivo e sussiste come semplice
significante. D’altra parte, la neutralizzazione del limite è sentita come
prerequisito dell’accumulazione di valore e come garanzia di un permanente
successo del valore di scambio sul valore d’uso. Ma inscrivere la fine
all’interno di una filosofia della storia come successione di modi di produzione
significa evitare l’acquisizione di un’ottica della rottura epocale. Piuttosto,
la demistificazione dell’ideologia finistica sta a suggerirci – come Marx stesso
scrive a proposito dell’accumulazione originaria del capitale nei Grundrisse
– che la postmodernità deve essere letta in continuità con la dissipazione della
modernità, laddove la prima si colloca a uno stadio più progredito di
totalizzazione del capitale (come modo di produzione che influenza la vita
sociale) e vede l’emergere di elementi che hanno posto, in precedenza, le
ragioni stesse del loro essere, vale a dire i presupposti per i quali ora tali
elementi sono posti: è la stessa logica, per riprendere appunto le parole dei Lineamenti
marxiani, che anima il divenire del capitale, secondo cui tali «presupposti, che
all’origine si presentavano come condizioni del suo divenire – e perciò non
potevano ancora scaturire dalla sua azione come capitale –, si presentano ora
come risultati della sua stessa realizzazione, della sua realtà, posti da esso – non
come condizioni della sua nascita, ma come risultati della sua
esistenza»22. In questo movimento, per il quale ciò che è
posto diventa un nuovo presupposto per il divenire, non c’è spazio per una fine
non-dialettica, priva di superamenti. Dobbiamo forse iniziare, per restituire
senso storico alla nostra narrazione, a interrogarci sulla funzione di una
strategia ideologica che innalza la fine a categoria distintiva del nostro
tempo, forse solo per giustificare una rottura rispetto al passato, sentito
ormai come irrappresentabile e lontano. Una tale rottura oscilla tra la
negazione del futuro e la necessità di legittimare l’eterno presente: per
demistificarla occorre ripensare la storia in via dialettica, cogliendo nel
finismo postmoderno un tentativo di occultare la continuità storica, la sola che
può restituire all’uomo stesso il carattere finito della sua esperienza.
note
1. Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane [1966], Milano, Rizzoli, 19984, p. 414.
2. Per una teoria della letteratura distopica si ricorra a Francesco Muzzioli, Scritture della catastrofe, Roma, Meltemi, 2007.
3. Cfr. Linda Hutcheon, The Politics of Postmodernism, London & New York, Routledge, 1989, capp. 3 e 4.
4. Cfr. l’ultimo capitolo di Perry Anderson, A Zone of Engagement, London & New York, 1992, purtroppo estromesso dalla traduzione italiana uscita nel 1995, Al fuoco dell’impegno (Milano, Il Saggiatore).
5. Lutz Niethammer, Posthistoire. Ist die Geschichte zu Ende?, Hamburg, Reinbek, 1989. La traduzione inglese citata nel testo è uscita presso Verso nel 1992.
6. Jacques Derrida, Gli spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Milano, Raffaello Cortina, 1993, pp. 110-111. Lo nota e cita Terry Eagleton nel suo Le illusioni del postmodernismo [1996], Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 154 n. 3.
7. Francis Fukuyama, The End of History, in «The National Interest», n. 16, summer 1989, pp. 3-18.
8. Jean Baudrillard, L’illusione della fine o Lo sciopero degli eventi [1992], Milano, Anabasi, 1993, p. 10. D’ora in poi il numero di pagina è presente direttamente nel testo.
9. Cfr. Fredric Jameson, Una modernità singolare. Saggio sull’ontologia del presente [2002], Milano, Sansoni, 2004.
10. Si ricorderà, come nota Romano Luperini, che l’ideologia dominante del postmoderno è la riduzione ontologica della realtà a mero dato linguistico. Lo conferma, peraltro, la nozione stessa di pastiche, che spiega bene l’approccio postmodernistico al passato, ma finisce per rappresentare in modo troppo fedele lo Zeitgeist postmoderno tanto da giustificarlo, poiché riduce gli eventi a semplici artifici linguistici da assemblare. Cfr. Romano Luperini, L’allegoria del moderno. Saggi sull’allegorismo come forma artistica del moderno e come metodo di conoscenza, Roma, Editori Riuniti, 1990.
11. Si veda André Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale [2003], Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
12. Theodor W. Adorno, Dialettica negativa [1966], Torino, Einaudi, 1970, p. 238. Ma è forse più significativo un passo tratto da Minima moralia: «All’interno della società repressiva, l’emancipazione dell’individuo non va senz’altro a suo vantaggio. La libertà dalla società lo spoglia della forza di essere libero» (Minima moralia. Meditazioni della vita offesa [1951], Torino, Einaudi, 19943, p. 176).
13. Cfr. pure Gilles Deleuze-Félix Guattari, Che cos’è la filosofia? [1991], Torino, Einaudi, 1996.
14. Ernest Mandel, Late Capitalism [1972], London & New York, Verso, 1975.
15. Theodor W. Adorno, Teoria della semicultura (1959), in Idem, Scritti sociologici [1972], Einaudi, Torino, 1976, p. 86.
16. Si veda il primo capitolo di Fredric Jameson, Postmodernismo. Ovvero, la logica culturale del tardo capitalismo [1991], Roma, Fazi, 2007; cfr. dello stesso Postmodernism and Consumer Society, in Idem, The Cultural Turn. Selected Writings on the Postmodern, 1983-1998, London & New York, 1998, pp. 1-20.
17. Ivi, p. 60 (trad. nostra).
18. Come sostiene ampiamente Roberto Finelli in Alcune tesi su astrazione, capitalismo e postmodernità in Idem, Tra moderno e postmoderno. Saggi di filosofia sociale e di etica del riconoscimento, Lecce, Pensa Multimedia, 2005.
19. Cfr. Michel Foucault, L’ordine del discorso [1971], Torino, Einaudi, 1972, p. 27.
20. Si vedano i seguenti testi di Gianni Vattimo: La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna , Milano, Garzanti, 1985; La società trasparente, Milano, Garzanti, 1989.
21. Terry Eagleton, Le illusioni del postmodernismo, cit., pp. 75-76.
22. Karl
Marx, Lineamenti fondamentali della critica
dell’economia politica (Grundrisse) [1857-58], Firenze,
La Nuova Italia, 1997, vol. 2, pp. 80-91.
[25 ottobre 2010]
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