home>interventi/interviste> Ancora su Intellettuali e vittime.

Ancora su Intellettuali e vittime. 

Gabriele Fichera



A partire dalla lettura del saggio di Roberto Talamo su intellettuali e “vittime”, e sulla base dell’intervento di Alessandra Reccia che ne è immediatamente scaturito, vorrei provare ad articolare un brevissimo ragionamento su almeno un punto della questione. Quello che mi sento di dire è che dissento abbastanza dall'idea che l'intellettuale non possa/debba più parlare 
“in nome di”. Questa vecchia “presunzione”, se problematizzata e aggiornata, ovvero se rivista alla luce dello stare “di fronte” alla vittima, cioè dell'intraprendere con e grazie ad essa un processo duplice di riconoscimento di sé e dell'altro, questa “presunzione” del parlare “in nome di”, dicevo, non è da mettere frettolosamente da parte. Per l’intellettuale la sua innegabile condizione di privilegio è al tempo stesso stigma e stemma: “l’intellettuale non ha da vergognarsi della sua specializzazione e del privilegio esplicito (capacità di fare qualcosa meglio di chi non la sa fare) ma solo dei privilegi impliciti che ne trae o che la società gli conferisce”1. In questa insanabile contraddizione va inserita la compresenza, nell’intellettuale, di complicità col potere – direi almeno, e nel migliore dei casi, oggettiva – e di irriducibile opposizione ad esso. Una dicotomia  che si rende evidente nel momento in cui l’intellettuale si pone seriamente il problema degli oppressi, dal novero dei quali non può, in molti casi, chiamarsi fuori. È solo questo riconoscimento, di essere lui stesso vittima, a dargli il diritto/dovere di pronunciare delle parole “in nome di”. Questo accade sulla base di una precisa presa di coscienza avvenuta. Questa: che i motivi per cui l'altro è “vittima” non sono di diversa natura rispetto a quelli per cui lo è, vittima, l’intellettuale stesso, e lo sono, in generale, molti fra coloro che non lo sospettano nemmeno. Non dunque in virtù di una sostituzione (parlo “io” al posto del rom che viene perseguitato, perché quest’ultimo non ha voce) deve parlare l’intellettuale, ma sulla base dell’avvertimento di una somiglianza fra il nocciolo della sua condizione materiale e sociale e quella del rom. È un problema di comprensione della realtà e di resistenza pratica alla barbarie che trionfa.
Da ultimo direi che parlare in modo generico di 
“vittima” e di “carnefice” non aiuta a cogliere il nucleo di un nodo concettuale così complesso. Sto leggendo una raccolta di saggi di Gunther Anders che si intitola Uomo senza mondo. Nel libro, composto da saggi redatti negli anni Sessanta a proposito di vari testi letterari e scrittori, si dà una definizione precisa, nonché articolata, di chi siano le “vittime” nelle società capitalistiche.
Concludendo, mi sembra troppo facile vedere i lineamenti della vittima solo nel bambino denutrito che ci osserva da una foto 
“umanitariamente” scattata. Io li scorgo anche nei volti di tanti pasciutissimi ragazzi che mi stanno quotidianamente di fronte. Eppure non lo sembrerebbero, delle vittime.



note

1. F. Fortini, Intellettuali, ruolo e funzione, in Id., Questioni di frontiera. Scritti di politica e letteratura 1965-1977, Einaudi, Torino 1977, p. 72.




   
    [25 gennaio 2011]

home>interventi/interviste> Ancora su Intellettuali e vittime.

  • home
  • chi siamo
  • note redazionali
  • notizie
  • recensioni
  • interventi/interviste
  • fortiniana
  • archivio Franco Fortini       

  • link