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Elezioni e società dello spettacolo
Mario Pezzella
L’ultima campagna elettorale –si è detto- dava una diffusa impressione di monotonia e di attenuazione della conflittualità (questa percezione non è forse del tutto estranea alla vittoria della Lega e alla catastrofe della sinistra radicale). Si può dare un senso più politico a questa pretesa omogeneità e affinità dei contendenti? Si può cercare di spiegare in qualche modo questo “senso comune”: che le parti fossero assegnate in anticipo, l’esito risaputo, e che lo “scontro” era recitato e intepretato, più che vissuto?
Debord, come ho ricordato in un altro numero di Carta, ha cercato di pensare al di fuori di qualsiasi banalizzazione scontata la spettacolarizzazione della politica. Per Debord –è bene ricordarlo- lo spettacolo non è solo una forma di manipolazione affidata ai media o alle televisioni: esso è legato in modo essenziale alla forma stessa della merce, alla sua produzione e alla sua diffusione. Questo legame profondo richiederebbe un’analisi assai lunga. Qui possiamo solo chiederci, seguendo le sue categorie di pensiero, come venga simulato un conflitto apparente, per nascondere un conflitto reale, deformarne i termini, renderne impossibile la soluzione.
Vorrei rinviare prima di tutto a una tesi della Società dello spettacolo: in essa Debord parla di una separazione e di un conflitto reali e di una falsa conciliazione: nel capitalismo “con la separazione generalizzata del lavoratore e del suo prodotto, si perde ogni punto di vista unitario sull’attività compiuta, come ogni comunicazione personale diretta fra i produttori”. Vale a dire che viviamo in una situazione in cui prevale la dissimetria di potere tra dominanti e dominati, l’antagonismo reciproco, la scissione di ogni rapporto interumano. Naturalmente questa osservazione generale che Debord faceva nel secolo scorso, pensando soprattutto al lavoro di fabbrica, andrebbe oggi aggiornata alle nuove forme di dominio del lavoro (dal precariato al lavoro nero degli immigrati), cosa che non posso qui fare. Ma teniamo ferma questa ipotesi: che la realtà sociale sia lacerata dalla disuguaglianza, dal conflitto, da una divisione generalizzata. Come opera lo “spettacolo” su questa situazione reale, come la rappresenta, come la lascia pervenire alla nostra coscienza? Esso non si limita ad alterare i rapporti reali, ma li sottopone a una inversione simmetrica e speculare. Quanto più la separazione, la disuguaglianza tra l’elite dominante e i soggetti del suo dominio si accresce sul piano reale (come è avvenuto in Italia negli ultimi dieci anni): tanto più lo spettacolo inverte nelle sue immagini questo stato di fatto: coloro che sono realmente sempre più divisi, e non hanno affatto eguale potere di disporre della propria vita, sono invece mostrati uniti nelle illusioni, nelle immagini di merce, nelle identificazioni psichiche. Sono realmente divisi sul piano del potere? Tanto più vengono invitati a condividere gli stessi fantasmi e questa uguaglianza immaginaria è offerta come l’unica che conti.
La legge fondamentale della società dello spettacolo si potrebbe formulare in questo modo: quanto più l’esperienza deperisce e si degrada sul piano reale, tanto più la sua messa in scena spettacolare ne offre un surrogato seducente e potente. A questa inversione fondamentale ne segue immediatamente un’altra: quanto più un fenomeno è potenzialmente minaccioso per il potere esistente, tanto più viene rappresentato come effimero, contingente, già noto. Ovunque sia possibile, occorre mostrare un universo continuo, senza strappi, lacerazioni, fessure. Da qui poi discendono una serie di conseguenze, che investono per intero la percezione collettiva del mondo: quanto più un fenomeno perde in qualità materiale, tanto più la sua immagine-fantasma acquista splendore e luminosità; quanto più è artificiale, tanto più deve apparire naturale e indiscutibile; quanto più è frutto della necessità economica, tanto più appare delegato alla libera scelta dei singoli. Il surrogato spettacolare mostra un’immagine invertita del mondo reale: questa dev’essere tanto più intensa, rilucente e fascinatoria, quanto più radicale è l’assenza o la negatività che si tratta di compensare. L’intensità affermativa di un simulacro è direttamente proporzionale all’indebolirsi della forza viva, che esso deve sostituire.
Lo spettacolo crea un “linguaggio comune”, un sistema simbolico, una fantasmagoria collettiva di eguaglianza; quanto più questa si intensifica solo nel mondo della rappresentazione (che sia la televisione, la pubblicità, il mondo delle merci in generale), tanto più può crescere la dissimetria che governa ogni rapporto reale. Lo spettacolo è l’unità fantasmagorica e contraffatta di una separazione sociale tra dominanti e dominati, che continua a esistere e ad approfondirsi. L’unità e l’uguaglianza sono rappresentate nel “linguaggio comune” dello spettacolo come una conciliazione realizzata, possibile o alla portata di ogni singolo (con un caratteristico e mieloso buonismo); mentre le scissioni e i conflitti che si acuiscono non trovano dicibilità ed espressione: “Lo spettacolo non è che il linguaggio comune di questa separazione.Ciò che avvicina gli spettatori non è che un rapporto irreversibile al centro stesso che mantiene il loro isolamento”.
Una ulteriore scissione che lo spettacolo deve riuscire a contenere e gestire è quella tra il permesso e il possibile. Se le forme di godimento e di consumo sono rappresentate come possibili ed eventuali per tutti, la separazione di fondo della società permette che la loro realizzazione pratica possa avvenire solo per pochi e in modo ristretto. Questa caratteristica si accentua oggi sempre di più e la distinzione tra le élites del potere e la moltitudine condannata alla precarietà non fa che intensificarsi. Lo spettacolo forgia “un linguaggio comune”, ma questo non fa che articolare e rendere sempre più accettabile la separazione reale: “Lo spettacolo riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato”. Quanto più riunisce sul piano della messa in scena, dell’illusione, del “teatro” della politica, tanto più permette che aumenti la separazione tra dominanti e dominati.
Lo spettacolo –dice Debord- “edifica la sua unità sulla lacerazione”. Eppure, e almeno in apparenza e soprattutto nei recenti “spettacoli” elettorali, non ci sono forse opposizioni, contrasti, conflitti, che emergono nell’universo politico? Non ci sono litigi, baruffe, e pubbliche offese tra le védettes del momento? Il fatto è che nessuna di queste opposizioni giunge fino alla radice del conflitto. Se le parti sono d’accordo sul fatto che debba esistere il lavoro precario, potranno scontrarsi solo sulle modalità della sua esistenza: senza metterla in questione in modo radicale. Ma così lo scontro stesso assume il tono di una finzione, o di una più o meno riuscita interpretazione teatrale, destinata a coprire la comune accettazione dell’ingiustizia. “La divisione mostrata è unitaria”, perché i contendenti sono d’accordo nel non porre in questione le regole del linguaggio che condividono, ma solo le sue varianti concordate. Ciò che è importante non è il litigio apparente, ma l’accordo sui limiti di fondo che il discorso politico deve rispettare: “L’unità mostrata è divisa”, è un fantasma, perché il solco reale tra l’élite e chi ne subisce il dominio si acuisce ma non può essere posto in discussione.
Tentiamo di attualizzare, forse in modo un po’ brutale. Prendiamo ad esempio il dibattito sulla legge Biagi durante il governo Prodi. Il capo della destra dice che il precariato va mantenuto, con qualche attenuazione; il segretario del PD dice che la legge Biagi va mantenuta, con attenuazioni un po’ più forti; la sinistra dice che la legge Biagi fa schifo, ma resta in un governo che la lascia in vigore. Le posizioni sono diverse, ma lo scontro è puro spettacolo; perché di fatto la cosa sostanziale è che nessuno mette in questione, facendone un tema di principio, la legge Biagi. Prendiamo anche il decreto urgente sulla sicurezza; il capo del PD lo propone, il capo della destra lo vorrebbe più duro, la sinistra, al solito, dice che è uno schifo, ma resta nel governo che lo ha accettato. Nessuno afferma davvero che una simile legge altera lo Stato di diritto in Italia, nessuno ne fa un problema in cui è in gioco il proprio diritto a esistere come forza politica. L’opposizione viene così mostrata, ma non realizzata.
A questa prima serie di considerazioni, se ne possono aggiungere altre, che risalgono a un periodo successivo della riflessione di Debord, e riguardano lo “spettacolare integrato”; con questo termine egli indica alcune specificità del regime spettacolare in cui siamo immersi a partire dalla fine del secolo scorso. Le forme illusorie e fantasmagoriche, che abbiamo prima accennato, non bastano più a garantire la coesione sociale; occorre miscelarle con interventi autoritari, che –senza costituire propriamente un ritorno di forme politiche totalitarie- ne riprendono però alcuni caratteri. Certo, nello spettacolare integrato la forma di merce mantiene la sua preminenza visibile: ma rappresentazioni fondamentalistiche, etniche, razziste vengono a coesistere col suo feticismo fantasmatico. Se il nazismo cercava di coniugare la tecnica e il mito, lo spettacolare integrato tenta di articolare insieme l’essere della merce con forme arcaiche e ormai puramente illusorie di appartenenza. Se effettivamente “le diverse identità che hanno segnato la tragicommedia della storia universale stanno esposte e raccolte in una fantasmagorica vacuità”, appare invece come possibile la loro rinascita: come se le società capitalistiche occidentali potessero nuovamente riconoscersi in un nucleo identitario roccioso e irreversibile.
In una certa misura, l’iperappartenenza mitica caratteristica dei regimi fascisti viene ora riproposta e aggiornata. Quanto più la diffusione della forma di merce dissolve le radici stesse dell’esistenza individuale, tanto più viene a questa offerta la consolazione dell’abbandono di sé e della fusione: nella micropatria etnica, in corpi militarizzati, in sette di ogni tipo, nell’odio comune contro i “nemici”, che turbano la felicità possibile dell’ordine spettacolare.
Il regime democratico viene integrato da centri decisionali ufficiosi, servizi e associazioni parallele, che si diffondono in una molteplicità frammentata. Questa attività in ombra affianca la celebrazione pubblica dello spettacolo. Essa si dispone accanto alle istituzioni, alle leggi e agli ordini professionali visibili. L’apparato giuridico e istituzionale resta apparentemente intatto: ma le decisioni spettano effettivamente al potere concentrato che agisce parallelamente.
Non si tratta solo di interventi clamorosi e violenti orchestrati dai servizi segreti “deviati”, ma anche di misure che riguardano l’ordinaria quotidianità. I concorsi pubblici sono sostituiti da riunioni preliminari ufficiose; la libertà di stampa viene controllata prima di ogni censura da comitati editoriali che scelgono i giornalisti affidabili; molti reati finanziari sono di fatto depenalizzati, anche se le leggi che dovrebbero punirli restano ufficilmente in vigore. Questo processo determina la divergenza sistematica tra la regola pubblicamente ammessa e il centro decisionale occulto: cinismo, ipocrisia oggettiva, menzogna, divengono comportamenti sociali indispensabili per orientarsi in questa sorta di doppio comando sociale permanente. Nei Commentari, Debord indica la P2 italiana e le sue diramazioni come il prototipo sperimentale di un simile sistema di comando. Chi resta legato ingenuamente all’apparenza pubblica dello spettacolo (e per es. si oppone a una decisione di fatto in nome di una norma del diritto) viene piegato, comprato, intimidito e –in casi estremi- eliminato.
La mafia diviene –secondo Debord- un modello attuale di funzionamento associativo segreto: non dunque una sopravvivenza arcaica, ma un organismo a pieno titolo esistente entro lo “spettacolare integrato”. La mafia scorre –per così dire- accanto al simulacro del potere pubblico, lasciandolo il più possibile intatto, colpendo le persone che volessero farlo funzionare oltre un livello semplicemente formale. Il suo modello è seguito dai centri decisionali che ormai sostituiscono i poteri formali dello stato: “La mafia trova dappertutto le condizioni migliori sul terreno della società moderna…La mafia aumenta con gli enormi progressi del computer e dell’alimentazione industriale, della ricostruzione urbana integrale e delle bidonville, dei servizi speciali e dell’analfabetismo”.
Se la decisione è ora presa in organismi paralleli, il diritto pubblico agisce come una semplice messa in scena. Perfino nel caso di reati gravi, esiste un codice ufficioso in cui viene determinato chi può essere imputato e per quale motivo. Se non ha più corso la legalità astratta, impersonale, uguale per tutti del diritto, allora le gerarchie, i ruoli, le funzioni devono essere attribuiti su base diversa. Prevale così la cooptazione e l’affiliazione diretta entro gli organismi paralleli, e cioè un sistema di dipendenza personale che tuttavia non è proclamato pubblicamente, che ha le sue regole e i suoi codici non scritti: la cui semplice conoscenza è già un segno di familiarità e di possibile accettazione entro le elites del potere. Queste regole –a loro modo inflessibili- segnano il tramonto della “legge scritta” che, almeno in teoria, veniva considerata una delle maggiori conquiste della democrazia occidentale. Nel sistema giuridico classico lo stato d’emergenza permetteva il ricorso alla dittatura e la sospensione del diritto abituale; nello spettacolare integrato emergenze simulate e ingigantite con tutti i mezzi mediatici divengono una pratica alternativa e ricorrente della democrazia: “I procedimenti d’emergenza diventano così procedure di sempre”[1].
In un editoriale di qualche anno fa, il collettivo della rivista “Luogo Comune” ha indicato affinità e differenze tra il fascismo storico e quello che esso definisce “nuovo fascismo”, e produce fenomeni simili a quelli descritti da Debord. Il primo fascismo è stato caratterizzato da un'intromissione dirompente dello Stato nell'economia e nella quotidianità: il nuovo fascismo è una risposta alla liberazione possibile dal lavoro e all'uso comunitario delle tecniche e delle risorse. Il tempo del non lavoro, invece di divenire possibilità di libertà, viene colonizzato dai miti, dalle gerarchie, dalla violenza: “Il fascismo di fine secolo... dà un'espressione diretta alla "cooperazione eccedente": ma un'espressione gerarchica, razzista, dispotica. Della socializzazione extralavorativa fa un ambito sregolato e ferino, predisposto all'esercizio del dominio personale; vi insedia i miti dell'autodeterminazione etnica, della radice ritrovata, del "suolo e sangue" da supermarket; ripristina tra le sue pieghe vincoli familisti, di setta o clan, destinati a conseguire quel disciplinamento dei corpi cui più non provvede il rapporto di lavoro”.
Se lo spettacolare diffuso favoriva il narcisismo dello spettatore e il suo voyeurismo, quello integrato ripropone -sul piano psicologico- alcuni tratti del “carattere autoritario” propri dei regimi totalitari. Nel carattere autoritario in senso stretto, una indefinita e primaria sensazione di impotenza veniva compensata dall’esercizio indiscriminato del potere verso un “altro”, ridotto a capro espiatorio e sacrificale.
Entrambi i poli riaffiorano nella società spettacolare integrata: i campi di detenzione e di internamento sono governati dal sadismo; l’enfasi rinnovata sull’”Occidente” e sulla sua crociata contro il male tendono a inserire il singolo in una collettività conformista, in fusione simbiotica col suo “destino”. Questi vecchi arnesi ripescati dall’armamentario dei regimi totalitari ora rafforzano –senza sostituirlo- il potere ipnotico della fantasmagoria delle merci, e permettono di dirottare sull’”altro” le cause dell’infelicità e del disagio. Se il mercato non realizza la felicità universale, ciò non deriva dal suo carattere fantasmatico e alienato: ma dalla perversione e dall’arretratezza dell’”altro”.
Di fronte a questa egemonia culturale dello spettacolo, non si deve forse compiere una critica radicale delle sue forme (e non adeguarsi ad esse)? Non si deve porre un conflitto irriducibile tra democrazia reale e democrazia spettacolare? E cominciare a chiedersi cosa significhino democrazia, uguaglianza, diritti dell’individuo, nella specificità concreta dei rapporti di lavoro, di genere, di culture diverse?
1. SS, p.72.
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