home>interventi/interviste> Giuseppe Dessì. L'intellettuale nel Paese d'ombre
Giuseppe Dessì. L’intellettuale nel Paese d’ombre
Giovanni de Leva
A guardarli nell’insieme, i romanzi di Giuseppe Dessì (1909-1977) compongono un unico ciclo storico, che si estende dagli anni dell’Unità d’Italia, da cui prende avvio Michele Boschino (1942), fino al fascismo e alla seconda guerra mondiale, i cui effetti ricadono rispettivamente ne Il disertore (1961) e ne I passeri (1955). Ambientato nella ‘Parte d’Ispi’, ovvero nella nativa provincia sarda, l’affresco di Dessì alterna memoria personale e indagine storica in una genealogia pubblica e privata che, a partire dal tempo dell’autore, risale a ritroso la storia nazionale. Non diversamente, si direbbe, dai cicli narrativi di quegli scrittori che nel corso degli anni ’50 rianimano le vicende delle rispettive terre natali: Firenze in Una storia italiana di Pratolini, Ferrara ne Il romanzo di Ferrara di Bassani, le Langhe ne La malora (1954) e nel progetto de I racconti del parentado (1961) di Fenoglio. Tali autori, sostiene Roberto Bigazzi (Le risorse del romanzo, 1996), come pure Calvino e Tomasi di Lampedusa, ricercano tra gli antenati un’identità repubblicana da opporre all’esperienza fascista; più precisamente, come si tenterà di dimostrare, Dessì si volge al passato per riallacciare un vincolo tra l’intellettuale e la sua classe d’origine.
Tre sono le generazioni che si succedono nel ciclo di Dessì: gli ‘avi’, i ‘padri’ e i ‘figli’. Ciascun personaggio condivide diversi caratteri con le figure coeve ed instaura un rapporto altrettanto ricorrente con gli appartenenti alle altre generazioni. Così gli avi, similmente ai contemporanei personaggi di Verga, rappresentano gli ultimi alfieri d’una cultura minacciata dalla modernità, impegnati come sono nel confronto della tradizione contadina con la traumatica unificazione nazionale. La generazione dei padri è composta invece da figure assenti, rapite dal vortice della Grande Guerra; che siano morti prematuramente oppure impegnati al fronte, in ogni caso mancano la formazione dei figli. Questi ultimi, infine, sono tutti a vario titolo intellettuali degli anni ’30 e ’40. Compiuta la propria educazione nel continente, i figli cercano idealmente di fare ritorno alla Parte d’Ispi ma, essendo orfani, devono rivolgersi agli avi. Dietro tale movimento ripetuto sembra nascondersi il motore immobile dell’intero ciclo storico di Dessì, di cui Michele Boschino offre un’immagine assai significativa.
Il romanzo risulta diviso senza soluzione di continuità in due parti. Nella prima, attraverso il personaggio d’un contadino, l’avo Michele Boschino, un anonimo narratore intradiegetico racconta la vicenda di Parte d’Ispi a partire dall’Unità; nella seconda, inaspettatamente, prende la parola un figlio, Filippo, giovane matematico costretto a letto da un incidente. Quest’ultimo tenta di ricostruire la figura di Boschino intrecciando i ricordi personali alle informazioni di fonti diverse, combinando dunque la memoria personale con l’inchiesta storica. Il primo risultato è la profonda quanto paradossale conoscenza di un uomo che Filippo ha incontrato invece solo occasionalmente, quasi si trattasse del personaggio d’un romanzo: «Se quest’idea che io mi son fatto di Boschino coincide col Boschino reale, io conosco quest’uomo meglio di me stesso. Ma è assurdo. Non si conoscono così gli uomini reali, ma i personaggi dei romanzi.» Il passo ulteriore, che, si direbbe, definisce a posteriori la seconda parte del romanzo quale antefatto della prima, è l’immedesimazione di Filippo nel personaggio da lui stesso evocato: «In questo momento me ne assumo io stesso il peso e la conseguenza. Sono io stesso Michele Boschino. Sono io, disteso, non qui, nella mia camera, nel mio letto, ma sulla branda della rimessa. […] Se riuscissi a trattenere la forza illusoria di quell’attimo […] sentirei ancora il telaio battere sotto il loggiato, e la voce di Severina. Conterei mentalmente il danaro nascosto sotto un mattone a piè del letto. Saprei quanti scudi v’aggiungerei al nuovo raccolto, quanti me ne mancano per comprare un altro pezzo di terra.»
Il racconto della vicenda storica di Parte d’Ispi, quindi, è frutto dell’immedesimazione del figlio nell’avo, del narratore nel personaggio, dell’intellettuale nel contadino. Si vede dunque come per Dessì la narrativa della memoria non sia sufficiente alla rievocazione storica, ma costituisca il retroterra per lo svolgimento di una trama romanzesca. Di qui il passaggio dall’opera prima, San Silvano (1939), interamente strutturato sui ricordi dell’autore, al successivo Michele Boschino, in cui la memoria del narratore si realizza invece nella creazione di una figura del passato. Nello iato che divide Filippo da Boschino, o meglio, nel tentativo di colmarlo, si può intravedere allora tanto l’origine che la meta della narrativa di Dessì.
Paese d’ombre (1972) sembra costituire così il punto d’arrivo, in quanto compimento della narrativa della memoria in un vero e proprio romanzo storico e, al tempo stesso, come realizzazione dell’incontro tra autore e personaggio, ovvero tra intellettuale e contadino. Da un parte, infatti, la biografia del protagonista Angelo Uras rimanda a quella dell’intera nazione, dall’Unità fino alla Grande Guerra; dall’altra parte, nella fisionomia di Uras la condizione di contadino si arricchisce dello statuto di intellettuale, quasi che il personaggio sia il risultato d’una trasposizione che Dessì, più compiutamente di quanto fosse riuscito a Filippo nei confronti di Boschino, ha realizzato nell’avo.
Cresciuto dall’avvocato Fulgheri, un mazziniano a suo tempo fiero avversario della Legge delle chiudende, causa dello stravolgimento dell’economia rurale per la parcellizzazione dei pascoli collettivi in proprietà private, Angelo Uras conserva del maestro tanto la diffidenza nei confronti dell’Italia sabauda che la sensibilità alla questione contadina. L’ingresso nella vita pubblica di Norbio avviene negli anni ‘70, con la traduzione in dialetto delle parole dell’ingegnere piemontese Ferraris, grazie a cui Angelo convince i compaesani a liberare il letto del fiume per evitare un’inondazione. L’estemporanea trasmissione del potere sabaudo rischia poco dopo di diventare vera e propria integrazione, quando Ferraris propone al giovane di lavorare per la Società mineraria che, allo scopo di rifornire il regno di combustibile, stava disboscando le foreste attorno a Norbio. Esattamente come le chiudende, il disboscamento segna l’irrompere della Storia e di un nuovo sistema produttivo nell’equilibrio economico ed ambientale sardo. Alle conseguenti perplessità di Angelo, la madre Sofia ribatte con un’osservazione prettamente politica: l’opposizione sarà più incisiva dall’interno piuttosto che all’esterno della Società mineraria; il rischio d’integrazione va dunque corso proprio a favore della causa.
Accettata la proposta di Ferraris, Angelo lascia quindi il lavoro manuale per quello intellettuale: «Non aveva mai sperimentato prima di allora che cosa significava controllare il lavoro di altri uomini, benché avesse sempre controllato i lavori nei suoi poderi. Ma là era una cosa diversa: perché, se zappavano, si metteva anche lui a zappare, se falciavano falciava a gara con loro […] Qui invece, seguendo le istruzioni dell’ingegnere Ferraris che lo pagava apposta per questo, doveva muoversi continuamente lungo la linea senza mai prendere parte al lavoro […] Gli operai […] Avrebbe voluto lasciarli riposare per ore sui mucchi di sassi e invece, così vecchi e consunti, doveva ammonirli, sollecitarli, quasi sgridarli perché quello era il suo dovere: per quello lo pagavano e ciò che più importava, quello doveva fare per non tradire la fiducia che l’ingegnere riponeva in lui. Questa fiducia gli dava piacere […] e al tempo stesso lo mortificava perché lo faceva sentire dalla parte di quelli che comandano e se ne vergognava al punto che non poteva sostenere lo sguardo dei vecchi operai che lo fissavano assorti, il mento appoggiato al rozzo manico del badile o del piccone.»
La promozione da contadino a intellettuale consiste quindi nel passaggio dall’impiego della propria forza lavoro alla disciplina del lavoro altrui. Il che implica però un immediato tradimento della classe d’appartenenza: alla solidarietà contadina subentra infatti la fiducia dell’élite sabauda. L’avanzamento dunque non rende Angelo, per usare la riflessione di Gramsci, organico alla classe di cui è espressione, al contrario lo assegna alla difesa degli interessi di un ceto socialmente e geograficamente estraneo. Di qui l’insoddisfazione del personaggio che, resosi conto di contribuire al saccheggio della propria terra, si scontra con l’appaltatore tanto duramente da venire in seguito sospettato del suo assassinio. Dessì sembra a questo punto indugiare di proposito prima di assegnare un alibi ad Angelo, quasi voglia temporaneamente comunicare al lettore il sospetto della sua colpevolezza. Ne risulterebbe un’ulteriore svolta nella trama, quella cioè del brigantaggio ovvero, a leggerla dalla prospettiva del tempo dell’autore, quella del terrorismo.
Prosciolto invece dall’accusa, Angelo non arresta la propria ascesa ma punta addirittura all’appalto per lo sfruttamento delle foreste di Aletzi, messe all’asta alla fine degli anni ‘80. Anche stavolta la ragione è impedire dall’interno il disboscamento selvaggio, e insieme proporre una soluzione alla crisi finanziaria che ha coinvolto intanto la Sardegna. Conseguente è il favore dei compaesani, senza il quale la freddezza e la straordinaria disponibilità economica che Angelo dimostra a dispetto dell’umile origine richiamerebbero quelle di un altro contadino arricchito, anch’egli inaspettatamente vincitore di un’asta di terre comunali, ovvero Mastro-Don Gesualdo. Di qui in avanti, infatti, la trama di Angelo oscilla pericolosamente verso quella del personaggio di Verga: dimentico del motivo per cui aveva accettato l’appalto, Angelo acquista la foresta dal comune, suggella il passaggio di classe sposando una ‘signora‛ che gli resterà estranea, si volge infine ad ulteriori speculazioni proprio secondo il motto che era stato di Gesualdo: «Diamine, ognuno fa i propri interessi!».
Due sembrano a questo punto gli appigli grazie a cui il personaggio di Dessì evita la sorte toccata a quello di Verga: la lettura, il ritorno cioè all’impegno intellettuale, e l’urgenza della questione sociale, sfociata nella strage dei minatori di Buggerru del 1904. E’ leggendo Eugenie Grandet infatti che Angelo avverte i rischi di un’esistenza consacrata esclusivamente al guadagno, mentre la consapevolezza dell’ingiustizia sociale, risvegliata da Les misérables, lo convince ad accettare la candidatura a primo cittadino, proprio nei duri anni della seconda presidenza crispina. Una volta eletto, il nuovo sindaco sembra addirittura correggere l’errore che Gramsci imputava al Partito d’Azione negli anni successivi all’Unità, la mancanza cioè di una politica fondata «sui contadini di base, accettandone le rivendicazioni elementari e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo». In consiglio comunale Angelo si fa infatti portavoce della richiesta di un lavatoio coperto, avanzatagli dalle donne di Norbio. La bocciatura della proposta a causa dell’intervento dei prinzipales determina la reazione contadina: «Per la prima volta, da quando era cessata la gestione comunitaria delle terre, gli abitanti di Norbio si riunirono in un’aia e alcuni di loro parlarono. Dissero che Angelo Uras era figlio di contadini e aveva lavorato la terra con le sue mani, era un buon sindaco e che bisognava aiutarlo.»
Si forma quindi quello «scheletro organizzativo» di partito contadino che, sebbene consista in un’estemporanea «forte corrente di opinioni», secondo Gramsci risulta tuttavia «di un’utilità immensa». Ad Angelo, dall’altra parte, viene riconosciuto stavolta lo statuto di intellettuale organico, in quanto espressione diretta della classe, di cui si dimostra un portavoce non «paternalista», e per l’atteggiamento paritetico anziché «servile» che ha sostenuto nei confronti delle altre classi dirigenti.
L’amministrazione illuminata si rivela però insufficiente rispetto all’aggravarsi della questione sociale. E’ proprio un minatore sfuggito al massacro di Buggerru, Sante, a rinfacciare ad Angelo i limiti della sua falsa coscienza: «Voi siete un uomo onesto, quanto di meglio potesse sperare questo sporco paese, ma siete legato alla vostra classe e… alla vostra roba.» La lezione di Sante finisce per incrinare l’entusiasmo affaristico di Angelo, che rinuncia al sogno di grande proprietario terriero e demanda al comune l’ulteriore acquisto a cui puntava: «Era il Comune che doveva comprare i boschi, non lui! L’idea giusta gli era maturata dentro da sola, e adesso provava una felicità intensa, piena, senza ombre […] Sarebbe stato diverso per i piccoli proprietari di pecore e di capre, i quali avrebbero avuto il pascolo a un prezzo inferiore e, in un futuro non lontano, addirittura gratuitamente, come nei tempi andati quando la terra era di tutti come l’aria, le nuvole e il cielo […] La legge delle chiudende aveva creato forzosamente la proprietà privata, distruggendo l’equilibrio della vita comunitaria e dando luogo all’insanabile dissidio tra contadini, divenuti improvvisamente proprietari e i pastori costretti al nomadismo, sempre in cerca di un pascolo per il branco affamato, quel branco che era la loro unica risorsa […] Lui li capiva, e pensava a quel tempo come all’età dell’oro, un tempo ormai mitico ma non lontano, che poteva rivivere per la gente di Norbio.»
A questo punto sembrerebbe chiuso il cerchio, vinta cioè la battaglia contro la legge delle chiudende iniziata tanti anni prima dall’avvocato Fulgheri e, di conseguenza, riuscita la trama del personaggio, che da contadino si fa intellettuale e proprietario, evita tanto il rischio d’integrazione quanto la scelta terroristica per diventare invece organico alla classe d’origine, rinunciando infine all’arricchimento personale in difesa della giustizia sociale. La conclusione del romanzo, tuttavia, offusca l’evidenza di un simile successo. Il colpo che Angelo, ormai vecchio, riceve alla vista dei violenti festeggiamenti del carnevale contro cui invano aveva emanato diverse ordinanze restrittive, segna infatti la sconfitta della sua politica illuminata, spenta dalle tradizioni ataviche, da quelle ombre cioè che sin dal titolo del romanzo caratterizzano la Parte d’Ispi.
Le ultime battute riaccendono però un barlume. All’omicidio in cui si è risolto il carnevale ha assistito il piccolo Marco, nipote di Angelo, membro dunque della generazione dei figli. Marco vorrebbe raccontare l’accaduto al nonno perché faccia giustizia ma questi, dal letto in cui è costretto, non può sentirlo. L’intesa tra i due, tuttavia, è suggellata dall’ultimo gesto di Angelo, da cui sembra riattivarsi, come in un circolo, la narrativa di Dessì. Nel contatto tra il vecchio e il bambino si può leggere infatti un vero e proprio passaggio di testimone, quasi che l’avo consegni al nipote la memoria che quest’ultimo, forse proprio grazie alla scrittura, potrà un giorno risvegliare: «Nel buio, la mano bianca del malato si tese verso la branda. Marco allungò la sua e sfiorò quella del nonno con una carezza. La mano era calda, era viva.»
[1 dicembre 2009]
home>interventi/interviste> Giuseppe Dessì. L'intellettuale nel Paese d'ombre