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Dare fiato alle lotte. Una possibilità per i  knowledge workers. 

Alessandra Reccia



La rappresentazione tradizionale che vede, dentro i movimenti, intellettuali e gruppi in lotta come entità socio-politiche distinte ma alleate è ormai falsa. Il ceto intellettuale non si pone più il problema di prestare la sua opera alla causa politica, e quindi esso non esiste più nel senso in cui è esistito per più di un secolo nella sinistra europea. Da qui parte anche l’analisi di un interessante articolo di P. Rimbert, tradotto per «Le Monde diplomatique» (14 gennaio 2101), dal significativo titolo Il pensiero critico nel ridotto universitario, dove si passa al vaglia la possibilità stessa di produrre pensiero critico in rapporto alla politica militante, per una categoria ormai rinchiusa dentro l’università e che ingabbia nelle logiche baronali anche le ultime generazioni.
Continuano ovviamente ad esistere élites ristrette di intellettuali, espressione più o meno diretta e consapevole dei gruppi economici e politici di potere. Eppure il sospetto è che si stia modificando anche la funzione che queste esercitano dentro gli apparati. Gli intellettuali un tempo attivi come “consiglieri del principe” oggi appaiono sempre di più come meri diffusori, a volte inconsapevoli, del pensiero comune, esecutori instancabili dell’ordine costituito.
D’altro canto le nuove giunture storico economiche fanno di quelli che teoricamente e tradizionalmente dovrebbero ingrossare il ceto in questione, semplicemente degli operatori della conoscenza, senza più privilegi di sorta.
In questa nuova situazione l’auspicio è che le lotte sociali in atto non sviluppino un nuovo ceto intellettuale, mente separata di braccia e teste che non le appartengono, ma che attraverso esse si produca una diffusa capacità critica, ovvero intellettuale e politica insieme. I presupposti sociali ci sono tutti anche se non mancano (anzi!) gli ostacoli.

Un lavoratore della conoscenza non è automaticamente un intellettuale. In realtà il suo lavoro non può essere definito intellettuale, nel senso classico del termine, e ciò non dipende solo dalle condizioni lavorative, ma soprattutto dalla qualità del lavoro svolto. Questo infatti continua ad essere oggettivato in macchine, relazioni, discorsi, documentazioni, ricerca, ma i suoi prodotti si sono standardizzati, come le conoscenze utili per crearli, e sono passati sul mercato al pari di qualsiasi altra merce. Allo stesso modo il lavoro che le produce si è immesso nel sistema concorrenziale della divisione del lavoro locale e globale. Il cammino che ha portato a questo, almeno in Occidente, è stato molto lungo e oggi può dirsi il risultato dell’interconnessione di diversi processi sia storici che economici: la sconfitta del movimento operaio europeo, il passaggio all’attuale fase del sistema produttivo comunemente nota come post-fordista, l’alfabetizzazione generalizzata e il conseguente sviluppo delle diverse industrie della cultura, per non parlare dei sistemi di comunicazioni di massa.
           
Sottrarre il lavoratore della conoscenza al ruolo sociale al quale si pensa destinato significa, paradossalmente, restituirgli la possibilità di assumere la coscienza della sua funzione. In questo il knowledge worker è simile a qualsiasi altro lavoratore, poiché la sua capacità intellettuale dipende direttamente dal grado di partecipazione alle lotte, di comprensione del ruolo che svolge entro il sistema produttivo e in esso del rapporto che esiste tra la sue e le altre categorie.
Si ribatterà che certo i lavoratori della conoscenza hanno forse qualche chance in più di acquisire una funzione intellettuale critica, fosse solo per il fatto di aver studiato. Ma, si risponderà che innanzitutto la scolarizzazione avanzata non è più esclusa ad altre categorie di lavoratori. Questo è evidente quando per esempio consideriamo gli immigrati, occupati nei settori tradizionalmente caratterizzati da una cattiva e povera istruzione, ma spesso con alti livelli di scolarizzazione. Il dato, chiaramente, mette in evidenza che l’istruzione non è più tout court un elemento discriminante nella strutturazione della divisione sociale del lavoro, e questo a livello globale.
Inoltre, si dovrebbe aggiungere, che questo fenomeno va di pari passo con la standardizzazione, in Occidente, dei sistemi formativi di massa che, come denuncia il movimento studentesco, mira ad un abbassamento non solo del livello delle informazioni ma dei metodi stessi di apprendimento. Per non parlare dell’ovvia verità secondo la quale possedere un’istruzione non vuol dire avere gli strumenti per la comprensione del reale.
Tutto questo ribalta l’ovvio presupposto che la formazione sia naturalemnte finalizzata ad esercitare una funzione intellettuale e per di più critica. Anzi il rischio è che essa venga utilizzata come un discrimine sociale per la realizzazione di un’aspirazione di casta, quella a cui il lavoratore della conoscenza si sentiva destinato fino a non molto tempo fa. A ben guardare, ciò che viene immediatamente recriminato da un lavoratore della conoscenza è il suo diritto ad appartenere a quel mondo che gli avevano promesso mandandolo a scuola e che invece gli è stato negato dalla crisi economica.
Ma, se si tratta da un lato di riconoscere questa situazione, dall’altro bisogna sottolineare che proprio ciò che un’intera generazione di aspiranti intelligenti vive come dramma, può diventare un’opportunità politica importante.

Naturalmente la realtà è molto più fluida e varia di come la raccontiamo. Esistono e sono attivi anche all’interno di questo variegato soggetto socio-economico gruppi politicamente avanzati, pieni di incertezze e già con una serie di fallimenti totali o parziali alle spalle, ma che cominciano a pensarsi criticamente dentro questo sistema produttivo e tentano di agire di conseguenza.
Le difficoltà che questi incontrano sulla strada della soggettivizzazione riguardano direttamente la struttura e l’organizzazione tipiche del loro lavoro. I due famosi aggettivi, flessibile e precario, che si usano generalmente per descriverlo, concernono quest’aspetto. Ma molte altre cose si potrebbero dire, e sono state dette, sulle caratteristiche proprie di questo lavoro. Tra queste vale almeno la pena ricordare l’individualizzazione del rapporto di lavoro, che comporta tanto una ricaduta della responsabilità lavorativa sul singolo (S. Bologna), quanto una solitudine del lavoratore determinata da ragioni concorrenziali e anche dal fatto di non condividere con i suoi colleghi spazi e orari. Tutto questo determina, oltre che la difficoltà pratica a comunicare e dunque ad organizzarsi (S.Bologna), una perdita della ritualità stessa del lavoro e dunque della distinzione tra tempo di lavoro e tempo di svago (L.Vasapollo)1. Si può essere impegnati in un’attività di ricerca o di editing, per esempio, tutti i giorni domenica e festivi inclusi e per svariate ore al giorno, senza che ci sia una sirena a stabilire la fine della giornata lavorativa e nel totale isolamento. Queste condizioni non favoriscono l’organizzazione, ma anzi di fatto la rendono se non impossibile certamente molto complessa.
Esiste poi la difficoltà, da non sottovalutare, di una generazione che sconta trent’anni di assenza di dibattito politico e di partecipazione attiva. Da questo punto di vista molti tra i nati tra gli anni Settanta e Ottanta, quand’anche abbiano esperienze politiche pregresse legate ai movimenti studenteschi oppure sociali, fanno fatica a costruire con i loro coetanei discorsi politici generali e condivisi, capaci di uscire fuori dalle logiche meramente vertenziali e di categoria. Chiunque abbia partecipato almeno ad uno dei movimenti politici di questi ultimi anni, precari della ricerca o della scuola o ricercatori per esempio, sa che questo orizzonte si ripresenta ogni volta, ad ogni assemblea e che costituisce un problema e un limite politico che non può essere eluso.
Parliamo inoltre di un gruppo composto da diverse categorie di lavoratori, i quali faticano a riconoscersi in una comune condizione. Così, per esempio, un grafico con partita Iva non riesce a pensarsi simile ad un precario della scuola.

I lavoratori della conoscenza sono una federazione di categorie cui manca, nell’insieme, una tradizione di lotta. Contribuiscono a fondarla, ovviamente, le esperienze pregresse dei singoli o delle specifiche categorie, ma manca un discorso autonomo. Questo, chiaramente, non può essere costruito ad hoc, come pretendono spesso talune sigle sindacali che portano vecchie proposte a problemi di cui sembra sappiano poco o nulla, ma ha bisogno di dispiegarsi nella pratica politica stessa.   
In questo senso l’alleanza che si sta tentando con operai e studenti è importante, in  quanto categorie con una lunga esperienza di lotta possono fungere da canalizzatori di istanze e pretese politiche. Sembra comunque doveroso in questo momento tentare la difficile ma unica strada dell’alleanza sperando si creino i presupposti della costituzione di un nuovo soggetto, certamente articolato al suo interno, ma in grado di proporre un’alternativa. È chiaro che l’alleanza comporta e comporterà tutta una serie di problemi teorici e pratici, tra cui non ultimo quello di tentare un discorso almeno europeo. Ma funzionerà se sarà in grado di porsi seriamente il problema del lavoro nella nuova fase di produzione, il destino in esso delle singole categorie e dei gruppi sociali, e il problema dell’organizzazione razziale e sessista del mercato del lavoro globale. Problemi classici e tuttavia nuovi.
In questa nuova esperienza di lotta, certamente in Europa, i lavoratori della conoscenza possono dare un contributo importante, poiché la loro organizzazione produttiva costituisce indubbiamente un punto di vista privilegiato, economico e sociale. Ma ognuno in realtà è chiamato a fare la sua parte.
Intanto non sarà inutile individuare quelli che sono stati i luoghi di resistenza politica e culturale in questi ultimi trent’anni, tutte quelle realtà o quei singoli che hanno contribuito instancabilmente a mantenere alta la guardia. Altrettanto, resta fondamentale recuperare alla lotta un pensiero e lo si faccia criticamente, riflettendo su possibilità e sconfitte storiche ma anche sui modelli e le forme dell’organizzazione.
Insomma, anche se la contingenza sembra chiamarci alle decisioni meramente politiche, non si può perdere l’occasione di dare fiato alle lotte attuali, di metterle in prospettiva, di recuperare, infine, la funzione intellettuale come criterio politico. 

note

1. Rispettivamente, S. Bologna, I lavoratori della conoscenza e la fabbrica che dovrebbe produrli, in «L’ospite ingrato», I, 2005, pp. 15-32; S. Bologna, Ceti medi senza futuro?, Derive e Approdi, 2007; L. Vasapollo, J. Arriola, L’uomo precario nel disordine globale, Milano, Jaka Book, 2005.



    [27 gennaio 2011]

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