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Toxic asset
– toxic learning.
Nello
spirito del ’68 senza nostalgie né tormentoni
(dopo un
incontro all’Università di Siena, organizzato dal Centro ‘Franco Fortini’ nella
Facoltà di Lettere occupata, il 6 novembre 2008)
Sergio Bologna
State
vivendo un’esperienza eccezionale, l’esperienza di una crisi economica che
nemmeno i vostri genitori e forse nemmeno i vostri nonni hanno mai conosciuto.
Un’esperienza dura, drammatica, dovete cercare di approfittarne, di cavarne
insegnamenti che vi consentano di non restarvi schiacciati, travolti. Non avete
chi ve ne può parlare con cognizione diretta, i vostri docenti stessi la crisi
precedente, quella del 1929, l’hanno studiata sui libri, come si studia la
storia della Rivoluzione Francese o della Prima Guerra Mondiale.
Ho letto che
l’Ufficio di statistica del lavoro degli Stati Uniti prevede che nel 2009 un
quarto dei lavoratori americani perderà il posto.
Qui da
noi tira ancora un’aria da “tutto va ben, madama la marchesa”, si parla di
recessione, sì, ma con un orizzonte temporale limitato, nel 2010 dovrebbe già
andar meglio e la ripresa del prossimo ciclo iniziare. Spero che sia così, ma mi
fido poco delle loro prognosi.
Torno da
un congresso che si è svolto a Berlino dove c’erano i manager di punta di alcune
delle maggior imprese multinazionali, con sedi in tutto il pianeta, gente che
vive dentro la globalizzazione, che dovrebbe avere il polso dei mercati, gente
che tratta con le grandi banche d’affari e con i governi. Mi aspettavo un po’ di
chiarezza, qualche prognosi meditata. Balbettii, reticenze, sforzi per
minimizzare, qualcuno che fa saltare la conferenza all’ultimo minuto perché
richiamato d’urgenza. Pochissimi quelli che hanno parlato chiaro dicendo che la
cosa è molto seria, che nessuno sa come andrà a finire e che le conseguenze
potrebbero essere catastrofiche.
Ma voi vi occupate – giustamente – dei tagli alla spesa universitaria e tutti vi applaudono, docenti in testa e politici d’opposizione e magari anche qualcuno della maggioranza, siete scesi in piazza autonomamente e tutto sommato tira un’aria di consenso attorno a voi. Non era così nel ’68, forse perché allora un po’ di violenza c’era, in parte provocata dal comportamento dello stato o delle forze dell’ordine. Ma quel che di buono c’era allora, di eccezionale, era la grande voglia di capire il mondo che avevano gli studenti. In Francia erano partiti dalle tasse universitarie, dal discorso della riforma degli studi ma tutto sommato quel che volevano era molto di più, volevano darsi gli strumenti per cambiare le cose, volevano capire cosa succedeva nei paesi comunisti, o nell’America Latina dove sei mesi prima Che Guevara ci aveva lasciato la pelle, volevano capire a cosa portava la politica di Piano del governo gollista, che cos’era un sindacato operaio, volevano vedere come funzionava una fabbrica e come parlavano gli operai dentro, come funzionava un ospedale e come venivano trattati i malati. E’ questa grande voglia di sapere, questa sconfinata ambizione di sapere, questa utopica sfida alle capacità della propria conoscenza, che io non vedo tra di voi. O, meglio, che all’esterno non si vede, non si percepisce.
Volete
salvare l’Università, così com’è? Spero di no. Com’è oggi non vale una messa,
come si dice. Oggi si taglia malamente, d’accordo, ma ieri si è speso peggio e
tutti i governi ci hanno messo del suo. L’Università si è allargata come un
virus, qualunque cittadina con un sindaco un po’ dinamico riusciva ad avere il
suo pezzetto d’Università. L’Università come retail. Alla qualità della
spesa nessuno ha pensato e ben presto è nato il sospetto che questo meccanismo
dilatatorio non fosse – come ci raccontavano – animato dalla nobile intenzione
di fare della conoscenza una merce a portata di mano ma dal meschino proposito
di creare cattedre con il loro corollario di posti precari e malpagati. Se non
temessi d’essere frainteso vi direi: “La difendano loro questa Università, i
professori”. Voi che c’entrate? Avete mai avuto modo di partecipare sia pure
alla lontana alle decisioni che sono state alla base della configurazione
dell’Università com’è oggi? Finora, con le vostre tasse avete pagato un servizio
sulla cui qualità ed efficienza non esistono parametri di valutazione di cui
possiate disporre per chiederne il miglioramento. “Mangia questa minestra o
salta da quella finestra”. E quasi uno studente su due salta, il tasso di
abbandono nell’Università italiana – leggo sul sito
www.lavoce.info – è vicino al 50%. E chi inizia gli studi e li abbandona
sapete bene che è un soggetto ad alto rischio di disadattamento. Una volta,
quando la lingua italiana aveva ancora un tono popolare, si diceva “E’ uno
spostato”.
“Gli
studenti italiani potrebbero fare causa a metà degli atenei italiani per i
servizi che offrono”, scrive Roberto Perotti, nel libro L’Università truccata
(Einaudi, Torino 2008) – un libro che spero tutti voi abbiate almeno scorso.
A leggerne le prime 90 pagine vien da pensare che qualche abbandono può essere
stato provocato dallo schifo di fronte a certe situazioni di nepotismo e di
corruzione. Un libro che sfata alcuni miti, che combatte alcuni luoghi comuni,
come quello delle scarse risorse dedicate in Italia all’Università. Sono scarse
se si calcola l’ammontare della spèsa diviso per il numero di studenti iscritti
ma se invece si assume come parametro non il numero degli iscritti ma di quelli
che frequentano veramente a tempo pieno, l’Italia sarebbe ai primi posti nel
mondo.
Ma molti di voi potrebbero dirmi che la lotta contro i tagli al budget universitario è solo un veicolo per esprimere a livello di massa e con facile consenso opposizione al governo Berlusconi. Dunque non di bassa cucina si tratterebbe, non di volgari valori economici, ma di alta politica. E come nel ’68 gli studenti francesi avevano lottato in definitiva contro il Generale De Gaulle, così quarant’anni dopo gli studenti italiani lotterebbero contro il Cavaliere Berlusconi. (Per inciso debbo dire che mai due si sono assomigliati di meno, il Cavaliere anche coi tacchi rinforzati non sarebbe arrivato alla cintola del Generale, l’uno alto alto, rigido e solenne come una statua di cera, l’altro piuttosto basso e tarchiato, gesticolante a dentiera scoperta). Ma se questa è l’alta politica che vi spinge all’azione mi sentirei in tutta franchezza di dirvi “scegliete un percorso diverso” perché altrimenti rischiate di farvi usare come carne da macello da coloro che condividono con la Destra il pensiero strategico sottostante alle scelte economiche della Seconda Repubblica e dunque sono sostanzialmente corresponsabili della crisi attuale e delle sue conseguenze future. Ciò che minaccia il vostro futuro non è soltanto il governo della signora Gelmini ma un pensiero economico bipartisan che non ha mai saputo né voluto mettere vincoli o imporre regole a una gestione del sistema finanziario dove nulla ormai assomiglia a un mercato ma tutto assomiglia a un gioco d’azzardo con i soldi dei lavoratori e della middle class che vive del proprio lavoro. Un sistema che è stato capace di creare ricchezza fittizia e di distruggere ricchezza reale in misura mai vista nella storia recente. Un sistema la cui follìa era già evidente a tutti almeno dallo scoppio della bolla del 2001, un sistema che premiava i manager che gestivano le imprese non per farle crescere ma per farle dimagrire, aumentandone il valore di borsa a furia di licenziamenti del personale, per rivenderle e intascare fior di premi e plusvalenze. Un sistema che in nome dell’efficienza e della competitività distruggeva soprattutto le competenze, il capitale umano (quando si licenzia per diminuire l’incidenza dei salari si comincia dalle posizioni meglio retribuite, cioè dagli impiegati e tecnici più anziani e con maggiore esperienza). Un sistema che ha riprodotto nella società le abissali differenze di reddito esistenti nelle grandi aziende (manifatturiere o di servizi che siano) e che quindi ha ridotto l’Italia in un paese con i maggiori squilibri tra la parte più ricca e quella meno ricca della popolazione, come ben testimonia l’indagine Bankitalia sulle famiglie italiane. Un sistema che ha consentito
“a chi lavorava nella finanza di guadagnare già nel 2000 il 60 per cento in più rispetto agli altri settori”
– scrive Esther Duflo, che insegna al MIT di Boston - e aggiunge:
“Il problema delle remunerazioni è stato ovviamente affrontato negli Stati Uniti quando si è discusso il piano Paulson, che autorizza il governo americano a spendere 700 miliardi di dollari per acquistare i toxic asset rifiutati dai mercati. Sembra ingiusto far pagare ai contribuenti il disastro creato da coloro che in un’ora guadagnavano 17mila dollari”,
e conclude il suo intervento con queste parole:
“Osservando gli avvenimenti di questi giorni vien voglia di mandare a casa certi nostri amministratori delegati del settore finanziario. Speriamo almeno che la fine dei guadagni esorbitanti incoraggi i giovani a dedicarsi ad altri settori dove i loro talenti potrebbero essere più utili alla società. La crisi finanziaria potrebbe farci cadere in una recessione grave e prolungata. L’unico vantaggio potrebbe appunto essere quello di un migliore impiego dei nostri giovani più dotati”.
Le elezioni americane, portando alla presidenza Barack Obama, sono state una bella reazione a questa insopportabile situazione e fareste bene a riflettere in seminari di autoformazione su quel che è accaduto negli Stati Uniti. Tutta la stampa e l’opinione corrente è unanime nel dire: “E’ accaduto un fatto nuovo perché è stato eletto un nero, un afroamericano”. Soliti giudizi superficiali, da semianalfabeti della politica. Queste elezioni sono state importanti perché dopo circa 30 anni – dai tempi di Reagan – la tematica di classe è stata al centro del dibattito. Non del proletariato, ma della middle class (di cui fanno parte anche strati operai di grande fabbrica), cioè di quel ceto medio che per più di un secolo ha fatto da collante alla credibilità dell’american dream e che da alcuni anni – proprio in conseguenza dei processi scatenati da una forma di capitalismo senza regole e senza etica, un capitalismo di avventurieri e di giocatori d’azzardo – ha subìto un processo d’impoverimento che non trova paragoni se non nella grande crisi del 1929. Contro questa tendenza alla disgregazione sociale e all’impoverimento della middle class hanno cominciato a battersi da alcuni anni molte iniziative civiche (tra le tante quella messa in piedi dalla nota giornalista e scrittrice Barbara Ehrenreich con il sito www.unitedprofessionals.org). Barack Obama ha colto questo disagio, questo malessere, e ne ha fatto il suo tema dominante. Non ha parlato, come ormai ci hanno abituato questi bolsi, stucchevoli, “politicamente corretti” leader della cosiddetta Sinistra, di “quote rosa”, di gay, non ha parlato di bianchi e di neri, di aiuole pulite e di biciclette, è andato al sodo, ha puntato il dito sui disastri del neoliberalismo selvaggio, ha fatto per la prima volta dopo 30 anni un discorso di classe. E ha vinto riuscendo a portare alle urne anche i giovani, che al 70% hanno votato per lui. Ha colto la grande tendenza dell’epoca, quella che da tempo cerco di chiarire a me stesso ed agli altri nei miei scritti sul lavoro (l’ultimo mio libro si intitolava “Ceti medi senza futuro?” e non se l’è filato nessuno).
Sono
convinto che la lotta che state conducendo potrebbe essere utile a voi stessi e
agli altri se ne approfittaste per crearvi un vostro sistema di pensiero,
per procurarvi strumenti critici in grado di capire com’è accaduto quel che è
accaduto e quali sono stati i perversi meccanismi che in questi ultimi vent’anni
hanno dominato l’economia, senza che venissero contestati né da Destra né da
Sinistra – a parte qualche voce isolata di studioso. “Un sistema che si
autoregola, per questo esistono le Authorities” - recitava la litania liberista
in questi anni. Balle! Basterà dire che lo scandalo Enron, che spesso viene
portato ad esempio della severità con cui il sistema USA punisce le aziende dal
comportamento irregolare, non sarebbe mai scoppiato se una donna che era membro
del Consiglio di Amministrazione non avesse deciso di “cantare”, di svelare gli
imbrogli. Una “gola profonda” è stata all’origine di tutto, non certo l’FBI!
Negli anni della forsennata privatizzazione (1992/93) con cui l’Italia ha messo
nelle mani di nuovi raider della finanza immensi patrimoni pubblici
(leggetevi a questo proposito il libro di Giorgio Ragazzi I signori delle
autostrade, Il Mulino, Bologna 2008 – ma lo stesso se non peggio
potrebbe dirsi di Telecom), suggellando il suo “golpe bianco” con l’accordo
sindacale del luglio 1993 grazie al quale oggi abbiamo i salari d’ingresso più
bassi d’Europa, non erano certo personaggi della nuova Destra a menare la danza
ma uomini come Romano Prodi ed altri ex manager pubblici. A beneficiarne sono
stati i Tronchetti Provera, i Benetton, i Colaninno, i Gavio – li ritroviamo
tutti guarda caso oggi nella vicenda Alitalia. L’Università di Siena ha la
reputazione di essere un centro di eccellenza nelle discipline economiche e
bancarie. Vi hanno mai parlato di queste storie e come ve ne hanno parlato? E
della crisi odierna che vi dicono? Che è una solita crisi ciclica, forse un po’
più acuta ma in sostanza è tutto normale, razionale, un po’ di eccessi magari ci
sono stati ma il sistema è saldo, è sano. Questo vi dicono? Non vi dicono che
questo sistema, questi meccanismi, creano, stabilizzano, consolidano le
disuguaglianze sociali, le ingiustizie sociali? Non vi dicono che questo sistema
umilia, calpesta le competenze, il capitale umano? Che è l’esatto contrario
della knowledge economy di cui si riempiono la bocca, l’esatto contrario
di un sistema meritocratico? E se non ve le dicono queste cose, se continuano a
raccontarvi le solite favole di Cappuccetto Rosso, se continuano a farvi flebo
d’ideologia liberista – allora mandateli loro a protestare nelle piazze per i
tagli all’Università.
Questa
vostra lotta ha un senso se è un passo in avanti, se diventa atto costitutivo di
un processo di autoformazione.
Quel che
è avvenuto in questi mesi non è mai accaduto nell’ultimo secolo e cioè che
istituzioni e persone le quali hanno prodotto danni incalcolabili (pensate
soltanto ai fondi pensione che si sono volatilizzati con questa crisi!) invece
di essere punite ed i loro beni sequestrati, sono state salvate senza che lo
stato, che ha fornito i mezzi per salvarle, assumesse il controllo di queste
istituzioni. Un regalo di enormi proporzioni agli avventurieri, ai ladri, una
terribile lezione morale per le nuove generazioni. (Non che la gestione pubblica
sarebbe stata migliore, in Germania le peggiori nefandezze le hanno commesse
alcune banche pubbliche come la Landesbank della Baviera).
C’è
stato qualcuno che vi ha chiamato in piazza per opporvi a questa vergogna?
Ma ha
ragione in un certo senso anche chi dice: “che cosa si poteva fare d’altro?”
Nessuno infatti ha saputo o voluto in questi anni immaginare una società diversa
che non fosse un’utopia. Alternative globali nessuna, solo strategie di
sopravvivenza. Ed è sostanzialmente questo che vi propongo anch’io: costruendo
percorsi comuni di autoformazione costruite anche delle reti, vi liberate pian
piano dalla costrizione all’isolamento, dall’individualismo e soprattutto
dall’illusione che “una buona preparazione universitaria”, corredata magari da
qualche corso o master post laurea, possa mettervi al riparo dalla crisi, dalla
sottoccupazione o dall’umiliazione di vedervi trattati dal datore di lavoro come
un puro costo.
In un
paese dove i salari d’ingresso, quelli dei primi assunti, sono i più bassi
d’Europa, la preparazione conta assai poco. I precari, i lavoratori a tempo
determinato, hanno delle remunerazione parametrate su quelle dei primi assunti.
Dunque anche loro sono pagati peggio che altrove. E le vostre generazioni
rischiano di andare avanti con lavoretti precari fino ai 40 anni. Pertanto è
pura demagogia quella di coloro che parlano di democratizzazione degli accessi,
che difendono di questa università il fatto che possono iscriversi anche i figli
di famiglie povere. Il problema non è la massificazione della popolazione
studentesca ma il fatto che il capitale umano di un laureato non vale una cicca
sul mercato del lavoro! O i giovani riacquistano un minimo di forza
contrattuale sul mercato del lavoro oppure l’università sarà solo un frigorifero
di disoccupati, un osceno apparato di puro controllo sociale. Pesanti le
responsabilità sindacali per questa situazione. Miope e meschina la strategia
del padronato italiano da vent’anni a questa parte. Squallido il mondo
dell’informazione che su questa realtà tace o si sofferma di sfuggita. Quarant’anni
fa gli studenti sono andati nelle fabbriche, negli uffici, nei laboratori di
ricerca, negli ospedali, nelle aule dei tribunali, nelle redazioni dei giornali
a vedere come funziona il mondo reale, non si sono accontentati di lasciarselo
raccontare, non hanno fatto visite guidate. Ficcatevi nei processi reali ovunque
se ne presenti l’occasione! Usate la grande risorsa del web per procurarvi le
notizie alla fonte, per attingere a visioni critiche del mondo, anche se questo
esercizio talvolta vi costringe a rovistare nella spazzatura di Internet. Gli
Stati occidentali che hanno smantellato i sistemi di welfare si sono
ridotti a ingoiare toxic asset, voi cercate di non inghiottire toxic
learning! Avrete già fatto un passo in avanti per vivere meglio.
Organizzate incontri con quelli che hanno alcuni anni più di voi, fatevi
raccontare come vengono accolti dal mondo del lavoro, quando escono
dall’Università. Frequentate i blog dove la gente racconta le proprie esperienze
di lavoro, chiedetevi seriamente se val la pena di studiare in un’Università
com’è fatta oggi oppure se non sia meglio costruire processi di autoformazione e
di controinformazione. Scatenate la fantasia nel creare un’estetica della
protesta, efficace, aggressiva, non ripetitiva, le forme della comunicazione
sono state uno degli strumenti vincenti delle lotte del proletariato nel
Novecento, ripercorrete le spettacolari performances degli occasionali
dello spettacolo francesi che hanno tenuto duro per un paio d’anni, buttate
nella spazzatura vecchi slogan, scanditi stancamente, parole d’ordine che sono
ormai diventate banalità che fanno venire il latte alle ginocchia. Ai vostri
colleghi che affollano le facoltà di comunicazione non viene nulla in testa?
Ho insegnato all’Università per quasi vent’anni, quando mi hanno cacciato non ho fatto nulla per restare, per difendere la mia cattedra, gli ultimi due anni d’insegnamento li ho passati all’Università di Brema, ormai un quarto di secolo fa. Ci sono tornato in questi giorni perché un mio collega di allora prendeva congedo definitivo dall’insegnamento e andava in pensione un anno prima del termine previsto dalla legge in Germania. Aveva rinunciato, com’è d’uso, alla lectio magistralis. E nelle poche parole di congedo davanti a un centinaio di amici e colleghi ha voluto dire perché se ne andava in anticipo. “ho fatto il Preside di Facoltà in questi ultimi cinque anni, mi ci sono dedicato completamente, pensando di fare il mio dovere, non ho avuto tempo né di studiare né di tenermi aggiornato, non me la sento di tornare a insegnare per dire le stesse cose di cinque anni fa, non me la sento per onestà verso gli studenti”. Quanti docenti italiani farebbero lo stesso? Questi fanno i Ministri e poi tornano tranquillamente a insegnare, specialmente se vengono da governi di centro-sinistra. Malgrado l’Università italiana sia un luogo da cui sono contento di essermene andato, sia un luogo che umilia le intelligenze invece di stimolarle, credo che siano ancora tanti i docenti e molti i ricercatori con i quali voi potete stabilire un patto di formazione negoziata. Le dinamiche di coalizione che si creano durante un processo rivendicativo, durante una protesta che chiede la restituzione di qualcosa – come la maggior parte delle proteste che nascono da situazioni difensive e non da un’iniziativa preventiva – sono molto fragili e rischiano d’impoverirsi e irrigidirsi, troppo focalizzate sull’obbiettivo. Pertanto occorre pensare ad attivare processi di continuità, svincolati dall’obbiettivo. Francamente, se la 133 viene ritirata la vostra condizione di fondo non cambia. E’ questa condizione che dovete cambiare.
6 novembre 2008
[17 novembre 2008]
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