home> fortiniana> Una volta con Fortini

Una volta con Fortini

Cristina Alziati


Riprendendo in mano queste pagine per affidare con esse il mio ricordo di Franco Fortini all’Ospite ingrato Online, mi accorgo che rammentarne oggi per me continua ad essere indissolubilmente intrecciato con quanto di lui mi sembra necessario consegnare ad altri, a chi si creda e si voglia essere nel presente per trasformarlo.

 

I. «Mi si chiedesse: “Sei pro o contro l’America?”, prima di rispondere sposterei con la mano destra la Colt puntata alla mia tempia sinistra» (1). La Colt da cui Fortini, come scrive, si sapeva minacciato, si deduce la impugnasse il generale americano Schwarzkopf, che condusse le operazioni militari delle potenze occidentali contro l’Iraq nel 1991. Non so che fine abbia fatto quel generale. L’arma, passata di mano in mano a seconda delle tipologie delle aggressioni susseguitesi nel corso degli inverni in questione, ci ha tenuto costantemente sotto tiro. Con in più la variante da giro di millennio: chi minaccia, ammicca – indicando le macerie del Pentagono e delle Torri.

II. Conobbi personalmente Fortini nel contesto di quell’intervento. La mattina del 16 gennaio ’91, dopo una notte trascorsa in presidio a piazza del Duomo, partecipai ad una grande assemblea all’università Statale di Milano; era formalmente cominciato l’attacco contro Saddam Hussein, a danno della popolazione irachena. Trascrissi sulla grande lavagna dell’aula una poesia di Bertolt Brecht (da cui il titolo del mio intervento), composta dal poeta in esilio nell’imminenza delle invasioni del Reich tedesco. Fortini si trovava in quell’aula, disposto a mettere la sua conoscenza al servizio di chi volesse capire quanto ci stava succedendo.
Una volta, a casa di compagni molto cari, disse che era tempo di imparare a memoria i numeri di telefono degli amici, di disporsi a resistere dalle catacombe – era rivolto a noi più giovani. Capii e non capii; stentavo a figurarmi che le condizioni dello scontro da noi ci avrebbero consegnato al rischio estremo. In parte fatico tutt’ora a immaginarlo; ma interroga la consapevolezza che altri, con cui abbiamo in comune un nemico, a tanto sono.
Non posso non pensare agli iracheni che combattono contro l’occupazione militare anche italiana, che resistono a Najaf dai luoghi scavati in profondità nella roccia – milioni di tombe e cappelle dove stanno sepolti i loro morti.

III. Il frantumarsi degli equilibri del bipolarismo venne spacciato come condizione per l’avvento dell’armonia prestabilita. In realtà si trattava d’altro. Di prestabilito, a fronte di un mutato quadro internazionale, stava la vocazione totalitaria del sistema capitalistico a espandere il proprio dominio per unificare il mercato del lavoro e realizzare il controllo sullo sfruttamento delle risorse a livello mondiale.
Il peggio che Fortini vide arrivare, lo vide in quella guerra e attraverso di essa. Scrisse in proposito: «[…] il senso della impresa del Golfo fin dall’inizio si presentò come un osceno spettacolo instaurato al fine di mostrare a tutti i popoli, a tutti gli umiliati e offesi, quale sarebbe stata la loro seconda sorte qualora avessero osato ribellarsi o procedere a partire dai propri interessi e non da quelli dei padroni del mondo» (2). Quella guerra, che portava con sé la violenza militare dispiegata per ridefinire l’ordine delle gerarchie internazionali, era figura di altra violenza – necessaria al sistema che vive di sfruttamento e produce disuguaglianza per abbattere resistenze, minare solidarietà profonde, occultare le linee delle divisioni oggettive, rendere disponibili spettri di nemici.
«Tempesta nel deserto» fu il nome dato allora alle operazioni militari in Iraq. A chi non rendeva la propria coscienza alla pacificazione delle società occidentali quella locuzione suonava promessa di ulteriori desertificazioni.

IV. Mentre a Berlino si montavano le bancarelle per lo smercio di spillette rosse e pezzi del muro, nell’esaurirsi della storia dei Paesi socialisti si volle intendere il venir meno della ragione d’essere della lotta per il socialismo e lasciar credere che nell’unum superstite i tres, mercato democrazia diritto, avrebbero garantito una gestione delle umane sorti nell’interesse di tutti i viventi.
Nel consolidarsi del mercato e nell’esercizio del diritto super partes, a rivelarsi sono proprio le parti. Una è quella che «[…] nega di fatto, a colpi di parole o di leggi o di capitali o di missili, l’uguaglianza dei diritti – e la finale identità umana – fra i privilegiati e i “dannati della terra”» (3). L’altra è l’altra.
A seguire sono gli anni delle guerre umanitarie e giuste, degli attacchi ai diritti del lavoro e a quelli fondamentali dell’individuo. La sinistra occidentale accetta che non si dia alternativa al sistema capitalistico dei rapporti di produzione; il contributo che essa fornisce al consolidarsi del comando del mercato e alla delegittimazione della politica è contributo politico.
Per chi parla di un superiore ordine dell’umano e tace del privilegio – che i rapporti fra gli uomini ordina – vicende e soggetti divengono irrappresentabili in termini politici. Il carico di violenza pare fatale; i nomi che si danno alle parti credute nemiche sono quelli offerti dal linguaggio razzista e forcaiolo di una civiltà destinata a dividere per regnare.
E’ analfabetismo di ritorno per ampia parte di quella tradizione marxista che aveva altrimenti saputo vedere, con le parole di Fortini, « […] nei “deboli” […] la forza suprema e negli “oppressi” i capaci di mutarsi da merci in uomini» (4).

 V. Fortini non era l’unico a capire che l’appoggio conferito dai paesi occidentali agli Usa nel 1991 per l’invasione dell’Iraq era precario. Quella aggressione, avvertiva in un intervento a Radio Popolare, era rivelatrice di contraddizioni interne allo stesso schieramento del capitale. Lo sapevano anche gli strateghi del Pentagono.
Le Linee orientative della Difesa per il periodo 1994-1999 esplicitano l’obiettivo degli Stati Uniti, «volto ad impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione le cui risorse sarebbero sufficienti, se controllate strettamente, a generare una potenza globale; queste regioni comprendono il territorio dell’ex Unione Sovietica, l’Asia orientale e Sud Occidentale». (5) Un corridoio di grande interesse economico e strategico – per risorse energetiche e relative condutture –, che si stende dal Mar Caspio al Golfo Persico, è incluso in questa metà della faccia della terra. In altri documenti ufficiali si indica che la minaccia all’egemonia statunitense è costituita del potere economico dell’Unione Europea, da quello anche militare cinese, dalla Russia, dall’India.
Gli strateghi del Pentagono sono fra coloro che non cianciano di scontro di civiltà.

 VI. «Questo terribile attacco – ho annotato da un ritaglio di giornale – sottolinea la minaccia del terrorismo e mostra perché dobbiamo lavorare tutti assieme sul piano internazionale per proteggere le nostre popolazioni». Parola di Tony Blair, dopo le bombe nei treni a Madrid e una settimana prima di grandi manifestazioni indette in moltissimi paesi contro la guerra.
Ad ogni annuncio di attentati non posso fare a meno di rammentare sul quotidiano del Pci la foto di Valpreda, che venne immediatamente indicato come autore della strage a Piazza Fontana. Valpreda era un anarchico, era il 1969. In un lavoro di grande portata politica alcuni giudici hanno mostrato il disegno della strategia della tensione che venne dispiegato nel nostro paese per la collaborazione di governi, alti comandi militari italiani e della Nato, servizi segreti italiani e Cia.
Sorry, gli americani dissero che c’erano i carri sovietici pronti a invadere la penisola. E non era vero; in nessun altro paese dell’Europa atlantica si rese necessaria quell’età di stragi e terrorismo; nessun altro paese era, come l’Italia, maturo per il socialismo. Bisognava evitare che la penisola si invadesse da sé.

VII. La guerra fredda non c’è più. La Nato, sorta per contrastare le armate del Patto di Varsavia, non c’è più. Ora c’è la Nato. E’ una alleanza militare sotto comando statunitense, deputata a intervenire ovunque siano nel mondo minacciati gli interessi occidentali; talvolta viene chiamata «corpo di polizia internazionale».
Sarajevo non c’è più.

VIII. Apro a caso Il libro nero degli Stati Uniti  (6), settecento fitte pagine che documentano, dei crimini nordamericani commessi ovunque a partire dal 1945, non più di quanto si riesca a documentare.
Rivedo le annate di cubitali sulla causa di tutti i mali – anarco-insurrezionalisti, studenti, precari e operai, sindacalisti di base, immigrati, assassini, criminali. E non è un incubo la faccia di Wòlfowitz, che spiattella a noi dannati e mortali che sì, è stata la Cia, e dove non si dice, che ora – ora c’è solo la guerra, quella che non ha più nome – anzi guardate, ora c’è la pace, persino in Iraq. E’ stata stipulata la pace.

IX. La pace duratura la duratura guerra e la giustizia infinita. Sembra già di stare nel regno dei cieli, dove non mette conto ragionare di speranza, di dovere di un riscatto.
Ma non tutti si ingannano sulla fine della storia. Il sistema che unifica il pianeta nel reticolo dei rapporti di produzione capitalistici, e riproduce inuguaglianza ed esclusione all’interno delle singole società e fra gli Stati, contiene in sé un conflitto antagonistico fra due parti. Il capitale sa cosa nel suo dominio non può finire. Lontano dall’ordine rozzo e sparso delle minuscole fabbrichette del civile Nord Est – dove può capitare che un imprenditore dia fuoco all’immigrato, se chieda la retribuzione per il lavoro di mesi arretrati – vengono allestite le strategie per fronteggiare l’eventuale ricostituirsi di gruppi che, riconoscendosi parte sfruttata oppressa alienata in un conflitto sociale, cerchino di organizzare la lotta politica per trasformare i rapporti che li opprimono.

X. Al frastuono della retorica umanitaria, al rombo degli aerei che volano a bombardare i Balcani si sommano, preventivi, i colpi sordi dei manganelli con cui a Genova, per avere manifestato contro le politiche liberiste dei G8, centinaia di noi sono stati aggrediti nel sonno dalle forze dell’ordine della democrazia parlamentare.

XI. «Una volta ogni cent’anni / uno dice che la sola necessaria / è la guerra alla guerra. E la vince. Ma c’è subito / chi confeziona una valigia al tritolo / una morale al plastico / una sintassi flessibile» (7).
Trascrivo, da versi che Fortini compose a dieci anni dalla strage nella stazione di Bologna.
Uno di quelli che parlano ogni cento anni ha lasciato parole definitive sulla pratica del terrorismo, rifiutandola per ragioni eminentemente politiche – in quanto oggettivamente funzionale alle strategie repressive di quel nemico che si illude di combattere.
Fra lo sciopero generale del marzo 2002, convocato dalla CGIL contro l’attacco ai diritti del lavoro, e la manifestazione a Roma, alla quale parteciparono tre milioni di persone, eccola la valigia, eccolo il plastico, l’accusa puntuale al sindacato di essere mandante morale dell’omicidio di un consulente del Ministero del lavoro appena assassinato; eccoli nel coro uniti i vari Cossiga le mai abbastanza implose dirigenze del male imploso Pci i pentiti gli intellettuali democratici, tutti: a declamare la vera falsità – che lotta e violenza terroristica siano la stessa cosa.

XII  «Oggi e subito – cito Fortini – “il nemico”, quello contro cui è necessario non solo conflitto ma guerra, è tutto quello che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci» (8).
Quando meno crediamo di poter distinguere più lo dobbiamo. La maggior parte di coloro che combattono in Iraq contro l’occupazione, la maggior parte della popolazione che sostiene la resistenza, non è inquadrata nella propaganda fondamentalista saudita, non è costituita da suicidi pronti a lanciarsi sulla popolazione civile. Che boccata d’aria, poter sentire ai notiziari di regime le volontarie italiane di Un ponte per ringraziare, dopo essere state liberate, la comunità musulmana internazionale – poco importa se avevano appena stretto la mano alla gentaglia che ci governa. L’impegno politico di quella associazione in Iraq data dai primi anni Novanta, i progetti che attua per sottrarre violenza alla violenza quotidianamente imposta alla popolazione irachena corrono paralleli con la denuncia degli interessi celati dietro le aggressione militari e le sanzioni economiche.
La pratica di rapporti di solidarietà apre la strada per individuare le strutture oppressive che tagliano i confini delle identità costruite su differenze religiose, etniche, culturali; nega nei fatti che siano queste differenze a generare conflitti inconciliabili.
Non dimentico il destino di un popolo cui è negato il diritto all’identità politica e nella cui quasi esausta resistenza pure dobbiamo ostinarci a distinguere. Ci incoraggiano a farlo i compagni israeliani che, dal loro paese e dalle sue carceri – in cui sono rinchiusi quanti si rifiutano di partecipare alla repressione dei palestinesi – di questi ultimi sostengono la causa. «I facitori di pace – scrive Fortini – sono coloro che, accrescendo la cerchia dei rapporti, dei temi o delle ragioni di non-conflitto, spostano la frontiera degli inevitabili e fecondi conflitti, inducendo sempre più ampie alleanze e sempre più precisamente definendo e chiamando per nome i nemici» (9).

XIII. Nessuno è ancora riuscito a spiegarmi perché debba temere di saltare in aria in una sala d’aspetto per i disegni del fondamentalismo islamico più di quanto non debba temere che sia per i disegni di civili dirigenze e cristiane.

XIV. Quotidianamente giungono notizie di tremendi crimini. Qualcuno tenta di ricondurre il macello dei terroristi-suicidi alle condizioni di disperazione e assenza di prospettive politiche in cui versano intere società umane. Giulietto Chiesa elenca le cifre, illustra la potenza organizzativa e militare, indica le coperture necessarie; nomina le oligarchie internazionali, le strettissime relazioni che, nella guerra per il predominio, quelle oligarchie legano assieme.
L’esercito dei mercenari nel mondo ammonta a 300.000 individui, pagati ciascuno 5.000 euro al mese. Chiederò a mia figlia di calcolare, è molto giovane e, credo, innocente.
I bambini falciati nella scuola in Ossezia, i bambini fatti esplodere nello scuolabus a Tel-Aviv non sarebbero sopravvissuti a Baghdad, non nei Territori occupati, dove vengono ammazzati dai regolari soldati dei paesi democratici; non sarebbero sopravvissuti se avessero raccolto una delle mine giocattolo dai soldati dell’impero del bene lasciate nei campi apposta per loro.

 XV. A sconforto si somma lo sconforto di trovare nel «il manifesto» articoli del giornalista Riccardo Barenghi, che si compiace di insinuare il dubbio – se non sia da preferire il meno peggio dell’occupante democraticizzato al peggio del barbaro fondamentalista.
Occuparsi di un falso dilemma, lasciando intendere che sia questa la contrapposizione su cui ci si debba schierare fa parte del peggio. Avvelena.

XVI. In un bellissimo film sull’Italia del dopoguerra, girato da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, rivedo lo schermo oscurato sull’orrore. Alla pietà attonita chiede di non aggiungere altro orrore, di tacere ogni parola immediata. Si intitola Dalla nube alla resistenza.

XVII. Con gli elenchi delle rivendicazioni delle attribuzioni delle sigle si susseguono gli appelli all’unità e il richiamo all’ordine atlantico, gli articoli razzisti, il linguaggio delle reazioni emotive – di chi, forte della propria superiorità tecnologica militare, nomina umanitario l’esercizio della propria violenza, civile la propria barbarie.
Supremo, il capolavoro della civiltà della sedia supremamente elettrica: concedere al «tagliatore di teste» imprigionato ad Abu Ghraib di consistere in extremis nella propria natura barbara – conducendolo a tagliarsela, la testa, da sé; sotto tortura.

XVIII. La parte più nobile della nobile Europa dixit. Basta con la violenza degli oppressi, degli oppressori, di tutti, dappertutto e senza distinzione.
E’ gente che un mattino del 1989 si è sentita liberata dall’incombenza della trasformazione dello stato presente delle cose. Parla come l’Occidente fosse misura dell’universo. Gli accade, quando si tratta degli oppressi, di rigettare come immorale violenza la lotta; e in generale di dover rimuovere la coscienza di una violenza originaria per poter aprire la bocca.
La donna racconta della cooperativa contadina, del raccolto, della strada che ora collega le abitazioni fra loro, delle tubature che dal pozzo convogliano l’acqua, della piccola scuola; e dell’essersi formato di una coscienza collettiva, da cui dice non poter più tornare indietro. Parla del Venezuela. Era occupata da latifondisti e lasciata incolta la terra che il governo le ha dato in concessione, e lei ora coltiva. E ancora rammenta le incursioni dei latifondisti, le loro squadre della morte; «vengono – dice – a distruggere il raccolto e ad ammazzarci».
Il rifiuto della violenza non può essere generico, né la questione porsi astrattamente. E’ qualcosa di ben chiaro a Fortini, che all’inizio degli anni Novanta scrive: «[…] le finalità che le guerre di classe si sono proposte possono-debbono oggi essere combattute e raggiunte altrimenti che con le armi. E non perché la violenza sia, in astratto e sempre, il “male”. Ma perché oggi e qui essa serve ai nostri avversari» (10).
Fortini sa che di fronte alla scelta della violenza come strumento di lotta politica ci si può trovare collettivamente e tragicamente costretti. Cito ancora le sue parole: «A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo […] è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin, “che quando decine di milioni di uomini vengono mandati a uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere a un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi”. Questa è la situazione tragica dell’esistenza umana: essere uomini significa questo» (11).

XIX. Fortini scrive di non riuscire a immaginare cosa sia un uomo «[…] quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’uguaglianza» (12).
Uno dei suoi ultimi versi, indicando una parte, allude a una minaccia. Proteggete le nostre verità (13). Al fondo delle nostre verità, una insegna la storia di una violenza originaria, necessaria a difendere il privilegio, a imporre lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, a rendere merce tutto quanto esista nel tempo e nello spazio. Protezione può darsi solo combattendo le cause materiali e politiche che negano uguaglianza, giustizia, libertà; che contraddicono o, con le parole di Fortini, «[…] fa[nno] arretrare tutto quel che riteniamo buono e giusto per noi e per gli altri» (14).
«Il comunismo – cito ancora – è il combattimento per il comunismo. E’ la possibilità (scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero possibile di esseri umani viva in una contraddizione diversa da quella odierna» (15). La lotta è in nome di valori indimostrabili, necessaria, per un bene non garantito – a fronte, questa sì garantita, la barbarie, iscritta nel firmamento dello scudo stellare, nel mare che mese a mese si riempie di cadaveri. Questo cielo e questo mare costituiscono il nostro attuale orizzonte storico.
Il nemico dell’umanità, e di un’idea di civiltà e di società, sta dalla parte di chi ha interesse a disporre, per la raccolta stagionale di pomodori, nei cantieri edìli piemontesi, e nelle scuole e gli ospedali, della forza-lavoro di soggetti di nessun diritto; sta dalla parte di chi rinchiude in centri che chiama «di accoglienza», legati per i polsi a due a due, quanti sbarcano più morti che vivi in cerca di asilo sulle coste dell’Europa meridionale, prima di deportarli nel deserto. Il nemico dell’umanità sta dalla parte di chi scarica migliaia di tonnellate di bombe sulla faccia della terra, allestisce Guantànamo, redige i manuali su cui istruire i torturatori delle proprie carceri pubbliche o private.
«Molti di noi – avverte Fortini – non hanno ancora scoperto la radice della brutalità che li atterrisce. Corrono sempre il rischio di considerare come non necessarie quelle crudeltà. Tengono ai rapporti di proprietà perché credono che per difenderli non siano necessarie le crudeltà del fascismo» (16).
Non so un altro mondo sia possibile, ma doveroso e necessario è combattere contro il potere di coloro che impongono il dominio del capitale. Con il Brecht dell’esilio, «la loro guerra uccide / quello che alla loro pace / è sopravvissuto» (17).

 

 

Intervento letto a Siena, ottobre 2004. Pubblicato in Dieci inverni senza Fortini, 1994-2004, Quodlibet 2006 con il titolo «La loro pace e la loro guerra»

 

 

Note  

(1) F.Fortini, Disobbedienze, Manifestolibri, 1996, II, 177

(2) F.Fortini, Disobbedienze, 234

(3) F.Fortini, Disobbedienze, 169

(4) F.Fortini, Disobbedienze, 202

(5) Pentagon's Feb. 18 Draft of the Defense Planning Guidance for the Fiscal Years 1994-1999, New York Times, 7.3.1992

(6) W.Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, Fazi Editore, 2003

(7) F.Fortini, Indignarsi è consolarsi. La poesia è parzialmente riprodotta in Disobbedienze, Manifestolibri, 1996, II, 196. Integralmente figura in Antigone delle città, a cura di B.Tognolini, pubblicazione promossa dal Comitato di solidarietà alle vittime delle stragi, Comune di Bologna, 1992

(8) F.Fortini., Disobbedienze, Manifestolibri, 1996, II, 169

(9) F.Fortini, Disobbedienze, 168

(10) F.Fortini, Disobbedienze, 131-132

(11) F.Fortini, Non solo oggi, Editori Riuniti, 1991, 303

(12) F.Fortini, Disobbedienze, Manifestolibri, 1996, II, 38

(13) F.Fortini, Composita solvantur, Einaudi, 1994, 63

(14) F.Fortini, Disobbedienze, Manifestolibri, 1996, II, 132

(15) F.Fortini, Non solo oggi, Editori Riuniti, 1991, 41

(16) F.Fortini, Disobbedienze, Manifestolibri 1996, 236

(17) B.Brecht, Poesie e canzoni, Einaudi 1959, 240-241

 

[5 ottobre 2008]

 

home> fortiniana> Una volta con Fortini