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Franco Fortini. Un giorno o l'altro

Alessandra Reccia

 

Nell’autunno del 2007 Quodlibet ha pubblicato Un giorno o l’altro, l’ultimo e incompiuto lavoro di Franco Fortini. Si tratta di una raccolta di vario materiale distribuito per anni e dal 1945 al 1978. Certamente la prima cosa che notiamo è la molteplicità degli argomenti e temi trattati e la divisione in anni. L’insieme degli anni costituisce l’opera. Articoli, recensioni, lettere private e pubbliche, raccontini, invettive e considerazioni personali ne sono il materiale.
Ad una prima lettura sembra impossibile inquadrare questo lavoro tramite una forma o in un genere preciso; ogni commento risulta insufficiente, e un giudizio non pronunciabile.
Per tali motivi, ci limiteremo a portare all’attenzione alcuni degli elementi che si palesano al nostro sguardo ponendosi  in evidenza.
 

Un giorno o l’altro, e questo si capisce anche solo sfogliando il libro, non si legge tutto d’un fiato (che non significa non sia leggibile in maniera consequenziale) e cioè non si lascia scorrere come per esempio, un romanzo. La struttura stessa dell’opera, l’organizzazione dei suoi materiali impone un arresto almeno ad ogni articolo e una pausa lunga al concludersi dell’anno.
“Arresto” e, di conseguenza, “ripresa” sono i due momenti che caratterizzano la lettura di questo testo e impongono, o almeno a noi hanno imposto, da un lato di considerare il singolo articolo come lente di ingrandimento su un particolare evento, storico o personale, dall’altro, l’atto della ripresa, ‹‹del riprender fiato», induce a superare il momento particolare e frammentario.
In base alla lezione benjaminiana sappiamo come l’atteggiamento critico segua questo principio che è proprio della scrittura, la quale si arresta e ricomincia da capo ad ogni frase. Questo «ininterrotto riprender fiato» è una attitudine del pensiero nell’atto della conoscenza. In questo senso è un procedimento critico. 

I diversi materiali compresi all’interno di un singolo anno non sono legati da una esplicita connessione logica o teorica. Ma si tengono insieme per mezzo di altro. Il tentativo di individuare la traccia, o i criteri per i quali si mostra l’insieme compatto dell’anno, è lo sforzo al quale il testo ci invita ad ogni pausa.
Ogni volta, per ogni anno, individuiamo temi, categorie, giudizi, che possono richiamarsi nel complesso dell’opera in maniera talvolta implicita, altre esplicita, confermandosi o opponendosi Eppure alla base di questa eterogeneità, molteplicità delle forme di scrittura e degli argomenti, ritroviamo una costante che non è tematica, ma formale, e che riguarda il modo di relazionare, rapportar ogni volta il singolo materiale, il frammento, e poi il singolo anno, all’insieme dell’opera.
Indagare questo rapporto, quello tra il momento “particolare”, il singolo documento, e quello più generale e compatto, ci sembra operazione meritevole di essere svolta; ovvero ci sembra la domanda che possiamo rivolgere all’opera nella sua totalità, in quanto questa indagine richiama alcune delle questioni basilari delle discipline umanistiche, della letteratura come della filosofia, della storia e della sociologia, e cioè il rapporto tra soggetto e oggetto, individuo e società.
Questo rapporto oltre ad essere costitutivo dell’opera è, allo stesso tempo, anche un suo oggetto di indagine, cioè il libro lo possiede come oggetto di conoscenza

In realtà, questi sono, anche per Fortini, problemi adorniani. Ma, se scomodiamo l’intellettuale tedesco, non è solo perché più volte, e dichiaratamente, Fortini vi si rivolge ma soprattutto perché oltre che al livello meramente teorico, Adorno pone il problema della complessità di questo tipo di rapporti nella società contemporanea a partire dalla forma stessa dei suoi scritti. Nei Minima moralia in particolare essi non sono considerati  in astratto, né ipostatizzati, ma assunti come problema della forma della scrittura. I frammenti, i luoghi del punto di vista soggettivo, si misurano con la Filosofia intesa come sistema unitario e compatto.

I materiali dell’opera tendono, da un lato a raccontare una storia individuale, quella del Fortini intellettuale che vive e agisce negli anni che vanno dal 1945 al 1978 e che nelle vicende di quegli anni si forma, cresce, matura il suo pensiero; dall’altro, però, essi sono selezionati a raccontare i momenti storicamente significativi che su quella crescita intellettuale e morale incisero. Se con un gesto brusco potessimo estrarre da questa opera semplicemente il suo contenuto, ci accorgeremmo che questo individuo che vive e passa attraverso tutti quegli anni è in realtà un eroe, alla stregua da un lato di un Dante dall’altra di un Proust. Come in certe opere letterarie, la vita esterna al soggetto, la storia, è presentata per momenti esemplificativi almeno quanto sono determinanti per il soggetto. Tutti sappiamo quanto fu significativo per Fortini il ‘56, e Dieci Inverni continua  a testimoniarlo. Ma gli eventi del ‘56 sono distribuiti in Un giorno o l’altro, a partire almeno dal ‘55 e fino almeno al ‘58, con maestria da romanziere. La proposta che Fortini fa a noi, i lettori, arriva non come già data, ma ci è consegnata mentre si organizza come necessaria al discorso generale, che è in quest’opera, discorso in fieri. Ma Un giorno o l’altro non è un romanzo,  né è possibile distillare semplicemente il contenuto dalle opere. Non ci resta altro, allora, a questo punto, che tentare di capire di cosa è fatta la scrittura di questo libro.       

I materiali, dicevamo, hanno come argomento fatti o eventi di storia individuale e collettiva.
Il fatto, cioè l’accaduto, è la base di due forme richiamate nella scrittura di questa opera: il diario e la cronaca. Per Fortini, e lo sappiamo dalle Ventiquattro voci, il diario e la cronaca in un passato lontano si confondevano. Nella Toscana della fine del Trecento il diario familiare, il luogo cioè dove si teneva nota dei conti e delle feste, era anche la cronaca cittadina, e dunque testimonianza del costume urbano. Quando  poi queste due forme si separarono, di quel passato comune la cronaca conservò la capacità «di cogliere l’essenziale di un evento, di una figura», diventata il suo tratto distintivo e mantenuto finanche nella sua ultima manifestazione: la cronaca giornalistica contemporanea.
Il diario invece aveva ereditato dalla tradizione cristiana una certa «componente religiosa», quella formalizzata nel “libro d’ore” che, passando nella cultura laica, ne ha fatto il luogo delle «verità secrete» e dell’autoanalisi. Rispetto alla cronaca, il diario ha il compito di servire la memoria e insieme la “funzione di verificare e registrare la vita spirituale dello scrivente”. L’esercizio quotidiano che ne deriva fa del diario, secondo la definizione goethiana, un prezioso strumento di autodisciplina.   

Il fatto nel diario riguarda un «io», nella cronaca un «noi». Il tentativo di far coincidere questi due piani è lo sforzo dell’autore, che da un lato si preoccupa che la sua esperienza possa essere raccolta, così come ogni singola storia umana, in quanto «segno di eventi collettivi» (p. 289), e dall’altro di recuperare il «noi» «non come una semplice individuale interiorità, ma noi come corpo e volontà collettiva»(p. 250). Questo secondo sforzo ha carattere unificante ed è condotto nel senso e nella direzione indicata da Dante. Ultima meta di Fortini è che entrambi i piani coincidano così come  il «nostra» e il «mi» del primo verso della Commedia dantesca. Il primo, invece, presuppone il momento oppositivo proprio del romanzo: «il Je che conquista la Saggezza lungo il magico suono della campanella, e tutti gli altri» (p. 250). Questa è per Fortini, in particolare, «la sola fondamentale antitesi della Recherce», ma vale in generale per la forma romanzo.
Dal momento che lo stato delle cose esistenti, «i destini generali», non consentono agli individui di lavorare insieme per l’universale, l’unica cosa che resta da fare al singolo, che altro non può se non lavorare al massimo con o per un altro suo simile, è riconoscere il «segno della nostra comune servitù». La lettera A Meszaros che chiude il 1958 apre per noi il tema adorniano del conflitto individuo-società.
Ricavare nella propria vita e nel lavoro di ognuno il rapporto con una condizione generale, umana, è già azione, prassi politica e culturale. Se riconosciamo che nella società contemporanea il conflitto di classe è neutralizzato in una serie di conflitti sociali, e così ridotto a forme di comportamento di singoli individui, allora il problema dei rapporti tra i “fatti personali” e gli “eventi collettivi” diventa cruciale, e il riconoscimento dell’«io» nel «noi» la prima azione concreta al fine di recuperare uno sguardo critico sulla società. In ù questo senso leggiamo l’ostinazione fortiniana a ribadire, nella forma e nel contenuto di quest’opera, che «le esperienze personali valgono solo nella misura in cui possono essere interpretate come segni di eventi collettivi».(p.289)

Il fatto, ovvero il racconto di un avvenimento,  in quanto è dato a partire da una selezione, dell’argomento come della lingua, contiene già in se stesso un commento; come in una foto, l’immagine presentata implica una scelta. Di conseguenza per Fortini non sarà il contenuto del fatto ad essere elemento di attenzione bensì la scelta che lo ha supportato. (p.249) Non si tratta però di ricavare le intenzioni del “fotografo” o del “narratore”, ma di valutare da un lato la presenza e la posizione degli elementi visivi, o fonici, o linguistici rispetto all’insieme dell’immagine, dall’altro il ruolo del fatto nell’insieme del discorso (la funzione).
«(…) la critica al naturalismo è già stata fatta (Lukàcs), un milione di «fatti» o diventano cifre e categorie sociologiche resteranno sempre meno “veri” della “verità” profonda…».(p.250).
Allora in un testo come Un giorno o l’altro, che si presenta, a questo punto, come una raccolta di fatti, non contano tanto i materiali presi singolarmente, quanto il loro montaggio, inteso sia come  tecnica che soggiace alla creazione di un film, e quindi come accostamento di due o tre scene il cui valore è determinato dal risultato dell’incontro piuttosto che dai singoli pezzi; sia come tecnica mosaicistica dove ogni tassello vale solo in quanto contribuisce al disegno generale. Resta importante, tanto nel film (forma esemplare del Novecento) quanto nel mosaico (forma medievale per eccellenza) la cura attenta che si deve ad ogni singolo particolare tanto nella costruzione dell’opera quanto  nella sua lettura.

Il discorso fortiniano è discorso letterario in quanto della letteratura utilizza le forme e la tecnica linguistica. Ma attraverso le forme della letteratura gli esseri umani non si limitano a parlare di sé stessi e dei loro rapporti con gli altri e con la storia, essi si impegnano anche a ricercare gli aspetti propriamente e profondamente umani che sono prima e oltre il momento sociale e storico. La letteratura sa che ci sono condizioni dell’esperienza umana (paura, malattia, morte, amore filiale e genitoriale, etc) che non si lasciano mai del tutto definire, la cui origine si perde nella notte dei tempi, e che seppure si modificano lo fanno alla velocità delle stelle, restando, dunque, al nostro sguardo immobili.(p. 44)
La parola letteraria, in generale, ha la possibilità di raccoglie dell’uomo tanto il suo condizionamento esteriore che l’interiorità, restituendo integrità alla figura umana.(Cfr. pp. 43, 99, 104,113) L’uomo integro non è diviso tra io psicologico e sociale, tra vita morale e vita politica, ma regge il peso di questa contrapposizione («l’io che in sé si separa e contraddice e tu fissalo \ finché non sia più uno. E poi torni ad esserlo…» F. Fortini, L’ordine e il disordine, in, Questo muro,  Mi, 1973). E allora «la lotta contro la disintegrazione degli uomini è uno dei compiti maggiori della letteratura». (p261). 

La letteratura, dunque, non si limita a descrivere il reale ma propone una idea di uomo e in questa e con questa quella di un  ordine sociale che su quella si basa. «Se come credo, credi, come i buoni russi, all’umanità integrale di ogni uomo…» dirà Fortini al suo amico Cassola, e ancora parlando de La ragazza di Bube: «Cassola punta su una integrità umana (…) che è anche una proposta umana valida ovunque..». Proprio in quanto questa proposta resta valida al di là del tempo e dello spazio, le grandi opere letterarie sono per noi eterne. In virtù di quella promessa leggiamo Dante per esempio, e per mezzo di essa il rapporto con la tradizione letteraria, e dunque con il passato, è sempre rapporto tra realtà e dover essere.(Cfr. p. 183)
«La nostra speranza non è in verità speranza di un futuro cronologico, ma, come ha detto Noventa, è speranza di un presente di qualcuno. Quello che dico e penso non è diverso da quello che hanno detto e pensato Dante, Goethe, Marx, Tolstoj, ma anche Kierkegaard e Dostoevkij». (p.246).

E dunque, se pur sappiamo che Fortini non ha scritto propriamente un’opera di letteratura, verifichiamo che quello di Un giorno o l’altro è discorso letterario. I suoi materiali raccontano dello sviluppo di una azione pratica culturale che si è formata e articolata nel tempo della sua vita intellettuale, ma allo stesso tempo presentano un uomo nella complessità delle sue relazioni umane, sociali, politiche, che sottopone se stesso al giudizio della storia e del suo tempo, e così recupera, anche per il nostro tempo, anche quando tutto sembra essersi ridotto a pura apparenza e inganno, un gesto che porta il segno dell’autenticità, non del tutto condizionato. «di bene un attimo ci fu». Tornano alla lingua le parole della promessa.
Questo racconto si propone come esemplare: esempio di critica sociale e letteraria in senso stretto; esempio di utilizzo e organizzazione di temi e categorie in forme precise, di sperimentazione di forme di lavoro politico e culturale; esempio di una umanità da venire. Questa è la prassi culturale e Fortini ci invita a praticarla sperimentando le nostre forme, utilizzando i nostri strumenti, sottoponendo a critica i linguaggi della contemporaneità. È questa l’eredità che noi accogliamo.

      

 

 

 

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