home> fortiniana> Sul riserbo di Fortini
Sul riserbo di Fortini
Michele Ranchetti
1. Quando è
morto, Fortini? Mi sono posto questa domanda cominciando a
scrivere questo breve intervento sul “riserbo” di
Fortini. Non ricordo, quando sia morto, e ho cercato fra i miei libri
di lui e su di lui la data della sua morte, senza trovarla. Eppure ero
presente, a Milano, al funerale fra i pochi amici, nella squallida
periferia milanese. Faceva freddo, ma poteva essere un improvviso
freddo d’estate.
Mi sono chiesto se non ricordare la data della sua morte
“storica” (il giorno, il mese, l’anno del
cosiddetto “trapasso” – la lingua
conserva la trascendenza) potesse attribuirsi al mio desiderio di non
voler contare sulla sua morte e di volerlo presente, per sempre. Ma non
è così. Anzi, che sia morto, per sempre morto, mi
sembra la condizione per lui più naturale. Nel senso proprio
del “riposa in pace” o meglio del “requiescat
in pace” nel latino della devozione. Del resto,
l’aveva scritto, quasi come in una lapide riassuntiva e
testamentaria, e infine augurale, nel titolo della sua ultima opera: Composita
solvantur a suggerire non solo per sé ma per gli
altri, in quella attribuzione di verità agli altri,
più che a se stesso, che costituisce, contrariamente forse
al giudizio corrente, gran parte della sua
“poetica”.
Non ho più cercato l’anno, e ho pensato che la
cronologia, i calendari, gli orari, le scansioni, non hanno davvero
rapporto alcuni con l’ordinamento di un’esistenza.
In questo caso, lasciare aperto il tempo (non chiudere la
porta dietro Fortini) poteva significare per me ricercare un
ordinamento diverso, più corrispondente al senso delle
ragioni di un percorso che si snoda secondo l’oscillazione di
fissazioni e di spostamenti in un arco la cui naturalità non
coincide con la storia del singolo. Mi sono venuti in mente, piuttosto,
i meridiani di cui parla Celan, ad indicare linee di differenziazione e
zone di appartenenza secondo cui orientare se stessi e riconoscere gli
altri.
Ho cercato queste linee immaginarie nella vita e nell’opera
di Fortini.
2. Non
ricordo quando ho visto Fortini per la prima volta. Credo che sia stato
ad Ivrea, dove io mi trovavo da qualche mese, per svolgervi un compito
che non potevo immaginare con chiarezza: quello di segretario personale
di Adriano Olivetti. Dopo qualche giorno di lavoro improbabile (nessuno
di noi due sapeva che cosa potesse ripromettersi dall’altro
al di là del rapporto di dipendenza
“operativa”), Olivetti si era ammalato e aveva
dovuto lasciare la fabbrica. Ero rimasto io solo, senza di lui, a non
sapere cosa fare. In mio aiuto era intervenuto in un primo tempo con la
sua giovialità generosa e cattivante, Geno Pampaloni, che mi
aveva fatto collaborare ad iniziative vagamente culturali (schedare
libri nella biblioteca accanto alla fabbrica, presentare poetesse di
provincia inguaribilmente minori in letture di poesia per i benestanti
locali e accattivarsi così un consenso per progetti ben
più significativi, nella prospettiva di un movimento
politico che avrebbe dovuto tener conto anche di questi
“valori”, non si sa bene perché e come).
Qualche mese dopo era rientrato in fabbrica Franco Momigliano che mi
aveva voluto con sé alla direzione delle relazioni interne
(questo era il nome), ossia alla direzione del personale e ai rapporti
con le organizzazioni sindacali allora distinte in CGIL, UIL e CISL,
come anche ora, del resto. Erano i primi mesi, per me, di questo nuovo
lavoro, per così dire, di fabbrica. Di fabbrica ma anche,
come è stato descritto molte volte, di guarnigione. Vivevamo
infatti la condizione di avamposti privilegiati di una straordinaria,
così credevamo, rivoluzione culturale che vedeva affiancati,
ciascuno secondo i propri compiti, operai e intellettuali, tecnici e
politici, sindacalisti e urbanisti, sociologhi e letterati, in un
insieme non omogeneo che si riprometteva fertilità e
successo innovatore anche dalla propria disomogeneità e dai
contrasti (non dalle lotte) fra le diverse componenti (come allora si
diceva). A concorrere al progetto venivano anche, in visita gradita,
quasi ispettori dall’esterno viventi nelle colonie del reame,
quelli che avevano preso parte ai primi tempi del grande progetto, i
tempi del giornale di fabbrica, ad esempio, e della costituzione del
consiglio di gestione, gli inventori dello stile grafico come parte
integrante della “civiltà industriale”,
gli scrittori che avevano il compito di illustratori e inventori del
linguaggio aziendale, e che portavano con sé, talvolta, come
esemplari unici, esponenti della critica e della poesia,
anch’essi in visita guidata. Ricordo di aver visto, tra
questi, Rocco Scotellaro e Ernesto De Martino, che ci fece ascoltare il
disco delle registrazioni appena realizzate nel suo famoso viaggio in
Lucania.
Credo di aver incontrato Fortini allora, nel 1950, o meglio di esser
stato incontrato da lui. Allora Fortini viveva già a Milano
ma a Ivrea aveva abitato, ed era stato parte costitutiva dei primi
tempi, quelli dell’origine, dove confluivano, a costituire
quella esperienza unica e irripetibile, fattori ed interessi
diversissimi, motivazioni utopiche ed occasioni reali di mutamento. Ma,
appunto, in una situazione per così dire esterna e costruita
per essere diversa ed esemplare. Anche chi non lavorava in fabbrica ma
faceva parte della dirigenza i cui compiti era difficile distinguere e
in parte giustificare, discuteva tutto il giorno, infatti,
dei compiti, dei diritti e doveri, dei difetti e dei meriti
dell’ingegner Adriano e finiva per attribuire a sé
e agli altri privilegiati come lui una sorta di
responsabilità generale nei confronti della
società e dei destini del mondo. Vi era in realtà
in tutti la persuasione di costituire un modello, forse
l’unico e il vero, proprio per il fatto che in esso potevano
riconoscersi come necessarie vocazioni diverse, da quella
dell’ingegnere e del tecnico a quella del poeta. Ricordo, ad
esempio, che si parlava dell’Einaudi come di una forma minore
e parziale della Olivetti, un luogo preistorico dove la cultura si
faceva solo con i libri, e che Pampaloni considerava necessario
persuadere Olivetti ad acquistare per la biblioteca di fabbrica il
fondo di pubblicazioni anarchiche di Fedeli, come poi avvenne. Del
resto una piccola migrazione di anarchici in fabbrica si era
già avuta e fra qualche anno vi sarebbe giunto Delfino
Insolera.
3.
Non ricordo di che cosa abbiamo parlato allora, con Fortini, anche se
è probabile che mi abbia chiesto di leggere le poesie che
venivo scrivendo, in un certo senso da privato e quasi di nascosto dal
grande progetto innovativo di cui facevamo parte. Ricordo
però il mio incontro con lui nella cornice di quella
esperienza perché ritengo che essa abbia costituito forse la
sola “appartenenza” della sua vita. Uno, appunto,
di quei meridiani di appartenenza che ha sempre cercato senza successo.
Fortini era stato in guerra, ma le memorie della sua vita militare e
soprattutto del suo esilio in Svizzera testimoniano, a me sembra,
piuttosto della formazione dell’uomo solo durante la sua
ricerca di trovar posto in un compito che trascenda
l’esercizio di una e una sola professione, come di una e una
sola virtù. Ed è forse da riconoscere nella
differenza fra la prigionia di Sereni e l’esilio di Fortini
uno dei nodi del carattere della diversa produzione poetica tra il mito
esile e il rifiuto della gioventù. Più in
generale, e semplificando, a me pare che nella frustrazione di quegli
anni di guerra si sia come depositato un accumulo di risentimento
affettivo e orgoglioso nei confronti di chi “faceva
parte”, anche “parte sbagliata”. Vi
potevano anche concorrere le origini di Fortini: figlio di ebreo ma non
ebreo, convertitosi al protestantesimo ma non praticante se non
nell’amicizia con alcuni esponenti della confessione
religiosa (Spini, in particolare), laureato in legge e solo in un
secondo tempo in lettere, letterato ma ostile ai letterati delle Giubbe
Rosse, autore da subito pseudonimo, per così dire
“in veste narrativa”, consapevole fino
all’ostentazione ossessiva della sua appartenenza alla
piccola borghesia, Fortini ha sempre e soprattutto cercato di
distruggere l’insanabile differenza fra tempo biografico e
tempo storico, figurandosi un’esperienza
“civile” e politica a colmare una propria
solitudine e nutrendosi di esempi a lui del tutto estranei o almeno per
nulla congeniali. Brecht, in particolare. Come se potesse recuperare
dalla letteratura affrontata in modo rigorosamente non specialistico il
senso di una partecipazione necessaria e dirimente “alle cose
del mondo”, ai “destini generali”,
appunto.
Farò solo un esempio, al riguardo. Fortini scrive:
“Leggo, annoto, rileggo; fuori, per la via, gridano i
trucidati, bruciano le biblioteche”. Siamo, eravamo, nel
1992. La conversazione si svolgeva, credo, a Milano. Mi chiedo: chi mai
saranno, questi trucidati, e quali mai biblioteche bruciavano, allora?
È, evidentemente, un’esagerazione retorica,
l’uso sapiente di un’iperbole. Ma è
anche, non letterariamente, non sulla pagina, una sorta di ricatto, di
velata minaccia. Fortini non dice chi fossero quei trucidati, e quelle
biblioteche brucianti: si serve di questo riferimento generico, e, in
un certo senso, improbabile, per avvalorare ciò che sta
dicendo, immaginando ed evocando un esterno tragico per il proprio
presente, in una sorta di captatio veritatis, come
se non fossero sufficienti le ragioni reali, storiche e immediate di
lui che scrive e conversa, legge e rilegge, se non come un momento di
un teatro tragico. Ossia, è come se Fortini volesse
provocare, per sé e per ciò che viene dicendo
e scrivendo, quell’attenzione che si produce in
occasione di un incidente: tutti accorrono, mossi
dall’esaltazione di essere presenti al fattaccio, al
verificarsi della violenza in atto, del partecipare
all’evento. Ma non è mai lui a provocarlo,
l’evento è sempre e rimane esterno. E tuttavia la
sua ratio si vuole extrema. Vi
è quindi, a me pare, un divario, una forbice fra
l’occasione che è e rimane letteraria, scritta, e
l’esclamazione provocatoria, quasi un grido “al
lupo al lupo” dove non vi sono né lupo
né pecore.
Naturalmente si può riconoscere in questo il carattere
narcisistico ed esibizionistico che è proprio di ogni
espressione letteraria, l’appropriazione indebita che
inerisce ad ogni forma di produzione estetica. Ma nel caso di Fortini,
a me sembra, questa presenza, sempre ineliminabile, è
sorretta da un desiderio quasi inconsapevole e infantile, da
una tenerezza e da una sorta di fragilità emotiva, da una
fondamentale ingenuità, parallela al rigore moralistico di
un’eletta e vaga tradizione protestante. Fortini accorre
all’evento e si prodiga ad illustrarlo e a ragionare con gli
altri, sforzandosi di prenderne atto in tutte le sue conseguenze.
Anche, forse e soprattutto, letterarie, ma non trascurandone le
implicazioni politiche. In questo i suoi scritti, davvero
numerosissimi, testimoniano una partecipazione quasi eccessiva anche ai
particolari della storia minore, letteraria e politica, come se
ciascuno di essi fosse meritevole di quella attenzione che è
il primo segno dell’onestà intellettuale.
Testimoniano, inoltre, della sua volontà di dare espressione
letteraria e dignità di pensiero (o meglio, di ragionamento)
agli accadimenti dell’ordine politico, quasi che la
conversione di essi alla forma fosse un primo passo verso la conoscenza
di essi, il primo modo di appropriazione. Ma naturalmente, e
questo risulta visibile a distanza di anni, questo procedimento non
poteva non comportare una conversione alla retorica del fatto stesso,
quasi un suo annullamento nel genere letterario della sua espressione
sino a non rendere distinguibili fra loro forma ed evento e,
soprattutto, ad equipararli all’origine.
4. A me sembra che all’origine di questo vi sia come una supplenza del dato “letterario” sul dato di esperienza, come se Fortini intervenisse a cose fatte unicamente sulla base di un di più di “erudizione”, ossia di una elaborazione della esperienza altrui appresa dalle fonti scritte, in un secondo momento, per così dire. E, in un certo senso, non in proprio, scrivendo e ragionando non dal vero, come di chi riferisce o dice degli altri. E mai di sé, o solo raramente. A me sembra, a volte, che l’interrogazione su se stesso si interrompa proprio là dove poteva diventare determinante ai fini del giudizio, che è sempre o un giudizio di realtà o un giudizio di verità. Come se si desse in lui, permanente, un rinvio, una misurata prudenza, appunto un riserbo. Anche nelle interviste, dove più parla di sé, Fortini parla poco di sé. Della sua vita sappiamo poco, e anche le maledizioni e gli scatti d’ira, frequenti negli epigrammi e nella conversazione, è come se rinviassero a una forma musicale, ad un “fortissimo”, indicato nella sua partitura. Delle sue sofferenze sappiamo da altri, dei suoi mesi di ospedale vissuti da povero per non voler accedere a un trattamento più umano grazie alla corruzione di qualche mancia. Così della sua vita difficile per l’apparente disastro della sua pedagogia familiare. Dei suoi affetti, in generale, nel senso delle sue affezioni, degli affectus; che pure lo avranno colpito, come si percepisce da qualche ragazza di troppo nelle sue prose narrative della giovinezza: che appare, fra le righe della riflessione, quasi a distrarre chi scrive e chi legge con una apparizione non prevista di brevissima durata. Un riserbo, dunque, quasi assoluto, dovuto alle ragioni non estreme della sua vita e protetto da un atteggiamento oracolare.
5. Vi
è però un episodio che non corrisponde al profilo
tracciato e alle motivazioni che ho addotto. È un episodio
per così dire sgradevole, un’occasione in cui
Fortini ha mostrato la sua sofferenza. Forse è
l’unico episodio pubblico, al di là delle
controversie, dei furori fra amici, dei “musi” che
lo oscuravano in disparte come il combattente ferito. È
l’episodio, anch’esso di un’origine
letteraria, ma solo in apparenza, della recensione per «il
manifesto» del Doppio diario di Giaime
Pintor, del maggio 1979. Questa volta Fortini rivendica se stesso con
una violenza e una acredine che va ben oltre l’occasione di
un confronto fra un testo e, tutto sommato, un recensore critico. Qui
Fortini rivendica le sue frustrazioni di piccolo borghese, le sue
origini di letterato fiorentino, le sue scarse risorse finanziarie,
come se questi dati di fatto fossero dei valori o almeno dei fatti di
cui tener conto per illustrare e capire la storia d’Italia,
nel fascismo, nello stesso antifascismo dei pochissimi, ragioni e
tragedie ignote o sorvolate dall’arroganza di chi sa a
priori, chi ha il sapere innato nei lombi nobiliari. Di chi
è nato ricco di spirito e di censo e può
limitarsi, se crede, a trasmettere questo sapere dosandolo secondo le
opportunità e il capriccio, ma riserbando per sé
la parte migliore, quella disciplina arcani
che è proprietà appunto esclusiva del ceto
sacerdotale. Non è particolarmente rilevante giudicare
legittimo o meno il livore di Fortini a proposito di Giaime Pintor e
del suo diario inedito, del resto pubblicato con reticenza dal fratello
Luigi, destinatario della famosa lettera. È ben
più rilevante osservare che Fortini, nel 1979, mette in
discussione, con questo attacco, ben più del suo credito di
critico e di collaboratore di un giornale, la sua persona di critico
non destinato da una dotazione originaria alla gestione dei poteri
della cultura, di uno che si è costruito da sé
attraverso un apprendimento graduale e difficile. Ho
l’impressione che Fortini, leggendo il Diario,
abbia visto con sgomento, come in un’allucinazione, quale
sarebbe stata la sorte di Pintor se non fosse saltato per aria per lo
scoppio di una mina e avesse dovuto rileggere la propria lettera, del
resto mirabile, durante uno dei pomeriggi di siesta operosa fra gli
inviti dei salotti romani. E abbia voluto lacerare quella lettera
mirabile che iscrive giustamente Pintor fra gli eroi, lacerarla per
sé e per lui.
Quello scritto, poi pubblicato perché respinto dal
«manifesto» sui «Quaderni
piacentini», in un luogo cioè protetto dagli
amici, un luogo minore, un piccolo gruppo la cui incidenza era pur
sempre modesta, ha fornito a me, leggendolo e rileggendolo ora, un
altro di quei meridiani di cui parlavo all’inizio, il
discrimine fra due appartenenze: una pubblica, dei
“competenti” a priori, che possono valersi di tutti
i guizzi del potere e parallelamente delle ricorrenti fortune degli
spiritualismi, e una privata, anche se condivisa da pochi amici,
incapace, per natura, per vocazione e destino, di farsi adulta e
riconosciuta. E abbia scelto la seconda. Il suo enorme
lavoro, da allora, si sarebbe svolto in questo meridiano, avrebbe avuto
questi e non altri referenti. Anche il Partito comunista, gli sarebbe
parso, talvolta, come intellettuale collettivo, ben simile agli
intellettuali della Normale di Pisa, allevati ad essere dirimenti nelle
patrie lettere, destinati, appunto, a esercitare il potere nelle
accademie, un potere di competenze ineccepibili e in apparenza
neutrali, in realtà frutto di un’arroganza appresa
e trasmessa da grandi maestri a grandi allievi in una successione
ereditaria, persone che, incontrandosi, non si chiedono: come stai?,
ma: di che cosa ti occupi?, in una concezione della cultura
come territorio distinto in feudi da assegnare.
6. Ho dovuto riconsiderare, allora, quello che ho chiamato “il riserbo” di Fortini e mi sono chiesto se il rifiuto o almeno la reticenza di Fortini a parlare di sé, a esporsi in prima persona, non facesse parte o non fosse dovuto a un rigore morale che esige il rispetto dell’anima individuale e mette in discussione solo le forme. Intendo, le forme pubbliche, in cui si scontrano i destini generali. Se il suo riferimento ad un esterno politico e civile non costituisse per lui stesso una garanzia di verità nella quale misurare i propri scritti e le proprie idee. Una verità non affidata alle istituzioni della cultura e della politica, non ai partiti, per così dire, riconosciuti, e se quel di più di enfasi, che talvolta contraddistingue le sue poesie e le sue prose, non fosse un espediente per “difendere le nostre verità”. E credo che sia così.
Intervento letto a Napoli nella primavera del 2001
[12 settembre 2008]
home> fortiniana> Sul riserbo di Fortini