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Sotto il
titolo La dissipazione di Israele - Lettera aperta per gli ebrei
italiani "il manifesto" del 18.01.09 ha ripubblicato, a firma Franco
Lattes Fortini, il testo apparso il 24 maggio 1989 sullo stesso
quotidiano, e successivamente ripreso da "La rivista del
Manifesto" (21 ottobre 2001).
La Lettera, che riportiamo di seguito, e' riprodotta
integralmente in Franco Fortini, I cani del Sinai, Macerata, Quodlibet,
2002 (Appendice, pp. 85-90), attualmente in commercio. A questa
edizione si rimanda anche per le notizie bibliografiche e documentarie
della Nota al testo (vedi anche, per la cornice biografica, F.Fortini,
Saggi ed epigrammi, a cura di L.Lenzini, Milano, Mondadori, 2003:
Cronologia, p. CXXVII).
Lettera agli ebrei italiani
“Il manifesto” il 24
maggio 1989.
Franco Lattes Fortini
Ogni
giorno siamo informati della repressione israeliana contro la
popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo
significato, come vuole chi la guida. Cresce ogni giorno un assedio che
insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la
memoria di quel popolo – nel medesimo tempo –
distrugge o deforma l’onore di Israele. In uno spazio che
è quello di una nostra regione, alla centinaia di uccisi,
migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati – e al
quotidiano sfruttamento della forza – lavoro palestinese,
settanta o centomila uomini corrispondono decine di migliaia di giovani
militari e coloni israeliani che per tutta la loro vita, notte dopo
giorno, con mogli, i figli e amici, dovranno rimuovere quanto hanno
fatto o lasciato fare. Anzi saranno indotti a giustificarlo. E potranno
farlo solo in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche
delirio nazionale o mistico, diverso da quelli che hanno coperto di
ossari e monumenti l’Europa solo perché
è dispiegato nei luoghi della vita d’ogni giorno e
con la manifesta complicità dei più. Per ogni
donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o padre percosso e
umiliato, ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano che
dovranno dire di non aver saputo oppure, come già fanno,
chiedere con abominevole augurio che quel sangue ricada sui propri
discendenti. Mangiano e bevono fin d’ora un cibo contaminato
e fingono di non saperlo. Su questo, nei libri dei loro e nostri
profeti stanno scritte parole che non sta a me ricordare.
Quell’assedio può vincere. Anche le legioni di
Tito vinsero. Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e
– come auspicano i “falchi” di Israele
– fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari
della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi,
allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe fra gli
applausi di una parte della opinione internazionale e il silenzio
impotente di odio di un’altra parte, tanto più
grande. Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri
popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.
Gli Ebrei della Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale
antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in
giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita
alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora
amplifica) si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti
di eguaglianza e le persuasioni di fraternità. Per i nuovi
antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello Stato di
Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio
di politica israeliana.
L’uso che questa ha fatto della Diaspora ha rovesciato,
almeno in Italia, il rapporto fra sostenitori e avversari di tale
politica, in confronto al 1967. Credevano di essere più
protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla
ostilità.
Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra
politica israeliana ed ebraismo. Va detto anzi che proprio la
tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani
sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti)
è quella che nei nostri anni ha più aiutato,
quella distinzione, a mantenerla. Sono molti a saper distinguere e
anch’io ero di quelli. Ma ogni giorno di più mi
chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche
fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani? Coloro
che, ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o
oscuri, non importa – credono che la coscienza e la
verità siano più importanti della
fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle
imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo, parlino
con chiarezza, scelgano una parte, portino un segno. Abbiano il
coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei
palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo
riconosca; o invece trovino la forza di rifiutare complicità
a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida.
Né mentiscano a se stessi, come fanno, parificando le stragi
del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I
loro figli sapranno e giudicheranno.
E se ora mi si chiedesse con quale diritto e in nome di quale mandato
mi permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che
lo faccio per rendere testimonianza della mia esistenza o del cognome
di mio padre e della sua discendenza da ebrei. Perché credo
che il significato e il valore degli uomini stia in quello che essi
fanno di sé medesimi a partire dal proprio codice genetico e
storico non in quel che con esso hanno ricevuto in destino. Mai come su
questo punto – che rifiuta ogni “voce del
sangue” e ogni valore al passato ove non siano fatti, prima,
spirito e presente; si che a partire da questi siano giudicati
– credo di sentirmi lontano da un punto capitale
dell’ebraismo o dal quel che pare esserne manifestazione
corrente.
In modo affatto diverso da quello di tanti recenti, e magari
improvvisati, amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo
queste parole a una estremità di sconforto e speranza
perché sono persuaso che il conflitto di Israele e di
Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti
conflitti per l’indipendenza e la libertà
nazionali che il nostro secolo conosce fin troppo bene. Sembra che
Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di
una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati Uniti
in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan.
Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il
popolo di Valmy e gli americani quelli del 1775 e i sovietici quelli
del 1917, così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon,
erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri, una parte angosciosa
e ardente, delle nostre parole e volontà. Non rammento quale
sionista si era augurato che quella eccezionalità
scomparisse e lo Stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri
e le sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo libro
è da sempre anche il nostro, e così gli
innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi. È solo
paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana da nuovi
occupanti innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio da
cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della
città vecchia di Gerusalemme, tocca alla interpretazione e
alla vita di un verso di Dante al senso di una cadenza di Brahms?
La distinzione fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a
ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi,
è stata rimessa in forse proprio dall’assenso o
dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di vedere meglio
perché non sia possibile considerare quel che avviene alle
porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei
conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri.
Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa
che è dentro di noi.
Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente
uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi
di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di
verità e sapienza che, nella e per la cultura
d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni
della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e
attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande
donna ebrea cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce
da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere. Ogni
giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli
israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una
memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della
nostra vita e patria. Un poeta ha parlato del proscritto e del suo
sguardo “che danna un popolo intero intorno ad un
patibolo”: ecco, intorno ai ghetti di Gaza e Cisgiordania
ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave di
quelle dell’Onu, un processo che si aprirà ma al
suo interno, fra sé e sé, se non vorrà
ubriacarsi come già fece Babilona.
La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla
disperazioni palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione
che Israele viene facendo di un tesoro comune. Non
c’è laggiù università o
istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di
studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala
coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce
nella vita e nella educazione degli israeliani.
E anche in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei
quali sono io. Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei
soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora
celati, dei palestinesi. Parlino, dunque.
[1 febbraio 2009]
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