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A margine delle Lezioni sulla
traduzione di Fortini*
Luca Lenzini
Quanto osserverò sul libro curato da Maria Vittoria Tirinato è destinato a
deludere tanto gli studiosi di Fortini, quanto quelli che si occupano di
traduzione. Per intervenire da critico (o almeno da lettore spassionato), sono
troppo prossimo a questa pagine, che dal loro embrione originario nell’archivio
ho seguito in tutto l’iter di pubblicazione, dalle carte A4 un po’ gualcite, a
stampa, redatte nel Macintosh di Fortini – quello acquistato dopo aver vinto il
premio Montale-Guggenheim, nel 1985 – e variamente annotate, sino alla
confezione ultima, che in futuro potrebbe avere un seguito o accompagnamento su
Internet. Come potrei dire qualcosa non dico di “scientifico” ma di soltanto
neutrale, rispetto ad un libro confezionato con la mia complicità? Del resto,
non sono un filologo – su questi aspetti mi fido completamente del giudizio di
Stefano Carrai, Giuseppe Nava e Pier Vincenzo Mengaldo, che hanno seguito
l’edizione –, e quel che avevo da osservare l’ho scritto nella Premessa,
a cui rinvio.
La mancanza di distanza è, dunque, una prima ragione dell’incompletezza e
approssimazione dei miei appunti; ma ce n’è un’altra, concomitante, che riguarda
l’argomento stesso del libro, ed il suo taglio critico-saggistico. Infatti sul
finire degli anni ’70, quando Fortini mi assegnò la tesi nell’ambito della
cattedra di Storia della critica letteraria, l’argomento – che condividevo con
altri laureandi - era per l’appunto la traduzione di poesia (precisamente, nel
mio caso, le traduzioni italiane da T.S.Eliot.) Al riguardo vorrei dire che,
nonostante in quegli anni vi fosse ancora un acceso dibattito sulla teoria
(letteraria e non solo) e sul metodo, e anzi sullo status e sui fondamenti della
letteratura e della critica, io come gli altri laureandi nell’affrontare il tema
della traduzione ci basammo su un approccio molto empirico, che di fatto
derivava dallo stesso Fortini e consisteva nel raffronto – metrico, lessicale,
stilistico – dei vari testi fra loro: fra le diverse versioni, e non, come
infatti sostenuto anche nel corso delle Lezioni, con gli originali. Le
tesi erano in primo luogo concepite come capitoli di una storia della ricezione
degli autori prescelti; e debbo aggiungere che, allora, non erano poi molti i
riferimenti teorici: leggemmo Mounin, Terracini e poco altro (il solito Croce),
testi che fornivano al più uno sfondo teorico ma non quello che cercavamo,
ovvero strumenti concreti con cui avvicinare i testi e collocarli entro una
cornice storica. C’era bensì, dal 1975, After Babel di George Steiner:
con la sua torre di Brueghel in copertina, nell’edizione Oxford University
Press, quel saggio poteva in effetti costituire una bussola, ma era tuttavia fin
troppo denso e fitto di riferimenti, delle più diverse lingue ed epoche e tanto
aperto a culture lontane, quanto impegnativo sul piano filosofico: insomma, un
tour de force vertiginoso, tale da lasciare senza fiato un povero
laureando di provincia, come il sottoscritto.
Nella Bibliografia “selettiva” di Steiner le voci partivano dal 1813
(Schleiermacher) e l’ultimo paragrafo (1973) contava cinque voci, delle quali
due francesi, Henri Menschonnic e Jacqueline Risset: in Francia, infatti,
nell’area di «Tel quel», «Poétique» e dintorni, la situazione era diversa che da
noi, per la più vivace riflessione di ambito linguistico e semiotico, nel quale
le lezioni di Jakobson e di Barthes (e prima Benveniste) erano produttive di
sviluppi anche sul versante della traduzione. Ma tornando a noi, a farla breve,
le pagine critiche e teoriche che più ci aiutarono furono quelle che compongono
la quarta sezione dei Saggi italiani (1974) di Fortini medesimo: pagine
scritte tra il 1957 ed il 1973, che vanno sotto il titolo complessivo Sulla
metrica e sulla traduzione e comprendono Traduzione e rifacimento,
Cinque paragrafi sul tradurre, ma anche altri densissimi saggi strettamente
legati al tema, come Metrica e libertà e Verso libero e metrica nuova.
Accanto a queste aperture, non per caso ma seguendo la pista dei
poeti-traduttori come lo stesso Fortini, scoprimmo per strada che quelli che più
avevano la capacità di suggerirci spunti utili sul tradurre, erano appunto loro,
i poeti e in genere gli scrittori, più dei critici: Raboni, per esempio, ma
anche Montale, Solmi, Giudici, Bertolucci, Sereni, Valeri, Caproni – autori che
affrontavano il tema con molta modestia, per così dire obliquamente, perlopiù in
scritti dispersi o marginali, affidati ad appendici, prefazioni o noterelle
sparse nei loro lavori.
Alcune veloci annotazioni, su quanto appena detto. Le Lezioni napoletane
di Fortini sono dell’89, di un decennio prima, all’ingrosso, i seminari ed i
corsi universitari, di trent’anni i primi saggi organici sul tradurre.
Giustamente, poi, Maria Vittoria ricorda nel saggio introduttivo alle Lezioni
che «Fortini si era occupato di traduzione letteraria già dalla fine degli anni
Quaranta» (p. 13) e che un’importanza cruciale, poco dopo (1955), ha la
prefazione alle poesie di Rilke tradotte da Giaime Pintor. Altrettanto
rilevante, a mio avviso, è l’osservazione che tutte «le maggiori traduzioni
poetiche fortiniane – da Eluard, Brecht, Goethe, Milton – sono introdotte da
saggi che rendono conto della riflessione sempre accompagnata dall’autore alla
prassi traduttoria»: ebbene, è fondamentale, per capire lo spessore delle
Lezioni, questa inscindibilità della riflessione e della teoria,
esplicitamente proposte in chiave “sperimentale”, dal concreto lavoro del
traduttore. Sono pagine che, esattamente come i corsi ed i seminari universitari
di Fortini, hanno un loro carattere specifico nell’essere intrise, starei per
dire inzuppate nell’esperienza. Ed allora, si può anche aggiungere – in chiave
generalissima
–
che, prima ancora del periodo ora chiamato in causa, sono due i momenti ed i
luoghi che, in modo diverso, influiscono sull’interesse e l’atteggiamento di
Fortini nei confronti della traduzione letteraria.
Il primo luogo, come ha ricordato Antonio Prete in altra occasione, è la Firenze
della prima formazione di Fortini, che era notoriamente popolata di autori che
al “genere” della versione d’autore erano molto sensibili: Luzi, Landolfi,
Parronchi, Bo, Poggioli, per citarne solo alcuni. Ma è anche vero che, alla
lunga, l’esempio più influente, per Fortini, fu quello del suo anomalo maestro
Giacomo Noventa: esempio incompatibile (anche per i riferimenti intellettuali,
letterari e linguistici) con la poetica in voga tra Ermetici e dintorni, ma,
allo stesso tempo, esempio in grado di aprire percorsi di lunga durata, che
contemplano Machado e Goethe.
L’altro momento, milanese, è quello del «Politecnico». Il ruolo cruciale di
questa palestra, che dire solo “rivista” è limitativo, in cui si forma il
Fortini che conosciamo, non va trascurato anche per quanto riguarda la
traduzione; la rivista, infatti, è composta in buona parte di traduzioni, a
tutto campo (autori americani, russi, cinesi, tedeschi…). Basta rileggere, da
una parte, Dieci inverni (’57 e ’74), dall’altra la premessa all’edizione
del 1967 a Foglio di via per capire l’importanza, e insieme l’ampiezza
dell’orizzonte culturale, dell’esperienza del «Politecnico»: a cominciare da
quei «fratelli maggiori» i cui nomi Fortini elenca nel ’67 (Prefazione a
Foglio, p.9): Joszef, Machado, Brecht, Hernandez, Auden…. Si tratta – con
gli equivoci e le ingenuità forse inevitabili del tempo – di un passaggio di
rottura nei confronti del Novecento già canonizzato a quell’altezza, ma che per
Fortini non manca di aspetti in linea di continuità con quanto gli era capitato
di percepire e assorbire nella Svizzera del periodo della guerra (le
avanguardie, i russi tacitati o sequestrati dal regime stalinista). La
traduzione riceve, in questo passaggio, un’attenzione nuova: è
contemporaneamente strumento dell’apertura dell’immediato dopoguerra – di un
momento, cioè, in cui erano date ipotesi e possibilità politiche e culturali poi
tramontate o rimosse – e campo di sperimentazione, in cui s’intersecano il
livello ideologico e quello stilistico. Appaiono nella pagine del «Politecnico»
nel ’45-46, per esempio, non solo Eluard, Aragon, Frenaud, ma anche Hölderlin, e
quella Via dello Yenan, traduzione “apocrifa” o immaginaria dal cinese,
che è un caso singolarissimo e sintomatico di un “genere” prossimo
all’imitazione (già praticato in Foglio di via) ma, in quanto riferito a
testo inesistente, per meglio dire virtuale, «possibile» dice Fortini. In
effetti proprio alla «traduzione immaginaria», a quasi mezzo secolo di distanza
da quell’esordio, è dedicato un intero capitolo delle Lezioni, che costituisce
uno dei passaggi più stimolanti e originali del libro.
Un altro breve appunto riguarda i “poeti-traduttori”, alla cui lezione mi sono
prima richiamato. Al 1982, sette anni prima delle Lezioni, risale Il
ladro di ciliegie, il libro che raccoglie una scelta di versioni fortiniane
la cui lettura, mi pare, dovrebbe accompagnare quella del libro “teorico” e
postumo. Il titolo è un segnale di fedeltà a Brecht, ed in particolare al Brecht
dell’esilio di Svendborg. Quanto al genere “quaderno di versioni”, occorre dire
che se certo non è stato Fortini a inventarlo, è lui però che ha suggerito a più
riprese a Einaudi di pubblicarne esemplari dei poeti più significativi (Sereni,
Luzi, Giudici, Bertolucci), in qualche modo canonizzando il genere in sede
editoriale, facendone oggetto di una serie che poi, a distanza, ha preso varie
forme e trovato sedi diverse. Lui stesso, con il Kafka del 1986, si era poi
esplicitamente collocato in questa dimensione d’autore, riflessa e nell’ordine
del rifacimento.
Concludo con alcune domande. In coda alla Bibliografia di After Babel,
Steiner consigliava lo studente di tener d’occhio alcuni periodici di
letteratura comparata ed alcune riviste specificamente dedicate alla traduzione,
avvertendo che questo genere di pubblicazioni stava – 1975 – aumentando
rapidamente. Nel 1989 Fortini accennava en passant all’«ormai sterminata
letteratura critica sulla traduzione letteraria» (p. 68). A che punto siamo,
oggi?
Lascio ad altri la risposta. Non sono aggiornato, ma sicuramente il numero delle
pubblicazioni sul tema, da quanto posso vedere, oggi è ancor più ampio, non più
dominabile, rispetto a un quindicennio fa: né c’è da stupirsi, se la logica
dello specialismo ha invaso ormai ogni campo del sapere. Non sottovaluto, voglio
precisare, l’apporto dei contributi specialistici, siano essi di ordine
linguistico o di altro genere; noto, però, che all’origine del libro di cui
parliamo stasera c’è qualcosa di diverso, un movente di altro ordine. Né da
parte del Centro Fortini, né da parte dell’editore, c’è stata, all’origine, una
intenzione filologica e neanche la semplice volontà di recuperare testi di un
autore novecentesco confinati in un archivio. L’attenzione filologica è
subentrata in un secondo momento, necessariamente; ma la spinta iniziale è
venuta dall’interesse dell’editore, richiamato sì dal lavoro di Maria Vittoria,
ma sorto autonomamente, dal desiderio di offrire non solo agli studiosi ma ai
traduttori uno strumento utile ad arricchire la loro competenza, a servire il
“mestiere”. Di questa convergenza di interessi e di finalità sono
particolarmente felice, personalmente; del resto, già a inizio di Millennio la
rivista del Centro Fortini aveva dedicato un corposo fascicolo al tema della
traduzione, con analogo intento. Non è un manuale per tutti, questo; può essere,
tuttavia, un esempio.
Credo infatti che, al di là della ricchezza delle singole annotazioni, è
importante, oggi, ripensare all’orizzonte, alla dimensione in cui, quanto al
tradurre, si è mosso il pensiero di Fortini, e così la sua concreta azione
nell’ambito letterario, saggistico e poetico. È una dimensione in cui contano le
scelte (i sì, ma non meno i no), da una parte, dall’altra la
consapevolezza del contesto storico-sociale, dei condizionamenti dell’industria
culturale, delle mode non solo letterarie. L’ultima domanda, allora, è quella
che si è posta Davide Dalmas, recensendo su «Alfabeta2» le Lezioni. Ha osservato
Dalmas: «Difficile […], è porsi in una posizione tale da rispondere davvero alle
domande più estreme dei libro. Cosa significa oggi pensare che “il grado di
rapporto della traduzione con il sistema della o delle istituzioni letterarie
dovrà essere visto come rapporto rivelatore, come indice privilegiato della
qualità di relazioni, in un tempo e in una società data, fra le ideologie e le
culture in conflitto”? Dice ancora Dalmas: «Di certo non si può dare una
risposta individuale.»
Sono convinto che abbia ragione: la risposta non può essere solo individuale.
Ricostruire quel rapporto, indagarne i nessi e le contraddizioni, significa
aprire un dossier enorme, che nessuno ha voglia di sfiorare. Si tratta di una
impresa, di una scommessa, che non riguarda solo i poeti, o i critici letterari.
A ripensarci, forse quando trent’anni fa Fortini assegnava tesi in serie sulla
traduzione, e formava gruppi di lavoro sui vari aspetti del tema, aveva in mente
un lavoro di questo genere, di tipo collettivo. È rimasto in abbozzo, un
tentativo. Non eravamo, forse, all’altezza. Ma cosa sono oggi le «istituzioni
letterarie», e quali le culture «in conflitto»? E ancora, quali i soggetti di un
agire e pensare collettivo? È difficile rispondere, certo; oggi come allora. Ma
chi evita o rimuove queste domande, non è un intellettuale degno di questo nome,
e probabilmente anche un pessimo traduttore.
Luca Lenzini
*Intervento all’Università per stranieri di Siena, 17 gennaio 2012 all’incontro
per la presentazione di F.Fortini, Lezioni sulla traduzione, a cura di
M.V. Tirinato, Macerata, Quodlibet, 2011; partecipanti Pietro Cataldi, Tiziana
De Rogatis, Maria Vittoria Tirinato.