home>
fortiniana> L’industria
culturale di Fortini e l’industria cinematografica di Pasolini: la mutazione
degli strumenti intellettuali
L’industria culturale di Fortini
e l’industria cinematografica di Pasolini: la mutazione degli strumenti
intellettuali.
Roberta Cordisco
1. Durante gli anni del boom economico e della rivoluzione dei consumi Pasolini
e Fortini ne hanno inquadrato gli effetti nelle ormai note categorie di
“mutazione antropologica” e “surrealismo di massa”. Spesso si è discusso sulle
ripercussioni che il moderno capitalismo ha avuto in ambito sociale ma è
interessante, sempre attraverso questi due autori, esaminare il problema da
un’altra prospettiva, ossia quella che si sofferma a riflettere sugli
sconvolgimenti che la mutazione ha operato anche all’interno della produzione
culturale e del lavoro intellettuale.
La cultura diviene merce al pari delle altre e si apre ad ampie fasce di
consumatori; non a caso l’ennesimo inganno del sistema occidentale è quello di
far credere che la democrazia delle diverse società possa misurarsi in base alla
quantità di informazioni, mentre per Fortini bisognerebbe impostare il discorso
in termini di qualità e capire chi è interessato, eventualmente, ad impedire il
miglioramento di quest’ultima e perché. Tuttavia la domanda continua ad essere
rimossa e si è costretti a vivere «il sapere senza democrazia, cioè fondato sul
privilegio o su di una sua anche miserabile frazione, e la democrazia senza
sapere, cioè fatta di menzogna e impotenza»4.
Ricordando Habermas Fortini avverte che nel momento in cui l’informazione è
diventata diritto-dovere di tutti la sua manipolazione si è affermata come vera
industria del secolo; eppure la democraticità del sapere è anche,
contraddittoriamente, oligarchica. Ciò vuol dire che il numero sempre crescente
degli specialisti e degli esperti dei vari settori del sapere serve a persuadere
l’opinione pubblica che molte questioni non possono che essere materia adatta
esclusivamente agli addetti ai lavori, ossia a minoranze che si accaparrano il
diritto di scegliere; il proliferare delle varie specialità consente anche di
poter continuamente scaricare su altri “esperti”, con la scusa di ritenerli più
adatti, il rischio e l’onere di smascherare i nessi conoscitivi del sistema. Per
Fortini aderire a questa «gerarchia delle conoscenze» significa assecondare le
logiche del potere e la più subdola ideologia della modernizzazione; sono tanti,
egli sostiene, i «don Ferranti e i don Abbondi pronti al peggio purché non venga
meno la fiducia nella gerarchia fondata sul sapere e l’informazione, né vacilli
la certezza che le cose di stato sono troppo complesse perché se ne occupi la
gente comune senza la mediazione di un compatto e crescente corpo di
specialisti»7.
C’è da dire che il pericolo della commercializzazione letteraria non è più un
pericolo. È una vecchia realtà che muta forme. Noi ne siamo leggermente sfiorati
perché il nostro Paese è ancora scarsamente industrializzato. D’altra parte
pericolo commerciale e politico sono una cosa sola. Grave è che siamo affatto
impreparati di fronte a tutti e due; ne è la prova il fatto che, nella piccola
proporzione in cui la industrializzazione letteraria ha colpito il nostro Paese,
noi l’abbiamo già totalmente subita. Da noi, essa si esprime attraverso la
subordinazione politico-commerciale degli scrittori ai periodici e agli editori
da cui traggono in massima parte i mezzi di sostentamento22.
1 F. Fortini, Attraverso
Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, p. 199.
In molte pagine della saggistica di Franco Fortini risuonano le note
francofortesi della critica alla cosiddetta industria culturale. È fondamentale
capire l’influenza che tale nozione esercita sull’analisi di Fortini anche per
coglierne un’importante differenza con la critica di Pasolini. Quest’ultimo ebbe
sempre «un atteggiamento di rifiuto e di ignoranza procurata nei confronti della
critica della cultura e della industria culturale»1 poiché essa lo
avrebbe costretto al compito spiacevole di «una critica dei propri strumenti di
comunicazione che prevedeva paralizzante
»2.
Così Fortini coglie il punto esatto in cui la teoria dell’amico cade in
contraddizione: è vero che Pasolini denuncia la minaccia di un «Potere senza
volto» e invita a combatterlo, ma il suo grido d’allerta promana dalle strutture
comunicative interne a quello stesso Potere. Egli è sceso a patti con le logiche
del mercato letterario e dei nuovi strumenti di comunicazione di massa, per
questo non può che criticare il sistema capitalistico rimanendo in parte
impigliato alle sue reti. Dissertare più approfonditamente sui meccanismi
dell’industria culturale avrebbe significato, per lui, ammettere una certa
complicità.
Fortini, invece, guarda ad essi dal di fuori e cerca di dare un volto al nuovo
Potere invitando a non accontentarsi di ricevere il sapere come un prodotto
finito di cui non si conosca la provenienza; vivere nel mondo ad occhi aperti e
non da “sonnambuli” significa, infatti, interrogarsi assiduamente su cosa si
nasconda dietro la manipolazione dell’informazione che gli organismi
istituzionali tentano di celare. Dunque per Fortini il “falso progresso”, che
tanta parte aveva avuto nella riflessione dell’ultimo Pasolini, è evidente
soprattutto nelle condizioni del mercato a lui contemporaneo:
Per dirla con enfasi sintetica: inserire qualche altro milione di italiani nel
circuito di consumatori di periodici, libri, esposizioni e dibattiti, ‘stante il
mercato quale è oggi’ è, secondo me, falso progresso ossia la più subdola forma
di regresso. La vittoria sul semianalfabetismo non può conseguire a battaglia
diversa da quella contro lo sviluppo della “industria delle coscienze” e contro
l’annichilimento di intelligenze e volontà compiuto dalla “cultura” e dai suoi
addetti3.
Le politiche internazionali traggono beneficio da quel circuito sempre più
allargato di consumatori poiché diffondere l’illusione, a livello popolare, di
un sapere interamente posseduto e saziare quella fame di status culturale
del ceto medio, aiuta a mantenere assopite le coscienze e a distogliere
l’attenzione degli individui dalle reali problematiche della società,
scoraggiando così ogni altro possibile interrogativo sul funzionamento dei
poteri multinazionali.
Autorità politiche e mediatiche sono artefici di un falso sapere comune
finalizzato a tenere lontano il «muro del rischio», ossia quell’area della
consapevolezza critica che nessuno osa avvicinare; sono numerose le vie traverse
offerte dal sistema per evitare che gli individui decidano di affrontare con
responsabilità la zona del rischio. Scrive Fortini che i dibattiti televisivi,
le conferenze e le tavole rotonde non sono mai state così vivaci, si può parlare
confusamente di tutti quei temi che la sinistra degli anni Sessanta «aveva
strappato alla ipocrisia generale»5, la droga, l’eros e così via, purché
facciano da diversivo e allontanino dalle vere questioni del Paese. Così
l’informazione mediatica pretende di essere democratica «perché di tutti come la
legge, e come di fronte alla legge oggi si proclama l’eguaglianza del cittadino
di fronte alle enciclopedie»6.
Si creano di conseguenza varie corporazioni intellettuali che sono, di fatto, al
servizio delle strategie di mercato del potere politico-economico. Come già
Pasolini aveva denunciato la falsa tolleranza delle democrazie occidentali così
Fortini mette in guardia contro le «maschere della tolleranza», ossia contro la
libertà illusoria che le pubbliche autorità fingono di concedere nella scelta
dei consumi. La modernizzazione e il progresso tecnologico hanno fatto sì che la
mercificazione della cultura, insieme alla comunicazione mediatica, plasmasse
un’opinione pubblica a immagine e somiglianza delle volontà dei poteri che
quella stessa cultura hanno prodotto.
La difficoltà sta proprio nel comprendere come, essendo tale «la condizione
della libertà in un universo di merci», l’oppressione possa somigliarle allo
stesso modo in cui «una perla coltivata somiglia ad una autentica»8.
Se tutto questo vuol dire democrazia Fortini non teme di autodefinirsi
antidemocratico:
È autoritario, è nemico della libertà chiunque ritenga che il mercato non debba
essere il regolatore supremo della circolazione delle informazioni, del sapere,
della cultura? In questo senso, sono autoritario. È antidemocratico chi pensa
che, esistendo di fatto una censura indotta dal mercato e, in definitiva, dal
potere economico-politico, si debba agire perché ai livelli della formazione
intellettuale (la scuola ma anche i “media”) si prepari la gente a usare con
astuzia gli strumenti del mercato e a resistere alla manipolazione? In questo
senso sono antidemocratico9.
Ricordando un motto di Adorno Fortini rammenta che «di quello di cui non si può
parlare bisogna parlare»10; l’invito è a sfidare l’omertà collettiva
e il silenzio. Si crea infatti una solidarietà negativa tra informatori e
informati che contribuisce all’annullamento di un’autentica opinione pubblica, e
più questa scompare più è necessario mantenerne la finzione tramite assordanti
ed inutili «ciarle culturali» da specialisti; causa della sua scomparsa è
l’improvvisa sovrapposizione «degli strumenti e delle sedi in cui dovrebbe
manifestarsi con quelli che la inducono»11. Sono soprattutto due i
mercati dell’opinione che si integrano a vicenda: uno è quello più tradizionale
che rispetta le gerarchie istituzionali e tiene conto dei diversi livelli di
prestigio e autorità intellettuale, l’altro è quello prodotto dai media che
punta al controllo indiscriminato dei consumatori. Dunque la requisitoria
fortiniana è contro l’informazione inutile che non costituisce un valido
incentivo alla ribellione e all’azione politica, bensì lo strumento attraverso
il quale si diffonde la menzogna del sapere come potere. Il «moto caotico delle
opinioni»12, così come Fortini lo definisce, genera impotenza e
frustrazione; è anch’esso una maschera di tolleranza dietro la quale si nasconde
non un’autentica libertà d’espressione, ma una controllata diffusione del
consenso. «Puoi dire e scrivere quel che vuoi, è vero, ma a condizione che quel
che dici non si faccia strumento di aggregazione»13 poiché chi
gestisce il sistema sa fiutare un simile pericolo.
In un simile scenario il ceto intellettuale non può che perdere la sua
originaria funzione di guida morale e Fortini prende atto che ormai
l’intellettuale-massa è una realtà più che consolidata. Anch’egli, come
Pasolini, percepisce la minaccia di un potere tecnologico sempre più invasivo
che si maschera da scienza per sedere a fianco della classe dirigente e mettersi
al suo servizio. I media non sono, come invece furono gli intellettuali, latori
di consapevolezza, ma concorrono all’elaborazione della falsa coscienza (nozione
hegeliana presente nel pensiero di Marx) e all’imposizione di quella ideologia
globale che è il mercato capitalistico. È dunque necessario creare veri spazi
d’opposizione in cui siano finalmente chiari i volti e i «nomi dei nemici» così
da poter combattere la demoralizzazione culturale e la colonizzazione
dell’inconscio promossa dalle industrie del sapere e dall’informazione mediatica.
A tal fine si è detto quanto sia necessario, secondo il parere di Fortini,
l’affermarsi di una critica dettagliata della produzione editoriale che
incoraggi i lettori ad interrogarsi sull’origine dei propri consumi culturali e
su quali interessi politici essi soddisfano. Egli racconta, in una intervista
rilasciata a Franco Brioschi, di essersi avvicinato al mondo dell’editoria
tramite le riviste e i suoi lavori di traduzione; così ha potuto avere accesso
ai segreti meccanismi economici che regolano un simile ambiente. Nonostante il
rapporto con questa attività non sia mai stato portato avanti dall’“interno”,
essa suscita comunque un certo interesse per lo stretto legame che intrattiene
con la nozione gramsciana di «organizzazione della cultura» (così scrive Fortini
in Dieci inverni: «col termine organizzazione della cultura si vuole intendere
l’insieme dei rapporti che intercorrono tra la produzione di cultura e le
strutture economico-politiche di una società. Così che la coscienza della
organizzazione della cultura equivale non solo a coscienza della sua storicità
ideale, ma del suo concreto condizionamento»14). Fortini sostiene
però che quest’ultima, nel caos moderno della comunicazione e dell’informazione
di massa, è andata incontro alla propria fine; d’altronde già a partire dagli
anni Sessanta, dopo il miracolo economico, il mondo dell’editoria ha iniziato a
trasformarsi:
A partire dagli inizi degli anni sessanta il panorama è ormai cambiato, e
comincia a somigliare sempre più a quello attuale. Le case editrici hanno
perduto quel loro carattere, immaginario, per cui credevano di essere veicoli
della cultura, e quindi di essere investite di una sorta di missione. E invece
diventano sempre più organi che veicolano delle mode. […] In quegli anni cambia
totalmente il panorama dell’editoria italiana, e cambia in questo senso la
nostra funzione di intellettuali all’interno di essa. Comincia allora a formarsi
un tipo di intellettuale, o di attività intellettuale, di secondo rango […] Nel
nostro paese manca una critica dell’editoria, una critica che sia anche storia
delle collezioni e delle scelte editoriali. Di questo argomento non si parla. E
non si parla perché non esiste una forza sociale ed economica che possa
farlo[…]Dall’altro lato c’è un fenomeno più generale, che investe tutte le forme
di comunicazione: la fine dell’opinione pubblica, nel senso di Habermas. Non
esistendo più un’opinione pubblica, non esiste più una critica letteraria
propriamente detta. Esistono finzioni. Tutti parlano di libri: ma appunto non
c’è mai un discorso che non si appoggi a un libro15.
Fortini ribadisce che sono stati gli anni Sessanta a metterci con le spalle al
muro. È chiaro che da allora l’editoria non è più sinonimo di cultura autentica
bensì cassa di risonanza per le mode, così come la lettura è ridotta ormai ad
uno squallido «mattatoio»16. Perfino le antologie dell’ editoria
scolastica sono, in realtà, le armi del potere17. Inoltre Fortini
ricorda le due principali tendenze del tardo capitalismo per poi rivelarne la
contraddittorietà solo apparente: da un lato, infatti, la cultura moderna aspira
ad un pubblico di massa reso omogeneo dal consumo di prodotti uguali per tutti,
dall’altro, invece, soprattutto attraverso le pubblicità televisive, si regala
l’illusione dell’unicità, ossia si propone un «modello di individuazione
estrema»18 che invita a distinguersi dagli altri. Il risultato è uno
«snobismo di massa, una corsa di topi»19 culturale dove ognuno finge
di essere quello che non è. Questo doppio movimento ha un unico scopo: fare gli
interessi del mercato capitalistico e controbilanciare la manipolazione delle
coscienze con la concessione di libertà controllate. Dunque la realtà
dell’industria culturale, sinonimo per Fortini di «fabbrica della coscienza»,
costituisce per lui uno degli aspetti più allarmanti del falso progresso; è un
punto cruciale sul quale non smetterà mai di insistere dal momento che l’unica
cultura di cui ci si può occupare è «quella che smonta e spiega il processo
produttivo della cultura circostante e che cerca di farci capire come funziona»20.
Bisogna comprendere qual è la cooperazione di poteri che presiede al modo di
produrre, vendere e consumare la merce del sapere così da avere sempre chiara la
«pianta topografica del mercato»21.
2.
Si è visto come svelare il volto delle forze che governano le formazioni
culturali sia una delle ossessioni di Fortini. Quest’ultimo svolge la sua
funzione intellettuale consapevole che il mercato della cultura ha ormai
affidato agli organi tradizionali della mediazione tra pubblico e scrittore,
come appunto l’editoria, i giornali e le riviste, un aspetto completamente
diverso. Per Fortini il boom economico ha significato anche la riproposizione
dello stato di alienazione, lo stesso che Marx aveva descritto in merito al
lavoro meccanico delle grandi industrie, all’interno dell’universo culturale. La
mercificazione del sapere e le sue forme di organizzazione sul mercato decretano
la fine di una ‘mediazione’ autentica tra l’intellettuale e il suo pubblico. È
il grande potere economico che gestisce la circolazione delle idee,
manipolandole a proprio piacimento e fornendo, nello stesso tempo, l’illusione
di una democraticità di pensiero ed espressione.
L’industria culturale, in accordo col potere politico, riesce ad alimentare
l’illusione dell’ indipendenza critica sebbene l’intellettuale sia ormai del
tutto asservito al sistema. Secondo Fortini è addirittura impossibile
distinguere la cultura di massa da quella d’élite dal momento che esiste una
notevole similarità tra le loro strutture e una certa omogeneità fra i loro
produttori e destinatari. Il venir meno di una simile distinzione può «essere un
modo per affermare che le distinzioni di classe stanno per scomparire o per
venir introiettate, sì che in ognuno di noi convivrebbero ormai il padrone e il
servo, il capitalista e lo sfruttato, il produttore e il consumatore di
sub-cultura»23.
Ma ciò che qui si vuole sottolineare è che Fortini ha piena coscienza della
deformazione degli strumenti culturali operata dal potere capitalistico; nel
momento in cui egli ne fa uso, si tratta comunque di un uso critico, consapevole
della strumentalizzazione a cui è sottoposto da parte del sistema economico e
dei nuovi condizionamenti in campo culturale. In uno scritto intitolato Per i
nemici della libertà risalente all’ottobre del 1976, Fortini chiarisce quale sia
il suo pensiero riguardo al lavoro intellettuale:
... Lo so:
mangio nel piatto
dell’amministrazione pubblica e anche in quello
dell’editoria. E ci sputo
dentro, seguendo l’esempio perverso
dei bidelli, dei reclusi e dei tipografi.
Eppure sono proprio persuaso:
non è bene lasciare gli editori
soli a decidere quali
libri possiamo leggere e quali ignorare […]24
Fortini sottopone l’attività intellettuale e gli strumenti che essa utilizza ad
una severa autocritica. Costringe la cultura a ragionare su se stessa e ad
interrogarsi sui propri canali di trasmissione. Se il lavoro letterario è ormai
diviso tra i tanti «addetti ai lavori», è necessario ricercare le radici della
nuova gestione del sapere e ricostruirne i processi per essere sempre critici
attenti nel mercato delle lettere. In altre parole il volto del potere economico
deve essere sottratto al suo anonimato e per far questo un passo obbligato è
appunto la riflessione della cultura sul funzionamento e la manipolazione dei
propri strumenti divulgativi, ossia, se così si può dire, una sorta di
riflessione metaculturale.
Si è visto come una differenza fondamentale tra l’analisi di Fortini e quella di
Pasolini consista nel fatto che quest’ultimo, nella sua violenta denuncia degli
effetti della mutazione, tralascia la critica ai meccanismi dell’industria
culturale per il semplice motivo che egli stesso ha saputo sfruttarla per
trasmettere al pubblico una precisa immagine di sé.
Pasolini arriva a patteggiare con il mercato letterario e con le grandi
comunicazioni di massa. Nel lungo iter della sua produzione intellettuale
un’importante fase di svolta è segnata, ad esempio, dall’inizio dell’attività
cinematografica. Questo non vuol dire che egli manchi di analizzare criticamente
e coscientemente la situazione della cultura nella modernità capitalistica, ma è
tuttavia innegabile la sua capacità di sapersi meglio destreggiare con le nuove
tecnologie offerte dal progresso. L’ambiguità del suo operato sta in un’aspra
requisitoria contro il processo di modernizzazione che è però
contraddittoriamente fronteggiata da una buona capacità di adeguamento alle
nuove forme di espressione che quella stessa modernità propone.
Pasolini accetta di entrare nel complicato groviglio dei processi di produzione
che Fortini cerca così faticosamente di sciogliere e chiarire. Sebbene sia
lecito sostenere, in accordo con quest’ultimo, che il lavoro cinematografico e
il contatto con «l’universo parassitario» della città di Roma abbiano trasmesso
a Pasolini quel «senso di facile onnipotenza che somministrano i milioni o i
miliardi dei produttori»25, facendogli dimenticare l’importante
interrogativo sui rapporti di produzione, lo stesso che Fortini si è posto in
merito all’editoria, non bisogna sottovalutare il fatto che il ricorso al cinema
è anche e soprattutto uno dei tanti aspetti che hanno reso la figura
intellettuale di Pasolini ancor più completa e complessa.
Lo strumento cinematografico non è, banalmente, il tacito consenso che Pasolini
dà alla modernità, ma un linguaggio attraverso il quale egli arricchisce la sua
figura di artista:
In breve: il sentire di non poter più scrivere usando la tecnica del romanzo si
è trasformato subito in me, per una specie di autoterapia inconscia, nella
voglia di usare un’altra tecnica, ossia quella del cinema. L’importante era non
stare senza far niente o fare negativamente. Tra la mia rinuncia a fare il
romanzo e la mia decisione di fare il cinema, non c’è stata soluzione di
continuità. L’ho presa come un cambiamento di tecnica. Ma era vero? Non si
trattava piuttosto dell’abbandono di una lingua per un’altra lingua?
Dell’abbandono della maledetta Italia per un’Italia almeno…transnazionale? Della
vecchia rabbiosa voglia di rinunciare alla cittadinanza italiana? Ma in fondo
non si trattava neanche di questo; no, non si trattava neanche dell’adozione di
un’altra lingua… Facendo il cinema io vivevo finalmente secondo la mia
filosofia. Ecco tutto26.
Il cinema, dunque, come «autoterapia inconscia». Una reazione agli
sconvolgimenti della modernità, non solo il complice sfruttamento di uno dei
suoi strumenti di comunicazione. Significativo è, infatti, il riferimento
all’Italia transnazionale, la stessa che veniva espressa, a suo parere, dalle
antiche culture sottoproletarie con le loro parlate dialettali. Il cinema è, in
un certo senso, uno strumento del mondo moderno il cui linguaggio serve anche a
ritrovare quell’essenza transnazionale che un tempo era appartenuta all’universo
preborghese, anche se in una veste differente.
Nel saggio La fine dell’avanguardia, risalente al 1966, Pasolini riflette sulla
funzionalità dello strumento cinematografico in relazione all’esperienza avanguardistica. Tra le cause che hanno indotto la fine dell’avanguardia
Pasolini insiste sull’evidente incapacità di quest’ultima di divincolarsi
dall’ambito piccolo-borghese risolvendosi, di fatto, in un implicito consenso al
sistema. Il cinema, invece, è il solo strumento di comunicazione che permette di
non rassegnarsi ad «essere fatalmente omologhi nella propria opera alla società
piccolo-borghese»27 dal momento che il suo linguaggio, ossia la
riproduzione audiovisiva del reale, è transnazionale, dunque la sua struttura
sociale corrispondente deve essere pensata come l’intera umanità civile. Per
questo il cinema, considerato sotto tale aspetto, permette di superare l’errore
commesso dall’avanguardia che ha visto esaurire la sua effimera funzione proprio
perché ha fatto “orecchio da mercante” di fronte alla necessità di odiare la
condizione borghese per riuscire a superarla e per potersi da essa riscattare.
Pasolini vuole dimostrare che il cinema rappresenta una eccezione alle leggi
dell’omologia esposte da Goldmann in Sociologia del romanzo28.
Secondo tali leggi esiste una diretta corrispondenza tra struttura romanzesca e
struttura sociale. Ebbene il cinema, linguaggio che riproduce la realtà, non può
possedere strutture strettamente omologhe a quelle della società storica dove il
film è stato prodotto. Questo perché la riproduzione audiovisiva del reale è un
linguaggio identico ovunque, transnazionale appunto. Ecco perché le strutture
della lingua del cinema «prefigurano una possibile situazione socio-linguistica
di un mondo reso tendenzialmente unitario dalla completa industrializzazione e
dal conseguente livellamento implicante la scomparsa delle tradizioni
particolaristiche e nazionali»29. Dunque il cinema come
prefigurazione di una società ormai completamente industrializzata. La sua
transnazionalità non è più quella genuina dell’antico universo contadino, ma
quella che riflette la piatta e alienante uniformità del mondo capitalistico.
Eppure non per questo il poeta di Casarsa rinuncia a saggiarne le potenzialità.
Forse è proprio nell’immediatezza viscerale con cui il Pasolini “antimoderno” ha
respinto l’avvento del neocapitalismo che è possibile ritrovare una ragione
della sua successiva compromissione nella nuova industria delle
telecomunicazioni. La requisitoria che non ammette mediazioni ed è salda nelle
sue posizioni estreme può forse cogliere in anticipo, e senza dubbio con
straordinario acume, le contraddizioni del presente; tuttavia se poi viene meno
la fase della dialettica lucida e razionale, quella che non è mancata a Fortini
e che svela il volto e il «nome dei nemici», andrà essa stessa incontro alla
contraddizione e sarà inevitabilmente invertita di segno. Il rifiuto senza
compromesso del sistema si risolve, così, nel patteggiamento con la modernità.
L’immediatezza e l’urgenza della negazione implicano il controsenso
dell’accettazione.
3. È evidente che dinnanzi al fenomeno della mutazione antropologica lo
sperimentalismo di Pasolini non teme di misurarsi con i più svariati linguaggi e
di adeguarsi, seppur contraddittoriamente, alla mutazione degli strumenti
intellettuali, accettando così di lasciare senza volto il potere economico che
spesso li condiziona La “metacritica” di Fortini, come giustamente l’ha definita
Pier Vincenzo Mengaldo30, non può, al contrario, riflettere sulla
mutazione senza prima interrogare se stessa e i propri mezzi espressivi. Ciò
significa che non si può denunciare il cambiamento se non si porta avanti, di
pari passo, un’indagine sulle interferenze del sistema politico ed economico
sugli organi della cultura addetti alla trasmissione del sapere e
all’informazione. La critica non è solo un linguaggio che chiama in causa la
realtà esterna, ma deve anche essere dotata di uno sguardo introspettivo che la
porti a farsi critica di se stessa e consapevole delle proprie condizioni nel
secolo della scienza e della globalizzazione. Non si può ignorare il
funzionamento dell’industria culturale né tantomeno le dinamiche del mercato
editoriale se l’intenzione è quella di ricercare coscientemente spazi ancora
utili all’attività critico-intellettuale. Nell’invito a riconsiderare
l’importanza della nozione gramsciana di “organizzazione della cultura” e a
capire il nesso tra sistema economico e produzione culturale si nasconde uno dei
messaggi più attuali di Franco Fortini. Non basta essere consapevoli che nel
mondo moderno, compreso il nostro, la cultura è ormai merce, bisogna anche
essere in grado di riconoscere le influenze politiche e gli interessi economici
che l’hanno immessa sul mercato. Per questo non si può che avallare l’allora
«perplessa richiesta di una critica della produzione editoriale»31
avanzata da Fortini.
note
2 Ibid.
3 Id., La strage dei libri, in Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984,
Milano, Garzanti, 1987.
4 Id., Del sapere comune, ivi, p. 151.
5 Id., Il muro del rischio, ivi, p. 16.
6 Id., Del sapere comune, cit., p. 152.
7 Ibid.
8 Id. , L’ignoranza volontaria, ivi, p. 262.
9 Id., Quattro questioni di frontiera, ivi, p. 95.
10 Id., Contro il silenzio, in Extrema ratio. Note per un buon uso
delle rovine, Milano, Garzanti, 1990.
11 Id., Dare e togliere la parola, in Insistenze, cit., p. 77.
12 Id., Contro il silenzio, cit., p. 29.
13 Ibid.
14 Id., Per una critica come servizio, in Dieci inverni (1947-1957).
Contributi ad un discorso socialista, Milano, Feltrinelli, 1957 (II ed.
Bari, De Donato, 1974).
15 Id., Editoria di cultura e editoria di moda, in Un dialogo
ininterrotto, interviste 1952-1994, a cura di Velio Abati, Torino,
Boringhieri, 2003.
16 Id., La strage dei libri, cit., p. 228.
17 Nel 1948 Togliatti appoggia L’Universale Economica e Fortini ricorda la
discussione sorta a proposito dell’editoria a cui egli prende parte sostenendo,
data la fase di depressione di un’Italia ancora prevalentemente analfabeta, la
necessità di puntare non tanto sulla ripresa di classici in edizioni economiche,
bensì su una manualistica a carattere enciclopedico che non escluda una
dimensione scientifica contro l’ipotesi di una cultura prevalentemente
letteraria. In merito poi all’editoria scolastica Fortini denuncia
un’organizzazione del sapere che vive all’ombra di “sempre più babeliche torri
antologiche” dove si perdono le vere coordinate del testo letterario. Tutto ciò
spinge Fortini ad affermare che, a questo punto, l’ignoranza vera è sempre
preferibile alla pratica del “tutto e male”, ossia alla ignoranza falsa.
18 F. Fortini, Contro lo snobismo di massa, in Un dialogo ininterrotto,
cit., p. 549.
19 Ivi, p. 554.
20 Id., Il caso Karenina, in Id., Un giorno o l’altro, Macerata,
Quodlibet, 2006, p. 474.
21 Ibid.
22 Id., Industria culturale, ivi, pp. 71-72.
23 Id., Cultura di massa, ivi, p. 348.
24 Id., Per i nemici della libertà, in Disobbedienze I. Gli anni dei
movimenti. Scritti sul Manifesto 1972-1985, Roma, Manifestolibri, 1997.
25 Id., Pasolini politico, in Attraverso Pasolini, cit., p. 196.
26 P.P. Pasolini, La fine dell’avanguardia, in Saggi sulla letteratura
e sull’arte, Milano, Mondadori, 1999.
27 Ivi, p. 1415.
28 L. Goldmann, Per una sociologia del romanzo: una ricerca esemplare sui
rapporti tra letteratura e società, Milano, Bompiani, 1981.
29 P.P. Pasolini, La fine dell’avanguardia, cit., p. 1404.
30 Pier Vincenzo Mengaldo, Appunti su Fortini critico, edito in «Annali
della Facoltà di Lettere e Filosofia», Università degli studi di Siena, VII,
1986 (“Seminario in onore del prof. Franco Fortini”) ora in Id., La
tradizione del Novecento, seconda serie, Torino, Einaudi, 2003.
31 F. Fortini, Per uno stato civile del libro, in Insistenze cit., p. 89.
[12 giugno 2012]
home> fortiniana> L’industria culturale di Fortini e l’industria cinematografica di Pasolini: la mutazione degli strumenti intellettuali